Che cos’hanno in comune il cadetto Guglielmo, vissuto a cavallo tra l’XII e il XIII secolo, con un giovane dei giorni nostri, energico e ambizioso, e che vuole farsi strada nella vita ma ha pochi mezzi?
La storia narrata nel bel saggio di Georges Duby, Guglielmo il Maresciallo, ci racconta le vicende di un giovane cadetto, che l’autore ci restituisce nella piacevole forma narrativa di un romanzo. Duby è stato uno dei più grandi storici del secolo scorso. Scomparso nel 1996, ha insegnato per oltre vent’anni al Collège de France. Al suo attivo vi sono numerosissime opere, titoli quali L’arte e la società medievale, Il cavaliere, la donna e il prete, Medioevo maschio, Il potere delle donne nel Medioevo.
Come recita la quarta di copertina Guglielmo, tra tornei, battaglie, “omaggi” alle casate più illustri, e attraverso le strategie matrimoniali, riesce a salire la scala sociale praticando le quattro virtù cavalleresche fondamentali per il successo: coraggio, lealtà, cortesia, prodigalità. Emerge però anche il lato più oscuro del protagonista, con difetti e bassezze, in un tempo dove le alleanze cambiavano con velocità, e a tale rapidità occorreva adattarsi.
L’addio del cavaliere
La storia di Guglielmo da Pembroke non si apre con l’inizio dedicato alla sua nascita e infanzia, ma, a sorpresa, con un capitolo dedicato alla sua fine o, meglio, al lungo addio che viene letteralmente “messo in scena” nel castello di Caversham, a tappe successive ciascuna delle quali prevede degli atti ben precisi. La morte non era qualcosa da nascondere come si fa nella nostra epoca, come un evento imbarazzante. Il rituale della morte antica, al contrario, era contraddistinto da un vero e proprio cerimoniale con atti formali di rinunce e passaggi, davanti a una miriade di testimoni che si avvicendavano al capezzale del moribondo, e questo accadeva tanto più con personaggi come Guglielmo il Maresciallo che erano molto vicini al potere supremo, quello del sovrano.
Alla sua veneranda età – Guglielmo è molto anziano, si pensa che avesse circa ottant’anni anche se non si conoscevano le date di nascita – egli compie una serie di atti solenni, tra cui il più importante è l’affidamento del futuro re, il piccolo Enrico di dodici anni, a un nuovo tutore. Una alla volta Guglielmo si sbarazza poi delle cariche pubbliche e ottempera anche agli obblighi familiari: riconosce l’eredità al suo primogenito, si occupa della moglie che viene affidata a Guglielmo il Giovane, e soprattutto del resto della sua progenie. I cadetti sono quasi tutti “sistemati” tranne una figlia femmina ancora nubile, per la quale si cruccia, e Anselmo, il più giovane e il suo preferito (e in cui, forse, egli si rispecchia). Non gli può lasciare beni, ma gli consegna del denaro affinché abbia almeno di che ferrare il suo cavallo.
Anzi, nei confronti degli ecclesiastici che lo esortano a fare delle donazioni alla Chiesa per non mettere in pericolo la sua anima, a causa dei numerosi peccati che il suo status di cavaliere gli ha fatto commettere, Guglielmo ha un moto di fastidio, se non di vera e propria irritazione: “Come posso fare? Come volete che renda tutto? Il massimo che posso fare davanti a Dio è di rimettermi a lui, pentito di tutte le cattive azioni che ho commesso. Se i preti non vogliono che io sia bandito, respinto, escluso, devono lasciarmi in pace. O i loro argomenti sono falsi, o non c’è nessuno che possa salvarsi.” Si tratta di parole molto ardite, per non dire anticlericali, da parte di un pio cavaliere sul letto di morte!
Guglielmo si sbarazza anche dei ricchi abiti che compongo il suo guardaroba: le vesti di scarlatto, le pellicce di petit-gris, le ottanta pellicce nuove di zecca, perché dovrà essere nudo nel presentarsi al cospetto di Dio, così come fu nudo alla nascita. Dunque, il 14 maggio 1219 Guglielmo spira tra le braccia del suo primogenito dopo un’agonia durata giorni. Lo spettacolo della morte è finito, e il cavaliere riposa nella chiesa del Tempio di Londra: egli sarà per sempre un Templare.
Il poema del cavaliere
La sua tomba nel Tempio di Londra è scomparsa prima che potesse essere descritta dai suoi contemporanei, secondo Georges Duby. Tutto autorizza a supporre che fosse molto simile a questa di un Guglielmo di Pembroke morto però nel 1241, nella suggestiva e solenne cornice del luogo dove riposano molti cavalieri templari.
L’opera è sopravvissuta fino ai giorni nostri: si tratta di ben centoventisette fogli in pergamena e su ciascuno due colonne di trentotto righe per un totale di diciannovemilanovecentoquattordici versi. Il poema fu redatto durante sette anni da un troviero di nome Giovanni che narra con grande ampiezza di dettagli, e con uno stile fresco e vivace, gli episodi salienti della vita di Guglielmo. Essa porta il titolo di Histoire de Guillaume le Maréchal, comte de Striguil et de Pembroke, régent d’Angleterre (Storia di Guglielmo il Maresciallo, conte di Striguil e Pembroke, reggente di Inghilterra), composta in anglonormanno, una variante estinta della lingua d’oïl, parlata dalla nobiltà normanna in Inghilterra e diffusa nell’ambiente di corte. Era la lingua utilizzata per le composizioni letterarie dell’epoca, e offre un preziosissimo ritratto non soltanto di una specifica vita, ma di tutta la cavalleria dell’epoca, con i suoi codici d’onore non scritti.
Si trattava di un mondo senza dubbio al maschile, dove le donne hanno poco spazio e assomigliano a figure evanescenti sullo sfondo, e dove non sono quasi o per nulla menzionate. Qualcosa che mi ha sempre colpito nell’osservare gli alberi genealogici della grandi famiglie nobiliari, per studio o per i miei romanzi, è stato constatare come delle donne si sappia a malapena il nome, e poco altro. E le cose stanno esattamente in questo modo anche nel caso del poema dedicato a Guglielmo.
La formazione di un cavaliere
Guglielmo non era un primogenito e quindi partì svantaggiato rispetto al fratello maggiore. Il primogenito ereditava tutto perché non si voleva disperdere il patrimonio frammentandolo tra i figli, e a lui spettavano i beni materiali e quelli immateriali, come la giurisdizione e la cura della famiglia, in primo luogo degli elementi femminili, i rapporti di alleanze in senso verticale e orizzontale in modo a un tempo gerarchico e mobile. Per quanto riguarda le figlie, era presto detto: le fanciulle altolocate erano destinate a sposarsi quanto prima con uomini scelti dai loro padri poiché le nozze rinsaldavano le alleanze o pacificavano vecchi rancori, oppure a prendere il velo monacale. Similmente, i figli cadetti maschi avevano due sole possibilità: prendere i voti ecclesiastici oppure intraprendere la carriera delle armi, e quest’ultima strada fu quella intrapresa da Guglielmo.
Il padre inviò Guglielmo, ancora fanciullo, in Normandia presso il signore di Tancarville, affinché intraprendesse l’iter che lo avrebbe portato a divenire paggio, scudiero e infine cavaliere e a guadagnarsi una posizione con la forza del suo braccio e l’abilità nel partecipare ai tornei, all’epoca molto in voga soprattutto oltremanica. Guglielmo iniziò dunque a torneare e a vincere i premi messi in palio e soprattutto le armi e i cavalli degli avversari sconfitti.
Dopo qualche anno Guglielmo decise di rientrare in Inghilterra, ma non presso la propria famiglia di origine, bensì nella famiglia di Patrizio conte di Salisbury, zio materno, che si dimostrò per lui un secondo padre.
Un augusto patronage
L’occasione fortunata per compiere il cosiddetto salto di qualità si presentò nel 1168 quando accompagnò lo zio, incaricato da Enrico II d’Inghilterra di scortare la regina Eleonora d’Aquitania nel Poitou per domarvi una rivolta. Qui in uno scontro con dei ribelli Patrizio fu ucciso e lo stesso Guglielmo, che si era lanciato per vendicarne la morte, fu ferito e fatto prigioniero. La sua condotta impressionò moltissimo Eleonora, che, grata, lo riscattò dalla prigionia e lo inserì tra i cavalieri del suo seguito. Nonostante quanto ho detto del destino delle donne dell’epoca, fu proprio una donna, formidabile come poche, ad aprire le porte del successo del venticinquenne.
Da questo momento in poi Guglielmo avrebbe fatto parte della mesnie, della casa reale, godendo dei favori di Enrico II, e soprattutto dell’erede al trono Enrico il Giovane, al punto da diventare il suo mentore (quasi un tutore. Fu addirittura Guglielmo, semplice cavaliere, a cingere la spada al giovane principe, in altre parole a farlo diventare un cavaliere, a testimonianza della fiducia che re Enrico dava a Guglielmo.
Una vita appassionante
Quello che attira nel saggio di Georges Duby, e di conseguenza nel poema dedicato a Guglielmo, è la restituzione di un mondo vivo come se ce l’avessimo sotto gli occhi, specialmente nella descrizione dei tornei, così dettagliata e dinamica che sembra di assistere a un film. Guglielmo conobbe i re d’Inghilterra – Enrico II e i suoi figli Enrico il Giovane e Riccardo Cuor di Leone, con il quale peraltro fu sempre in rapporti tesissimi – e i sovrani di Francia, feudatari inglesi e francesi, e il fior fiore della cavalleria. Non fu tutto roseo e fortunato: vi furono momenti in cui cadde in disgrazia, e se ne andò errando da solo, massima forma di emarginazione in un’epoca dove tutti dovevano vivere e viaggiare in gruppo onde far fronte comune contro le minacce. Guglielmo fu persino accusato dalle malelingue di essere stato l’amante della giovane regina, cioè la sposa di Enrico il Giovane (i lettori del mio ciclo La Colomba e i Leoni capiranno perché la cosa mi abbia strappato un sorriso!).
Ma ritornò sempre a godere della stima dei suoi signori, e a essere richiamato a corte, a partecipare di nuovo a tornei e battaglie, a trovarsi affidata la tutela di giovani principi. Grazie al favore di cui godeva, la sua ascesa fu irresistibile, e culminò in un matrimonio molto opportuno con la giovanissima ereditiera Isabella di Striguil che gli assicurò ricchi possedimenti su cui vegliare. Nonostante fosse reputato anziano per l’epoca – aveva quasi cinquant’anni – ebbe dieci figli da Isabella e, come si è detto all’inizio, morì circondato dalla considerazione di persone potenti e dall’affetto di altre di umili origini che aveva accolto presso di sé, e di cui si era fatto carico.
Questa è la storia di Guglielmo il Maresciallo, così lontana e pur così vicina a noi. Che cosa ne pensate? Trovate dei punti di contatto con i giorni nostri?
Cristina M. Cavaliere
Fonte testo:
Guglielmo il Maresciallo – L’avventura del cavaliere di Georges Duby – Editori Laterza
Fonte immagini:
Una vita molto interessante, l’attaccamento alla famiglia sembra molto vicina a quello che si verifica nei nostri giorni in generale, è bello anche che il figlio vi abbia dedicato un poema cosa che ha portato probabilmente a farcelo conoscere.
Ti ringrazio del commento, Giulia. La rete di relazioni era molto importante all’epoca, anche la rete dei “patroni” che accoglievano presso di sé questi giovani. Non è un caso che lo stesso Guglielmo non menzioni quasi mai il padre, ma molto spesso il tutore e lo zio.
Per quanto riguarda il poema commissionato in suo onore, si tratta anche di un’operazione agiografica per avallare le decisioni di Guglielmo in campo militare e soprattutto politico. Come dire, a “pararsi” in caso di contestazioni… 😉
Il diverso contesto certamente incide, per dire: i matrimoni combinati nel mondo occidentale odierno non ci sono più, come pure la necessità di “spingere” alcuni figli maschi alla vita clericale.
Forse qualcosa di simile oggi si può vedere più a livello di politica e, con qualche collegamento, anche all’imprenditorialità: l’ascesa di certi personaggi che partendo dal basso, sono riusciti a tessere una rete di amicizie e alternando buoni esempi e spregiudicatezza, belle parole e “furbate”, sono diventati personaggi di spicco nel panorama politico e economico nazionale, in un certo senso potrebbero essere considerati i “cavalieri” di oggi. Purtroppo con molte più ombre che luci e tanta ambizione (piuttosto che ideali) a guidarli.
Senza dubbio si tratta di tempi storici completamente diversi, ma con dei punti di contatto. Alla fine del saggio, e della vita dello stesso Guglielmo, Georges Duby scrive che la cavalleria stava tramontando con i suoi codici comportamentali non scritti, in favore dell’ascesa della “borghesia” ovvero dei mercanti e del mondo cittadino. Una cosa che ho trovato molto interessante nel saggio, e sorprendente per certi versi, è che il cavaliere amministrava per esempio i possedimenti della moglie, ma non accumulava ricchezze. Non appena si trovava ad avere dei denari, li spendeva immediatamente dando lauti banchetti dove si mangiava e beveva a volontà. Quello che a noi potrebbe sembrare uno sperpero, era un codice comportamentale inespresso…
Ancora oggi, anche a casa nostra, si parla di grandi clan familiari. La differenza sta nel fatto che oggi se ne parla soprattutto al di fuori delle cerchie nobiliari, cioè specialmente nell’ambito dell’imprenditoria
A tale proposito, sebbene negli ultimi decenni l’elevato livello d’istruzione e la possibilità di accesso libero ai diversi corsi di studio abbiano accresciuto enormemente la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e alle carriere aziendali, la rappresentanza femminile ai vertici delle imprese italiane è ancora molto esigua. E tutt’oggi, di imprese femminili, gestite e di proprietà delle donne, ne risultano ancora poche.
Quindi, anche ai nostri giorni, come accadeva allora, quando si parla di grandi famiglie, cioè delle famiglie che contano molto, a parte una manciata di mosche bianche, si parla di uomini.
Sulle pagine dei giornali si fa molto spesso la storia dei grandi clan familiari, di recente grazie anche al film “House of Gucci” si è parlato molto della famiglia Gucci.
Quando avevo studiato per gli esami di Storia Moderna e Storia delle Donne e delle Identità di Genere, avevo letto un saggio molto bello sul lavoro femminile dell’epoca. In base a numerose fonti, il lavoro femminile è sempre esistito nei campi più svariati, ma raramente è stato riconosciuto in modo ufficiale, per non parlare appunto di donne imprenditrici e a capo di botteghe (che giuridicamente dovevano agire in nome e per conto del marito o di un familiare maschio).
E’ affascinante rendersi conto di come le tracce di una vita possano sparire nel tempo, oppure rimanere in modo così vivo, al punto da entrare in contatto con noi, tanti secoli più tardi.
E’ affascinante rendersi conto di come le tracce di una vita possano sparire nel tempo, oppure rimanere in modo così vivo, al punto da entrare in contatto con noi, tanti secoli più tardi.
Merito è soprattutto del poema che il figlio aveva commissionato in onore del padre, e che incredibilmente è arrivato fino ai giorni nostri. Nel saggio sono riportati alcuni passaggi con descrizione dei tornei, e sembra quasi di leggere il romanzo “Ivanhoe” di Walter Scott. 😊
Merito è soprattutto del poema che il figlio aveva commissionato in onore del padre, e che incredibilmente è arrivato fino ai giorni nostri. Nel saggio sono riportati alcuni passaggi con descrizione dei tornei, e sembra quasi di leggere il romanzo “Ivanhoe” di Walter Scott. 😊
Un mondo lontano e certamente diverso, ma hai ragione. La Storia si evolve (o involve) e gli esseri umani si sono via via adattati ad abitudini, usi sociali del loro tempo riservandosi quegli atteggiamenti anche molto somiglianti a quelli odierni. Certo, un figlio cadetto aveva molti meno diritti, ma il primogenito, come descrivi in quel passaggio prezioso, ereditava anche doveri immateriali. Insomma, questa parte attiva, benché comunque imposta dagli usi, era del tutto preferibile al destino di una figlia. Mi capita di parlare ai miei alunni di come fosse difficile, molto più difficile, nascere femmina in quel tempo e il paradosso della sfortuna di nascere in una famiglia nobile o anche regnante: vite già decise, matrimoni che consolidavano o generavano alleanze. Trovo tutto in questo tuo articolo, che come sempre è interessante e fa pensare. Sai che non sapevo di quel sinonimo, “troviero”, per indicare il trovatore? 🙂
Nascere femmine a quell’epoca era sicuramente difficilissimo, e le fanciulle altolocate avevano una strada già decisa e tracciata dalla famiglia sin dalla culla. Addirittura nel saggio si narra della moglie di Enrico il Giovane, allontanata dalla corte proprio perché sospettata di essere l’amante di Guglielmo. In pratica il marito divorziò, ma lei fu costretta a risposarsi con un altro regnante. Avevano pochissima libertà di movimento prima delle nozze, a differenza delle loro coetanee del popolo, che comunque dovevano contribuire all’economia domestica lavorando duramente sin da bambine. Insomma, non so chi fosse messa peggio. Per quello mi arrabbio molto quando vedo certe fiction tv dove si vedono ragazze di altissimo rango che se ne vanno in giro da sole e si sbaciucchiano negli androni dei palazzi… Per quanto riguarda la parola “troviero”, l’ho letta anch’io per la prima volta in questo saggio. 🙂