I romanzi di Anthony Trollope sono come dei ricami a piccolo punto, del tutto privi, però, di leziosità; o come dei quadretti ad olio, stesi a pennellate lievi ma non superficiali. Questo autore vittoriano, contemporaneo del più celebre Charles Dickens, ama collocare le sue storie nell’ambiente che meglio conosce, la campagna inglese, e occuparsi di personaggi dalla vita tranquilla e del tutto priva di eroismo. Nei suoi romanzi non ci sono quasi mai colpi di scena, scelte drammatiche, catastrofi naturali o umane come la guerra, eppure le situazioni sono talmente riconoscibili da renderci cari i suoi personaggi proprio come se li frequentassimo da una vita e da appassionarci alle loro tribolazioni come se fossero le nostre. In questo, Trollope è molto diverso proprio da Dickens, nel senso che non fa mai leva sul sentimento, ma si serve piuttosto di una sottile ironia, del tutto priva di cattiveria, come se conoscesse a memoria pregi e difetti della varia umanità che va dipingendo.
Inizialmente avrei voluto redigere una recensione di un suo romanzo da me appena letto, dal titolo poco accattivante de “L’amministratore” (“The Warden”, il primo della serie delle Cronache del Barsetshire, ambientate nell’immaginaria cittadina di Barchester); poi ho pensato che poteva essere un’ottima occasione per farne uno studio alla luce di quello che abbiamo detto nei post precedenti, soprattutto con riguardo alla trama e all’elaborazione dei personaggi!
La copertina del romanzo |
Un breve riassunto della storia, per comprendere come l’autore, pur senza usare intrecci drammatici, segua in pieno lo schema individuato di stabilità – conflitto – complicazione – climax – risoluzione – finale e delinei personaggi credibili, immersi in pieno nell’ambiente e nell’epoca storica cui appartengono.
Il protagonista in assoluto è il vecchio e mitissimo ecclesiastico signor Harding, primo cantore della cattedrale e amministratore di un ricovero voluto tre secoli addietro da John Hiram, cardatore. Grazie alla fortuna accumulata, questi lasciava come disposizione testamentaria la costruzione del ricovero, destinato ad ospitare dodici anziani lavoratori, ammalati, poveri o comunque non più in grado di mantenersi con il loro lavoro.
La gestione del ricovero e le rendite dei terreni che ne derivano sono sottoposte alla giurisdizione della Chiesa inglese nella persona del vescovo locale, del signor Harding come amministratore e di un altro impiegato come economo. Il signor Harding vive felice con la figlia nubile, Eleanor (= personaggio secondario), in una bella casetta con giardino, attigua al ricovero, ama suonare il violoncello e, nella sua gentilezza d’animo, circonda di ogni premura i dodici anziani ospiti e vicini di casa. (= l’ambientazione)
Eleanor, dal canto suo, non disdegna le attenzioni del giovane medico locale, John Bold (= altro personaggio secondario), che ha però un grave difetto, quello di essere un accanito riformatore – un socialista, diremmo oggi – e di voler indagare dove giustizia non sia stata fatta per porvi rimedio. Bene, proprio John Bold intenta causa alla Chiesa inglese (= il problema) perché convinto che i dodici ospiti siano stati defraudati del diritto ad avere una rendita assai più cospicua di quella che attualmente ricevono, oltre al vitto e all’alloggio, e che “l’amministratore” incassi ottocento sterline all’anno senza averne diritto. Inizia quindi un’intricatissima causa legale (= l’inizio del conflitto), perché la maggioranza degli anziani ospiti, una sorta di coro comico del romanzo, ingolositi dalla prospettiva di ricevere cento sterline a testa, viene convinta a firmare una petizione in tal senso. Questo getta nuova benzina sul fuoco dell’argomento, molto dibattuto all’epoca, del clero rapace e avido ai danni dei più deboli, tale da avere ampia risonanza su un famoso giornale londinese, lo Jupiter, in cui si può vedere in filigrana il più noto Times (= precisi collegamenti con il periodo storico).
Thomas Gainsborough, The Gravenor Family, c. 1754 Oil on canvas, 90.2 × 90.2 cm. |
Yale Center for British Art, New Haven, Paul Mellon Collection. Photo by Richard Caspole, Yale Center for British Art
Dal punto di vista personale la situazione si aggroviglia ancora di più (= complicazione) in quanto il vescovo è coetaneo e caro amico di Harding, amabile quanto lui, e l’ha voluto per l’incarico attualmente occupato; e il figlio del vescovo, il tronfio, solido arcidiacono Grantly – una vera macchina da guerra rispetto a chi lo circonda, anche se risibile per come lo descrive l’autore – ha sposato la figlia maggiore di Harding, Susan (= altri personaggi secondari).
L’intrico quindi non è solo di natura legale, cosa in cui l’autore è abilissimo a guidarci in modo da non perdere il filo, ma di natura psicologica, ed è questo che ci interessa esaminare. Non c’è solo il conflitto tra Harding e John Bold, tra John Bold ed Eleanor, tra i dodici anziani e Harding, tra l’arcidiacono e il resto del mondo. Il vero problema è il conflitto di coscienza (= il nodo da risolvere) in cui viene gettato il timido, pacifico amministratore: davvero egli ha defraudato, pur senza volerlo, i dodici poveri vecchi del denaro loro spettante, usufruendo per anni di una casa confortevole senza fare nulla e mangiando e bevendo ai loro danni? È questa la domanda che gli toglie il sonno, lo fa soffrire profondamente e non perché la sua immagine agli occhi del mondo sia stata appannata. No, la cosa straordinaria è che egli tiene molto di più alla sua immagine interiore, cui deve rispetto. A questa domanda tormentosa nessuno, e dico nessuno, nel corso del romanzo, né l’arcidiacono suo genero, né il vescovo suo protettore, né i legali di Londra sanno dare una risposta per lui convincente, al di là dei cavilli tirati in ballo, delle scartoffie e delle mosse e contromosse legali.
William Powell Frith, ‘The Railway Station’, 1862 (Royal Holloway, University of London) |
E, dopo che il groviglio nella trama ha raggiunto il suo climax, è la mancata risposta alla domanda e la conseguente decisione di Harding che costituiranno la risoluzione del conflitto nel romanzo. Riporto qui un bel passaggio in cui Harding, recatosi a Londra e in pratica mettendo in atto una fuga dal prepotente arcidiacono, ottiene un appuntamento con un famosissimo procuratore che sta seguendo il caso, e che fa di tutto per dissuaderlo dal compiere quello che ha già in mente. Il mite Harding asserisce con una forza non abituale alla sua natura: “Il Signore sa se ami o meno mia figlia; ma preferirei che fossimo tutti e due costretti a mendicare, piuttosto che lei viva comodamente con denaro che in realtà appartiene ai poveri. Può sembrarvi strano, Sir Abraham, risulta strano per me, che io debba aver vissuto dieci anni in quella casa felice senza aver pensato a queste cose, finché non mi sono state in modo tanto rude ripetute incessantemente alle orecchie. Non posso vantarmi della mia coscienza, visto che ha richiesto la violenza di un giornale pubblico per essere risvegliata; ma, ora che si è destata, devo obbedirle.” (Che parole, non è vero, in questi tempi grami?)
Ed è proprio il modo in cui il protagonista agisce che risolve il conflitto, anche letterario, a gettare una luce di grandezza su un uomo tranquillo e ordinario in cui potremmo riconoscere facilmente un padre, o un nonno, è il suo riportare “a registro” la sua coscienza con la situazione in cui si è venuto a trovare, in opposizione a parenti ed amici, che merita la nostra ammirazione. Ed è la forza di un romanzo ben scritto, piacevole e sottilmente ironico, a insegnarci non solo come si scrive, ma anche come le parole “etica” e “coscienza” non siano desuete, ma più che mai attuali.