Il mio incontro con Vita e destino

 

Sono appena uscita dalla lettura del romanzo Vita e destino di Vasilij Grossman con la sensazione di aver soltanto sfiorato un oceano, immenso per ampiezza e abissale per profondità, nutrita a sazietà come lettrice e nello stesso tempo profondamente insoddisfatta per l’impossibilità di cogliere l’opera nella sua complessità in una sola, prima lettura.

Il titolo di questo romanzo continuava a ripresentarsi a me a più riprese, come a chiedere con insistenza di essere letto. L’ho sentito nominare varie volte come uno dei grandi, imperdibili libri per capire meglio il Novecento – il cosiddetto secolo breve secondo Hobsbawm – e specialmente da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Ora, per esperienza personale, so che quando alcuni romanzi sono molto osannati potresti imbatterti nella classica “sola”. Mi è accaduto persino con premi Nobel o autori di rango e, cosa curiosa ma non troppo, con autori contemporanei e molto spesso italiani. Nel panorama editoriale sembra esserci stata una caduta libera da venti anni a questa parte e un vero e proprio appiattimento. Colpa delle cosiddette scuole di scrittura creativa o di questo nostro tempo in cui leggere un libro di duecento pagine equivale a fondere i neuroni? Andiamo talmente di fretta che non riusciamo a leggere se non brevi racconti e abbiamo la memoria di un pesce rosso?

“Ai posteri l’ardua sentenza” come scriveva Alessandro Manzoni nell’ode Il 5 maggio e noi ritorniamo a parlare di Vita e destino che merita tutta la nostra attenzione. Tra l’altro il manoscritto ebbe una sorte avventurosa, e il romanzo rischiò di non uscire perché alcune copie vennero sequestrate dal Kgb.

L’autore

 

Grossman era un giornalista e un corrispondente di guerra e assistette a molti degli orrori che descrisse nei suoi libri. Raccontò per primo il genocidio degli ebrei nell’Europa orientale e fu presente a molte battaglie. Grossman, un ebreo russo, dopo la fine della guerra vide tradite le speranze, sue e di tutti i sovietici, in un miglioramento del regime comunista, e fu dolorosamente colpito dalla campagna antisemita dilagante al tempo. Per questo motivo Vita e destino ha anche a che fare con la Giornata della Memoria e per questo la voce dello scrittore ogni tanto dice la sua, in maniera giusta e sacrosanta come se non riuscisse a tacere, e riprendendo la tradizione dei grandi romanzi ottocenteschi.   

Lo scrittore Vasilij Grossman sul fronte di guerra in Germania nel 1945.

La trama

 

Il romanzo è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e molte pagine sono dedicate all’assedio di Stalingrado e alla battaglia, tra le più cruente nella storia dell’umanità, tra esercito nazista e difensori sovietici e che costò oltre un milione e mezzo tra morti, feriti e dispersi. Lungo il settore meridionale del fronte orientale, tra il Don e il Volga, infuriano i sanguinosi combattimenti tra l’Armata Rossa e le forze tedesche della Wehrmacht per il controllo della città di Stalingrado, chiave d’ingresso per la conquista del territorio sovietico. I due grandi regimi totalitari – quello nazista e quello sovietico – si affrontano in una lotta mortale, come due giganti avvinghiati in un panorama di rovine e distruzione, e terrore. Altre pagine sono dedicate ai campi di concentramento nazisti e ai lager sovietici dove vengono rinchiusi i delinquenti comuni e gli oppositori, persino i bolscevichi della prima ora poiché dopo le epurazioni del ’37 da parte di Stalin di essi si vuole fare piazza pulita. Altre pagine ancora sono ambientate nella steppa calmucca in scenari naturali di grande respiro. La città di Stalingrado è la protagonista assoluta del romanzo, ma non è l’unico contesto urbano poiché molti episodi sono ambientati a Mosca e a Kazan’ dove i Šapošnikov sono sfollati.

 Due sottufficiali della 24 Panzer-Division in azione nell’area della stazione meridionale di Stalingrado

il 15 settembre 1942.

I personaggi

 

Al centro delle vicende c’è difatti la famiglia Šapošnikov, in special modo il capofamiglia Štrum, fisico e membro dell’Accademia delle Scienze, e la moglie Ljudmila, e la miriade di personaggi che ruotano attorno a essa. Sono amici, parenti e conoscenti, in cerchi concentrici sempre più ampi che comprendono man mano altri personaggi a loro collegati, alcuni al fronte, altri rinchiusi nei lager, altri ancora che vivono e operano all’interno della centrale elettrica di Stalingrado. I personaggi sono tantissimi e, sebbene divisi a gruppi di tipo familiare, scientifico e militare – alla fine del romanzo c’è un elenco così suddiviso – sono tutti imparentati tra di loro o hanno relazioni di amicizia o inimicizia, o di tipo politico.

I patronimici russi non aiutano a identificare i personaggi (Aleksej Alekseevič Sišakov) e spesso confondevo un personaggio con l’altro (ci vorrebbe un casting iniziale per attribuire una faccia a un nome), alcuni cognomi sono piuttosto simili (Spiridinova, Mar’ja Nikolaevna e Šapošnikova, Sofia Nikolaevna). La mia profonda ignoranza sulla gerarchia militare e sulle dinamiche della battaglia di Stalingrado ha aggiunto un altro motivo di difficoltà. 

Per i motivi di cui sopra non è un romanzo facile da leggere, tra cui l’impressionante foliazione di 980 dense pagine: è una vera sfida anche per lettori più allenati.

La grande Storia e la piccola storia

 

Le vite e i destini dei protagonisti sono come immersi e travolti da eventi più grandi di loro, i combattimenti, la guerra, i bombardamenti, la difesa, la miseria, la fame, la detenzione, la condizione di ebrei che li porta alle camere a gas. Persino una conversazione politica può portare dei guai. Essi affrontano le prove di volta in volta a seconda del proprio carattere, e di quell’atavico istinto di sopravvivenza che porta a compiere le bassezze più abbiette pur di salvarti, in un campo di concentramento o a casa propria, dove la telefonata di Stalin (il “Padrone”) può determinare il tuo arresto o la tua riabilitazione agli occhi, per esempio, della comunità scientifica che ti sta ostracizzando. O, per non perdere la ragione di fronte alla morte di un figlio, di continuare a parlare con lui nella propria casa e di tenere immutata la sua stanza come se dovesse tornare dal fronte da un momento all’altro. Mio marito stesso aveva una zia che nel dopoguerra teneva sempre in ordine la stanza del figlio, medico militare disperso in Russia, e non volle mai cambiare casa nella convinzione che, se fosse ritornato, li avrebbe cercati a quell’indirizzo.

La prosa

 

Dalla lettura di Vita e destino esci diverso, il che è la caratteristica dei capolavori. La prosa ti ripaga di qualsiasi fatica, ci sono descrizioni degli orrori della guerra accostate alla meraviglia della natura, che continua nelle sue manifestazioni, lancinanti per precisione e bellezza e ti dici: “Ma come fa?” (mi è venuto in mente a più riprese Marcel Proust, anche se il suo Alla ricerca del tempo perduto è molto diverso). È un’immersione nel dolore umano, un viaggio negli inferi che solo un grande scrittore, uno di quelli che ha vissuto quel dolore, che ha visto quelle cose, può compiere e trasmettere. Quello di cui scrive non è frutto della sua fantasia, anche se tu non conoscessi nulla di Grossman sentiresti che è tutto vero.

Ci sarebbe tanto altro da dire, ma, come ripeto, Vita e destino è un oceano di cui puoi solo cogliere un po’ d’acqua con un cucchiaino da caffè. Concludo questo post citando soltanto un paio di passaggi, tra i molti che mi hanno colpito.

Nel primo alcuni dei protagonisti ebrei, dopo un lungo viaggio in treno, arrivano a un campo di concentramento tedesco:

I viaggiatori furono portati in un grosso spiazzo. Nel mezzo, su un palco di legno di quelli che di solito si allestiscono per le feste del paese, li attendeva qualche decina di persone. Un’orchestra. Uomini molto diversi fra loro, come diversi erano i loro strumenti. Alcuni si girarono a guardare la colonna in avvicinamento. Ma poi un uomo canuto con un giaccone chiaro disse qualcosa e tutti, sul palco, afferrarono gli strumenti. Fu come il grido spaurito e improvviso di un uccello, e l’aria lacerata dal filo spinato e dal fischio delle sirene, l’aria che puzzava di immondizia e di grasso bruciato, si riempì di musica. Fu come un temporale zingaro d’estate, acceso dal sole, che si schiantava a terra fra mille scintille.

In un altro passaggio del libro Lehnard, uno dei comandanti dell’esercito tedesco, sta transitando a bordo della sua automobile. La benzina è stata razionata per disposizioni di Paulus, il generale in capo dell’esercito.

L’autista fermò la macchina accanto alla carogna di un cavallo, sul ciglio della strada, e cominciò a rovistare nel motore mentre Lehnard osservava alcuni uomini con la barba non rasata intenti a squartare la bestia congelata a colpi di scure. Un soldato si infilò tra le costole nude del cavallo: pareva un falegname in mezzo alle capriate di un tetto in costruzione. Poco distante, tra le macerie di una casa vicina, ardeva un falò: un pentolone bolliva appeso a un treppiede circondato da soldati in elmetto o bustina da aviatore, avvolti in coperte e scialli, con i mitra ad armacollo e le granate alla cintola. Il cuoco ricacciava giù con la baionetta i pezzi di carne che affioravano. Intanto sul tetto del bunker un soldato spolpava senza fretta un osso di cavallo che somigliava a un’enorme, ciclopica armonica a bocca.

E di colpo il sole al tramonto illuminò la strada e la casa morta. Le orbite bruciate delle case di riempirono di sangue gelato, la neve sporca per la fuliggine della battaglia e graffiata dagli artigli delle mine si tinse d’oro; la caverna rosso scuro scavata nelle viscere del cavallo morto si accese di luce e la tempesta di neve prese a rovesciarsi sulla strada come bronzo pungente.

A testimonianza che le guerre sono tutte tragicamente uguali, vi propongo anche un quadro dal titolo The Menin Road di Paul Nash (1919), Imperial War Museum di Londra. In un panorama desolato, alcune figure umane vagano tra pozze d’acqua, macerie e alberi bruciati sotto un cielo cupo come il piombo.

Ebbene, che ve ne pare? Avete memoria di un libro che potreste considerare come “un libro imperdibile” e che vi ha segnato profondamente?

Cristina M. Cavaliere

Fonte testo: Vita e destino di Vasilij Grossman – Gli Adelphi – Traduzione di Claudia Zonghetti