Nell’aggiornare le etichette di alcuni post, per errore ho cancellato la recensione del romanzo di Nadia Bertolani “Di pietra e di luna“. Mi scuso innanzitutto con Nadia e poi con i miei lettori (che si vedranno recapitare l’avviso di un post già visto), ma devo reinserire immediatamente la recensione al suo romanzo! Vorrà dire che sarà doppia pubblicità per lei e mi fornirà lo spunto per parlare prossimamente di una figura importantissima nell’argomento ‘tecniche di scrittura‘: l’antagonista!

La copertina della nuova edizione

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Del contraltare all’individuo, come specchio riflettente o antitesi e nemico, sono piene le pagine letterarie, con prove di volta in volta inquietanti e terribili, quasi mai salvifiche e consolatorie. Il cosiddetto alter ego può essere ricercato come integrazione e completamento, vedi il mito dell’anima gemella, di tipo fraterno, o coniugale, ma anche trasformarsi in elemento perturbante che scardina le nostre certezze fino a dissolverle a scapito della nostra sanità mentale.

Nel bellissimo romanzo di Nadia Bertolani, “Di Pietra e di Luna”, fra i molti motivi sapientemente intrecciati nella trama, vorrei soffermarmi sul concetto di “doppio”, presente sin da subito nel titolo stesso. La pietra, cioè la materia immota ed antichissima, la più refrattaria, almeno all’apparenza, ai cambiamenti, e, di nuovo apparentemente, priva di una sua anima; e la luna, celebrata dai popoli antichi come immagine mitologica, e rimando fluido e misterioso alla femminilità e ai suoi cicli naturali, non da ultimo la maternità. Proseguendo, il luogo dove è ambientato il romanzo – Mavezia – città che ci sembra familiare e distante allo stesso tempo, e che si presenta a noi come un Giano bifronte: moderna e vetusta, dinamica e decadente, vitale e mortifera. 
Continua con il tema dei gemelli maschio-femmina, simbolo affascinante per le implicazioni biologiche e psicologiche, che corre, corrompendole, attraverso le generazioni della famiglia di cui si narra la storia. Ritorna per due volte con la condizione della ragazza-madre, così duramente riprovata dalla società di non molti anni fa, e, conseguentemente, la duplice assenza di un padre che diventa figura incorporea ed incompresa. Nell’ambito delle vicende, i personaggi, che spesso interagiscono a coppie, quasi mai in terzetti, anche perché la presenza cardine del bambino autistico non funge da interlocutore, quanto da elemento detonatore della vicenda: il classico granello di sabbia che va ad inceppare un meccanismo dagli ingranaggi, in questo caso, già arrugginiti. 
Tutto questo narrato in una prosa nitida, elegante, sobria, in cui sono evidentissimi il lavoro di scavo e pulizia eseguito, la ricerca della parola puntuale, il fraseggio di volta in volta allungato, come un respiro trattenuto, o breve, come un singhiozzo, intervallata dalla voce della madre defunta, misurata sul colore bianco, in frammenti che sono essi stessi pura poesia. La storia si conclude con il classico scioglimento del mistero di famiglia, che il lettore attento dovrebbe aver già compreso, e che conferma o smentisce le ipotesi fatte. Nonostante questo finale chiuso, mi rimane comunque l’impressione di un’identità fratturata, nella famiglia e nei personaggi: come una maschera mortuaria in cui si veda una spaccatura, che attraversa lineamenti perfetti, e nella quale nessuna mano d’artista, e nessun collante, riesca a ricomporne l’originale bellezza.
Maschere nel teatro romano della commedia e della tragedia