Edere si arrampicano incuranti e feroci, possiedono anfratti, divorano la pietra, cancellano la storia.

Roma.

La pienezza di questa città invade i miei pensieri, soffocando il desiderio di allontanarmene, alimentando la smania di catturare ogni scorcio, di fermare il tempo che sgretola ogni cosa.

Roma, invece, non ha fretta. Mi osserva mentre la ritraggo. Beffarda, arrogante, libera. La sento respirare tra queste rovine, i suoi segreti si nascondono sotto le opere create per celebrare l’eternità di imperatori e papi, sulle cui ossa, sotto il marmo delle chiese, generazioni di uomini camminano irriverenti, senza memoria.

L’odore putrido del Tevere invade le mie narici. Una barca scivola annoiata verso il porto di Ripetta, oltre ponte Sisto. Un remo sciaborda nell’acqua, gesti ripetuti identici da generazioni di barcaioli segnano il ritmo di vite consumate senza gloria.

La luce gioca tra gli antichi capitelli, nasconde e svela immagini che si accumulano sui fogli che tengo in grembo. L’ombra disegna intuizioni che non faccio in tempo a fissare sulla carta, ma scolpisco nella mia memoria in attesa di graffiare il rame delle mie incisioni.

Dai riflessi balzano fuori luoghi immaginari, mondi fantastici in cui si affastellano meraviglie, riempiendo ogni spazio libero. Emergono invenzioni capricciose e visioni ardite. La mano scorre rapida, mossa da una pulsione indipendente dalla mia volontà, disegna spazi impossibili in cui il tempo e lo spazio hanno regole sovvertite che mi sorprendono per la loro bellezza inconsueta.

Sono le mie carceri: lo spazio in cui posso essere libero e immortale.

 

Susanna Albertini

 

Immagine di apertura: “Rovine d’una Galleria di Statue nelle Villa Adriana a Tivoli” di Giovanni Battista Piranesi (1748-1774), incisione. Da Vedute di Roma. Tomo II, tav. 68 // Opere di Giovanni Battista Piranesi, Francesco Piranesi e d’altri. Firmin Didot Freres, Paris, 1835-1839. Tomo 17.