Alle prime luci dell’alba, la carlinga del Macchi 202 sfiorava le onde mentre scivolavamo sul blu del Mediterraneo, lasciandoci alle spalle la disfatta.

Nel silenzio dell’ultimo volo, mentre perlustravo l’orizzonte alla ricerca di convogli nemici che presidiavano le acque largo di Malta, mi risuonava in testa il Bolero di Ravel, chissà perché.

Forse quel ritmo incalzante, travolgente e spietato sembrava gridare il dolore per i compagni morti, il nostro esercito sbeffeggiato, gli aerei distrutti, i soldati italiani abbandonati in Tunisia. Avevamo combattuto con ogni mezzo, rattoppando il coraggio con illusioni di una vittoria che sembrava sempre più difficile: gli inglesi erano dappertutto, sapevano in anticipo ogni nostro pensiero ed erano decisi a spazzare via l’Italia dall’Africa.

Volavamo a pelo d’acqua, per non farci intercettare. Il pilota seduto sulle ginocchia di un compagno nello spazio angusto dell’abitacolo del caccia, otto persone in tutto, stipate sui quattro aerei superstiti, tutto ciò che rimaneva del 54º Stormo della Regia Aeronautica. Alleggeriti di tutto, inclusi paracaduti e munizioni. I compagni lasciati a terra, tra le macerie della pista di Korba, la nostra base bombardata, gli apparecchi come scheletri nella polvere rossa del deserto.

Avevamo fatto un passaggio radente di commiato, scuotendo le ali, i nostri sorridevano, urlavano e applaudivano: portavamo con noi le loro lettere per le fidanzate e le mamme. Eravamo l’ultimo barlume di vita, prima dell’oscurità della prigionia dei vinti.

Ero stato esentato dall’estrazione che aveva deciso chi sarebbe partito: Il sette maggio era nato mio figlio.

Il Bolero nella mia testa crebbe ed esplose nella gioia, nonostante tutto.

Il piccolo Mauro mi aspettava dall’altra parte del mare, con lui tra le braccia avrei capito dove cercare il coraggio di ricominciare.

 

Susanna Albertini

 

Fonte immagine: Un Macchi M.C.202 in volo – Wikipedia