I libri sono dei serbatoi di emozioni e, come tali, ci aiutano anche a comprendere meglio noi stessi e la realtà che ci circonda. Prendo spunto dal bel post di Elena Ferro dal titolo “Quali libri hai letto più di due volte e perché”, che potete trovare qui, per motivare le mie scelte in un vero e proprio articolo.

Anch’io, come Elena, ho diversi libri letti e riletti, ma, se dovessi far salire su un podio soltanto tre libri, non avrei dubbi. Ecco i miei preferiti:

 

  1. “Il rosso e il nero” di Stendhal
  2. “Jane Eyre” di Charlotte Brontë
  3. “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij

Libri letti più di due volte. Perché?

 

Veniamo a considerazioni di carattere generale sui tre volumi. Balza all’occhio il fatto che:

  • siano tre pietre miliari della letteratura di tutti i tempi, ormai etichettati come classici;
  • gli autori siano di diverse nazionalità e offrano una descrizione – termine quanto mai riduttivo per simili capolavori – della loro terra e del loro tempo storico;
  • si avvalgano di un protagonista o una protagonista attorno a cui si muovono gli altri personaggi;
  • siano romanzi psicologici, ambientati prevalentemente in interni (abitazioni, collegi, dimore aristocratiche, accademie militari, seminari, salotti…). I protagonisti viaggiano poco o, se lo fanno, compiono tragitti brevi e nell’ambito della stessa regione o nazione.

 Aggiungo un elemento di non secondaria importanza:

  • lessi questi romanzi quando ero un’adolescente avida di letture. Li compravo in via Giotto a Milano, dove c’era la libreria gestita dalle edizioni Paoline. La casa editrice per tutti e tre era l’edizione Garzanti tascabile, con copertine di diverso colore rispetto alla nazionalità dell’autore (rossa per i francesi, grigio antracite per gli inglesi e verde scuro per i russi). Al centro campeggiava un bel quadro, e ogni romanzo era preceduto da una prefazione scritta dalla penna illustre di un critico letterario (altra specie ormai in via di estinzione) che ti guidava alla lettura senza svelare troppo la trama.

 Vado ora nello specifico per ciascuno di questi capolavori.

1. “Il rosso e il nero” di Stendhal

 

Ne “Il rosso e il nero. Cronaca del 1830” (titolo originale, “Le Rouge et le Noir”), il protagonista, Julien Sorel, è un ragazzo della provincia francese, divorato dall’ambizione. Grazie alle sue doti di latinista e ai suoi studi di teologia, lascia la segheria del padre ed entra come istitutore presso il sindaco di Verrières, Monsieur de Rênal.

La storia si svolge all’epoca della Restaurazione monarchica del 1830, quando ancora forti erano gli echi del periodo napoleonico. Jean Sorel, infatti, è un fervente ammiratore di Napoleone, di cui possiede un ritratto; ma esprime il suo fervore di nascosto perché tale devozione politica comprometterebbe la sua ascesa.

Il giovane tenta di salire la scala sociale attraverso una combinazione di talento, studio e lavoro, inganno e ipocrisia e lo fa anche servendosi della sua avvenenza fisica e delle donne che incontra: dapprima seduce Madame de Rênal, che si innamora perdutamente di lui, e poi, a Parigi, diventa l’amante della giovane ereditiera Mathilde de La Môle.

Il titolo dell’opera fa riferimento al nero della veste sacerdotale e al rosso dell’uniforme militare, tra cui oscilla Sorel, ma potrebbe anche riferirsi all’allora popolare gioco di carte “rouge et noir“, e alla fortuna che sembra sempre assistere il protagonista nel suo gioco d’azzardo con la vita…

 

Perché “Il rosso e il nero”                                         

  • Oltre a leggerlo in gioventù, fu galeotta una mini-serie televisiva – allora si diceva “sceneggiato” – dove Julien Sorel era interpretato da Nikolai Yeremenko, e galeotta fu anche l’insegnante di francese del mio liceo linguistico che parlò diffusamente de “Il rosso e il nero” durante una lezione, e m’incantò.
  • Non ridete: è stato scritto da un francese e parla della Francia. Tutti sanno che ho una passione sviscerata per la Francia, e quindi questo romanzo mi è molto caro per questo motivo. L’autore mi è parimenti simpatico in quanto Monsieur Henri Beyle (Stendhal è uno pseudonimo) definiva se stesso “milanese” d’adozione. Che cosa posso volere di più?
  • È la storia appassionante di un giovane dallo spirito raffinato e intellettualmente elevato che si trova a disagio a contatto con la rozzezza del suo prossimo, Monsieur de Rênal per esempio. Egli è anche un non-eroe, se vogliamo, che calcola attentamente ogni sua mossa. Dietro la sua apparente freddezza, si intuisce però una natura focosa, che non mancherà di manifestarsi, e quindi si parteggia per lui…
  • Per l’introspezione psicologica e il fatto che il lettore possa seguire i meandri dei suoi pensieri, e quelli degli altri personaggi di rilievo, come la tenera Madame de Rênal.
  • Per il superbo ritratto di un epoca, quella della Restaurazione monarchica in Francia, dell’ambiente di campagna e di città.
  • Per lo stile, dinamico e modernissimo, e l’ironia che pervade i pensieri di Jean Sorel in determinate situazioni.

2.“Jane Eyre” di Charlotte Brontë

“Jane Eyre” (titolo originale “Jane Eyre: An Autobiography”) è un romanzo di formazione della scrittrice inglese Charlotte Brontë, uscito nel 1847 sotto lo pseudonimo di Currer Bell.

La protagonista è una ragazzina orfana che viene accolta in casa della zia, Mrs Reed, dove viene sottoposta a una serie di angherie sia da parte della parente che dei cugini. Accusata di essere una bambina ribelle, viene chiusa in una scuola di carità per fanciulle orfane dove vige una durissima disciplina all’insegna del sadismo.

Il carattere della fanciulla viene forgiato in un tale ambiente; riesce comunque a sopravvivere – nel vero senso della parola, dato che l’istituto viene funestato da un’epidemia di tifo – per poi proseguire e ultimare gli studi. Diventa un’apprezzata insegnante all’interno dello stesso istituto, che nel frattempo ha cambiato direttore e metodi.

I suoi trascorsi la rendono una donna libera e indipendente, il che le permette di lasciare il collegio e trovare un’occupazione presso la dimora di Thornfield Hall, quale istitutrice di Adele, figlia del misterioso Mr Rochester. L’incontro tra i due farà scoccare la scintilla dell’amore, anche se un terribile segreto è racchiuso tra le mura di Thornfield Hall…

 

Perché “Jane Eyre”

  • Come non rispecchiarsi in questa eroina dal carattere tranquillo e fermo, decisa a rivendicare la sua autonomia perfino nei confronti dell’uomo che ama? Anche se i tempi sono cambiati, Jane resta un modello di riferimento per qualsiasi ragazza di ieri e di oggi: ha le idee chiarissime e per lei la parola d’ordine è “indipendenza” a qualsiasi costo, e di conseguenza la salvaguardia della sua dignità personale; infatti è vista come un’antesignana del femminismo.
  • Jane è uno spirito libero, e la sua libertà si esprime innanzitutto nella fantasia che si traduce nei suoi lavori artistici, cosa che Rochester capisce immediatamente.
  • Jane non è bella, anzi, viene descritta come una diciottenne incolore (è il contrario, se vogliamo, di Julien Sorel), per giunta mortificata nel suo abito grigio da istitutrice e con i capelli acconciati in rigide pettinature vittoriane. Proprio per questo motivo non può avvalersi della sua bellezza per sedurre il padrone di casa; lo conquista invece con il suo carattere, la sua dolcezza, l’arguzia del suo spirito (inarrivabili sono i battibecchi con Mr Rochester), la sua mancanza di sottomissione. In poche parole, Jane è sempre se stessa.
  • “Jane Eyre” è un romanzo gotico, e la dimora di Thornfield Hall custodisce appunto un terribile segreto: dall’ultimo piano si sente provenire una strana risata, presenze oscure si muovono di notte, appiccando incendi, ospiti giunti inaspettati vengono aggrediti e feriti. Per me, che adoro i libri con segreti, niente di meglio! Vi dirò di più, nonostante ormai sappia a memoria la natura di questo segreto, ogni volta l’ho letto come se fosse la prima volta. E anche in questo caso grande parte ha avuto lo sceneggiato in bianco e nero.
  • Il racconto è scritto in forma autobiografica, con la protagonista, Jane Eyre appunto, che si rivolge in modo diretto al “lettore” raccontando le sue traversie, e quindi il tutto è molto coinvolgente.

3. “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij

Di questo autore russo ho letto pressoché tutto e ho amato tutto. Considerato uno dei massimi capolavori della letteratura russa, “L’idiota” vuole rappresentare “un uomo assolutamente buono”, un Cristo del XIX secolo. Così descrive l’autore, in una lettera, su come nasce in lui l’idea del romanzo:

 Da tempo mi tormentava un’idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un’idea troppo difficile e non ci sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest’idea è raffigurare un uomo assolutamente buono. Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto.

Ho letto che l’aggettivo buono usato nella lettera fosse prekrasnyj nell’originale russo, a indicare lo splendore della bellezza e della bontà insieme. 

All’inizio del romanzo, il principe Lev Nikolàevič Myškin (“l’idiota”) ritorna in Russia dopo un soggiorno in Svizzera in una clinica dove si era cercato di guarirlo dall’epilessia. Rimasto privo di mezzi, alla morte di una zia spera di ricevere in Russia la sua eredità.

Durante il viaggio in treno incontra Parfën Rogòžin, il figlio squattrinato di un ricco mercante morto di recente, che, come il principe, torna a reclamare l’eredità, e un funzionario. Durante la conversazione emerge il nome di Nastàs’ja Filìppovna, di cui Rogòžin è follemente innamorato.

Dopo essersi accomiatato dagli altri due a San Pietroburgo, dove il principe si ferma per fare visita all’ultima Myškin ancora in vita, Elizavèta Prokòf’evna, egli si reca nell’appartamento di questa e ne incontra il marito, il generale Epančin, e il suo segretario Gavrìla. Gavrila gli mostra il ritratto della sua possibile futura sposa, la stessa Nastas’ja amata da Rogožin…

 

Perché “L’idiota” 

  • Potreste chiedere perché “L’idiota” e non, per esempio, “Delitto e castigo” o “I fratelli Karamazov”. Perché amo moltissimo il protagonista, un uomo che irradia grazia e luce. Nel libro viene infatti detto che il principe Myškin personifica la bellezza e la grandezza caratteriale. Egli è un nobile, non perché è titolato ma perché è un principe dello spirito, pieno di amore e compassione per il prossimo e soprattutto per i bambini che soffrono. Tutti i personaggi del libro sono attirati, e a volte anche respinti, da lui, poiché senza volerlo egli funge da specchio e questo può essere affascinante o terribile a seconda dei casi.
  • Viene definito un “idiota” non soltanto perché soffre di attacchi di epilessia, di cui lo stesso Dostoevskij era affetto, ma perché non ha la stessa brama di possesso, la stessa mancanza di scrupoli, la stessa superbia sociale e mondana degli altri. Si muove come un innocente nella giungla urbana e sociale di San Pietroburgo, piena di fiere pronte a sbranare il prossimo.
  • È un romanzo dove i destini dei protagonisti sono intrecciati in modo indissolubile, e in molti di loro, eccetto Myškin, scorre una sorta di febbre, di smania, di velocità anche fisica che proviene innanzitutto dal loro animo irrequieto e malato, il che conferisce alle situazioni un effetto spesso caotico. Tutti comunque sono destinati a transitare attraverso Myškin per risolvere, in senso positivo o drammatico, gli snodi che li riguardano.
  • Parla del rapporto dell’uomo con Dio e di grandi temi religiosi e sociali (l’Anticristo, il nichilismo, il socialismo, l’Apocalisse, la condizione della donna…), ancora oggi attuali.

 

***

Ho concluso la mia carrellata! Spero che le mie scelte vi siano piaciute e, magari, vogliate partecipare con un vostro post.

Cristina M. Cavaliere