Pubblicato per la prima volta nel 1969, “Cicatrici” è un romanzo che l’argentino Saer scrisse in venti notti, ispirato da un fatto reale. Si tratta di quattro parti suddivise in mesi, con altrettanti narratori che narrano in prima persona. Il primo è Ángel, giovane giornalista di cronaca nera e autore di bizzarre previsioni meteo, che ha un rapporto conflittuale con la madre, folle e alcolizzata. Il secondo è Sergio, avvocato divorato dal vizio del gioco d’azzardo punto-banco. Il terzo è Ernesto, giudice misantropo che vede il mondo attorno a sé come luogo di un’umanità abbrutita, sotto forma di masse di gorilla-umanoidi, e si occupa dell’ennesima traduzione di ‘Il ritratto di Dorian Gray’ di Oscar Wilde. Luis Fiore è il quarto, un operaio che va a caccia di anatre con moglie e figlioletta, e commette un atto inspiegabile.

Le vite di questi quattro personaggi si attorcigliano su se stesse, e all’occasione si intersecano. Il loro motivo conduttore è comunque una forma di ossessione per qualcuno o qualcosa, in un succedersi di eventi dove niente sembra avere senso, e dove la vita appare dominata dal caos. Soprattutto nella narrazione di Sergio e di Ernesto, la prosa per il lettore si fa a tratti insostenibile per angoscia: nel caso del giocatore, nel reggere la spiegazione delle sue tecniche di gioco e del vizio che lo consuma; nel caso del giudice, nel sopportare a descrizione puntigliosa e monotona dei suoi tragitti in automobile, compiendo sempre gli stessi percorsi sotto la pioggerella, o dei suoi rituali quotidiani come affacciarsi dal terzo piano del tribunale per guardare sotto, verso l’atrio dal pavimento bianco e nero.


Lo stile del romanzo non ha né sbavature di sorta né una virgola fuori luogo, e ogni voce si esprime con piena aderenza al carattere e all’età di chi parla rendendo il personaggio pienamente riconoscibile.

Vediamo dunque l’incipit dell’ultimo capitolo, Maggio, che presenta con particolare efficacia l’uso del dialogo frammisto alla descrizione, dapprima tra due persone – l’operaio Luis Fiore e la moglie, detta la Gringa – e poi fra tre persone – lui, lei e figlioletta. Vi presento qui l’esempio del dialogo tra marito e moglie.

“Dovrà ammazzarmi il primo che mi trova.”
Mi sveglio. Resto con gli occhi chiusi. Sono sdraiato su un fianco, coperto fino alle spalle. Quando apro gli occhi vedo la luce. Grigia, filtra dagli interstizi della finestra. C’è l’armadio con lo specchio ovale. Lei è nel letto, sveglia, dietro di me. La sento respirare.
“Non dovresti già esserti alzata e avere preparato tutto? Dobbiamo andare” dico.
“Stai facendo finta di dormire” dico.
Mi rigiro. Mi metto a pancia in su. C’è il soffitto, alto e buio, perché i raggi che filtrano dalle fessure della finestra non arrivano fin lì. Volto la testa verso di lei. È di schiena, sdraiata su un fianco. Le spalle si sollevano e si abbassano con la respirazione.
“Stai facendo finta di dormire” dico.
Si muove un poco.
“Non fare finta” dico. “Lo so benissimo che sei più sveglia di me, vuoi solo farmi imbestialire.”
Le metto una mano sulla spalla e comincio a scrollarla. Di colpo, si mette a sedere sul bordo del letto. Volta la testa verso di me. I capelli le cadono sul viso e ha gli occhi semichiusi.
“Cosa ci andiamo a fare a caccia, che piove?” dice.
“Chi ha detto che piove?” dico.
È una settimana che piove. Vuoi che smetta proprio oggi?” dice.
“Ieri sera non pioveva” dico io.




La scena è quasi un fotogramma cinematografico. Attraverso il dialogo, inserito in una descrizione scabra e senza inutili giri si parole, di quali concetti ci sta informando lo scrittore? Proviamo a fare delle ipotesi:

–   tra marito e moglie c’è uno stato di tensione latente. Lei fa finta di dormire per irritarlo, e anche quando iniziano a parlare lo fanno per rimbeccarsi a vicenda, ripetendo continuamente il concetto del piovere o del non piovere;

– pur non descrivendoci alcun oggetto della stanza, possiamo già sospettare che si tratti di un ambiente modesto, come modesta è la condizione sociale e culturale di chi parla. Anche il tempo atmosferico, reso con poche pennellate, accentua la sensazione di oppressione e di dramma incombente;

– persino per il lettore che non abbia letto i Capitoli precedenti, e quindi non conosca la conclusione della storia, dovrebbe apparire in tutta la sua importanza la frase iniziale, pensata nel sonno, che contiene il verbo “ammazzare”.