Dopo aver creato il nostro protagonista, aver delineato la sua fisionomia e il suo aspetto fisico, aver provveduto alla sua casa, al suo guardaroba, al suo cibo e alle sue bevande, e averlo circondato di tutta una serie di figure a lui collaterali – parenti, amici, amanti ecc. – e avergli fornito di carattere, dobbiamo passare a lavorare a quello che costituisce il suo nucleo profondo, e anche il vero motore di una storia: dobbiamo cioè scatenare in lui il conflitto interiore.
Nessun personaggio veramente interessante è privo di conflitto interiore, indipendentemente dall’epoca storica in cui agisce e dalla sua statura morale. Questo tormento o se lo crea da sé, o glielo creano gli altri (vedi il post precedente, Conversazione VI sulla figura dell’ecclesiastico signor Harding nel romanzo di Trollope). Inoltre lettore e autore sono compari sottilmente sadici, e non vedono l’ora che la quiete apparente venga infranta e turbata, anzi pronti a cogliere nella trama qualsiasi indizio del temporale imminente. A nessun lettore interesserebbe perder tempo nel leggere la storia di un buon padre di famiglia che conduce una vita tranquilla, con moglie e figli, ha un posto di lavoro assicurato, e che coltiva i suoi passatempi, dall’inizio fino a che morte non lo separi dal lettore. A che pro scrivere un romanzo del genere? Ci si slogherebbe la mascella dagli sbadigli. Inoltre tutti coloro che mi leggono hanno vissuto sufficientemente a lungo per sapere che la vita è irta di ostacoli e ansie, e che un’esistenza come quella di cui sopra non sarebbe nemmeno del tutto credibile.
Il conflitto interiore scaturisce da un problema sottotraccia, che può essere di varia natura, e fra parentesi inserisco qualche esempio che ovviamente non è esaustivo: morale (una scelta eticamente discutibile), sentimentale (un amore non corrisposto oppure clandestino), economica (la mancanza di denaro, il desiderio di possederne), politica (eccesso di potere), familiare (la perdita di un congiunto), legale (un’ingiustizia subita, un’eredità sottratta), sociale (il desiderio di elevarsi di classe), di salute (una malattia) ecc…
Di solito poi la risoluzione del problema tanto più è rimandata, quanto più è destinata ad esplodere in maniera virulenta nel corso della storia. Prendiamo un caso davvero biblico noto a tutti, per semplificare: Caino e Abele. I due fratelli erano già cresciuti quando Caino, inasprito e ingelosito dal favore di Dio nei confronti nel fratello, che offriva doni più graditi (e probabilmente era anche il preferito della coppia genitoriale), in un momento d’ira uccide il fratello. Non è detto che anche il nostro protagonista arrivi a tanto, però il conflitto esiste e cova come brace sotto la cenere.
“Il corpo di Abele trovato da Adamo ed Eva” di William Blake (1826 circa), Tate Gallery, Londra |
Per delineare il personaggio a livello narrativo, ci sono due metodi che si possono utilizzare: il metodo indiretto e il metodo diretto. Il metodo indiretto presuppone l’intervento a tutto campo dell’autore, che descrive in maniera più o meno puntuale il personaggio. Riprendendo cioè l’esempio precedente, e sempre banalizzando, si potrebbe scrivere: “Abele era un ragazzo bello, buono e simpatico e tutto quello che faceva gli riusciva alla perfezione.” (un po’ da primo della classe, vero?), “Caino era brutto, cattivo e antipatico a tutti, e non ne faceva una giusta.” Beh, mi sono lasciata prendere un po’ la mano perché questa descrizione in realtà contiene una nota comica alla Dario Fo! Dovrebbe essere, invece, molto più piatta e poco attraente, quasi un elenco, tale da non lasciare spazio alla fantasia del lettore. Il secondo è il metodo diretto, cioè mostrare il personaggio attraverso le sue azioni e le sue parole, in modo che il lettore sia indotto a lavorare con l’immaginazione. Questo è uno dei grandi vantaggi che la letteratura ha rispetto al cinema, dove in genere allo spettatore è lasciato pochissimo margine di manovra nella visione di un film.
Com’è ovvio, nessuno ci vieta di utilizzare un misto tra i due metodi, per rendere la nostra descrizione più interessante! Possiamo anche, se vogliamo, inserire non solo le frasi espresse a voce alta (monologhi, dialoghi), ma anche i pensieri del personaggio, per rendere la nostra narrazione ancora più ricca. Magari per mostrare che il personaggio si comporta in un modo per i suoi motivi e poi la pensa in un altro.
Un’altra cosa da non dimenticare nel far agire il personaggio è che lui o lei ha delle contraddizioni interne da risolvere, che lo rendono sfaccettato proprio come se fosse un essere umano in carne ed ossa. Di solito i personaggi monolitici e sempre coerenti con se stessi sono meno attraenti; viceversa sono proprio quelli sfumati, imprevedibili e anche un po’ folli che catturano maggiormente la nostra attenzione! In letteratura si è assistito all’avanzata di personaggi dove il confine tra il bene e il male si è fatto sempre più labile fino a confondersi, come quello tra bellezza e bruttezza.
E se sarete riusciti a cesellarlo bene, assisterete ad un fenomeno affascinante, cioè che il personaggio, ormai autonomo, comincerà a contestare quello che il creatore vorrà fargli fare, e a fare di testa propria, in linea con il suo carattere! Proprio il carattere del personaggio, ovvero la sua maniera di reagire alle sfide del mondo, costituirà l’argomento del prossimo post sulle tecniche di scrittura…
Approfitto di questo post per riportare una riflessione in merito alla questione “coerenza del personaggio”, proprio perché, in fase di scrittura, questa è una cosa che mi ha sempre affascinata. Quello che ho sempre pensato, in termini di differenza fra un “essere vivente” (diciamo così) e un personaggio, è proprio la mancanza di coerenza del primo, raffrontata alla coerenza costante del secondo. Il personaggio, a mio parere, è sempre coerente con se stesso, coerente nella parte assegnatagli, coerente nel conflitto interiore. Se non lo è, è perché è coerente con se stesso il non esserlo. Io penso sia questo che rende tale un personaggio, che poi, alla fin fine, è un qualcosa di “non reale”: non è mai in contraddizione, anche quando sorprende, poiché ha sempre una sua linea d’azione, un suo “modo di essere”. Anche quando prende in mano la storia e la disegna per suo conto, affascinando persino chi scrive. E’ il suo punto di forza! E’ come se incarnasse quella parte di noi che lo disegna e che, per nostra intima necessità, non può essere differente da come noi stessi la creiamo. E’ la nostra idea, e una singola idea contiene in sé la necessità di coerenza.
SE…
In effetti una delle linee-guida da seguire nello sviluppo di un personaggio è che le emozioni siano coerenti con il suo carattere. Se abbiamo stabilito che il personaggio è uno zuccone superficiale, dobbiamo fare in modo che agisca di conseguenza; quindi sembrerà strano al lettore mettergli in bocca, di colpo, pensieri profondi e riflessioni filosofiche. A meno che il personaggio non attraversi un processo evolutivo tale per cui vi sia un cambiamento, che comunque deve essere graduale. Compito dello scrittore è quello di convincere il lettore della logicità nelle contraddizioni del personaggio, il che sembra un paradosso. E quindi, proprio come si fa con un figlio, è inutile forzarlo a comportamenti che vanno contro le sue attitudini, come obbligarlo ad andare all'Istituto Artistico quando è nato per fare l'ingegnere!