“Il giardino della salute, la medicina nel medioevo” di Heinrich Schippergers non è quello che si definirebbe un libro da leggere sotto l’ombrellone, e non solo perché il tempo sia inclemente e alquanto balzano in questi giorni, e forse sdraiarsi in spiaggia con un buon libro sia comunque prematuro. Eppure è un saggio molto interessante sia per chi, come me, ama il Medioevo (e sta leggendo dei testi per fare integrazioni al Libro II, seguito al Libro I – La Terra del Tramonto, saga storica sulla Prima Crociata), sia per chi voglia approfondire la storia della medicina, in un periodo che ha ripercussioni molto profonde sulla nostra concezione attuale di salute e malattia, e cura.

Come scritto nella quarta del saggio, la medicina medievale è considerata un miscuglio obsoleto di ciarlataneria ed esoterismo e, come tutti gli stereotipi, quest’immagine ha piantato salde radici nell’immaginario collettivo. Eppure nel saggio si scopre subito, sorprendentemente, la rappresentazione di un uomo, e di un corpo umano, come un microcosmo che riflette il macrocosmo divino, specie nei trattati di Ildegarda di Bingen: monaca del 1100, mistica veggente, erborista, pittrice, musicista e dottore della Chiesa.

Nella tavola sottostante della stessa Ildegarda, ad esempio, l’uomo è posto al centro del mondo, e racchiuso dalla Trinità. L’universo si configura come un’enorme ruota ardente, chiusa da mura d’acqua, pervasa di aria e poggiante sulla terra. C’è quindi una puntuale corrispondenza tra il cosmo e l’uomo: una visione che potremmo definire olistica. L’uomo però ha tradito il patto con Dio, ha perso l’innocenza e non è più in sintonia con il creato; anzi, è il ribelle per eccellenza. Da qui l’insorgere dello stato morboso individuale fino ad arrivare alle terribili pestilenze e ai contagi che falcidiano l’umanità a scadenze storiche.

La vita diventa così un doloroso pellegrinaggio, e compito del medico non è tanto quello di ridonare all’uomo la piena salute, assistendolo dalla nascita all’età adulta fino alla morte, quando di assecondare i processi naturali di guarigione senza forzarli, e di riparare come può uno stato che non potrà mai essere perfetto come prima della caduta. Le professioni sanitarie si ramificano quindi in una miriade di figure, dai chirurghi-barbieri alle ostetriche, dai medici conventuali ai flebotomi e ai farmacisti, fino ad arrivare ai livelli più alti, dove la figura del medico coincide con quella di un vero e proprio filosofo grazie ad una preparazione in discipline non solo di carattere pratico, ma che comprendono grammatica e retorica.

La  pratica terapeutica comincia con la visita e l’anamnesi, in un contatto fisico di cui spesso si è persa traccia ai nostri giorni, focalizzati come sono molti medici sull’esame specialistico, per poi passare all’esame dei prodotti corporei, alla diagnosi e alla prescrizione dei trattamenti, tutti com’è ovvio a base di erbe di cui si ha profonda conoscenza ed esperienza. Si cerca di riparare il corpo ammalato, considerando l’operazione chirurgica solo come extrema ratio. Si sviluppano di conseguenza non solo i moderni enti ospedalieri, passando dal monastero come luogo di accoglienza e di cura a edifici di tipo laico, ma anche le facoltà di medicina universitarie dove si studia sotto la guida di un docente esperto.

Immagine dal Museo Didattico
della celebre Scuola Medica Salernitana

Molto importante in questa concezione dell’uomo inserito nei cicli vitali – ed è qui l’altro dato sorprendente – è la prevenzioneDi questa fa parte la raccomandazione della dietetica, del giusto rapporto tra luce e aria, del ritmo fra moto e quiete, delle cure balneari: in una parola di modelli di vita sana da seguire. Il che risveglia in noi la sensazione di concetti moderni, che ci sentiamo ripetere spesso e che per tanti motivi raramente applichiamo.

Auspicio non solo dell’autore è di riprendere la medicina medievale come modello di naturopatia e supportarla con le più nuove tecniche scientifiche.