TITOLO: L’uccellino di Maeterlinck
AUTORE: Nadia Bertolani
CASA EDITRICE: Tre Lune Edizioni
ANNO: 2002
ISBN: 88-87355-48-7 NUMERO PAGINE: 195 |
Diversi sarebbero gli aspetti da sottolineare nel bel libro di Nadia Bertolani dal curioso titolo de “L’uccellino di Maeterlinck“: il fatto che sia al contempo una narrazione di memorie familiari; ma anche un colloquio-intervista, per quanto faticoso, con la madre, e un affresco, dato a rapide pennellate, di un momento storico di assoluta drammaticità, quello della Seconda Guerra Mondiale. Di grande valore letterario è anche la prosa scelta per la narrazione, quindi il lato formale con cui prendono corpo le memorie, incentrate sulle figure dei genitori: intensa, ma anche brusca e lacerata, in un procedere a strappi e a tagli, con frasi che spesso offrono il senso di un dolore a lungo taciuto e male espresso (come direbbe il poeta: “Tu vuoi ch’io rinnovelli / disperato dolor che il cor mi preme“).
un aspetto forse poco visibile, ad una prima lettura, e che pure circola in
tutto il romanzo: quello del mito.
Nella nostra infanzia, le figure genitoriali assumono una valenza onnipotente,
e a loro noi guardiamo con una mescolanza di fiducia, senso di meraviglia e
timore. Solo per quanto attiene la fisicità, essi sono davvero simili a dei:
nei primissimi tempi della nostra esistenza, avvolti come siamo da nebbie,
sentiamo risuonare le loro voci, li scorgiamo in maniera confusa. I loro volti
emergono a stento, sopra di noi, incombenti, e possiamo comparare la nostra
visione con quella di coloro che “videro” gli dei. Quando impariamo a
camminare, essi rimangono altissimi, spropositati, spesso minacciosi rispetto
alla nostra inermità. Dai genitori dipendiamo a lungo in tutto e per tutto: per
il nostro nutrimento, la nostra sicurezza, i nostri affetti e il nostro
avvenire.
benessere, e cioè che in quella coppia generante sono racchiuse le memorie
del passato, e che quindi essi diventano i custodi di qualcosa che ci
appartiene, e che determina la nostra completezza. È in questa ricerca
affannosa, in questo interrogativo convulso che è racchiuso il senso di questo
romanzo familiare, cioè il tentativo di strappare alla madre, l’unica
sopravvissuta della coppia divina, ricordi sulla figura dell’altro genitore.
L’assente amatissimo: il padre, anzi il Padre secondo l’archetipo. Quello che
incarnava l’autorità (una volta, purtroppo, equivalente all’autoritarismo), ma
forniva anche le competenze per procedere nella vita. Il sovrano che agiva e
guidava, e formava non solo il figlio maschio ma anche la figlia femmina, se
non altro per contrasto rispetto ad un ambiente femminile che protegge, ovatta,
preserva, ma a volte indebolisce; l’uomo la cui morte in piena giovinezza,
nel romanzo, è tanto più sentita quando avviene in un momento di tragedia
collettiva come una guerra mondiale.
Gli sposi, di Marc Chagall (1915) |
Storia, le cui acque, agitate dai combattimenti, dalla violenza e dalla morte,
s’irrorano della tinta rossa del sangue… e in cui i genitori nuotano e si
dibattono nel tentativo di salvare se stessi e la loro progenie, di raggiungere
la spiaggia, almeno di gettarvi i figli prima di scomparire per sempre tra le
onde. Nadia Bertolani, io stessa, molti altri della nostra generazione, siamo
figli di quelle mortali divinità, provenienti da una guerra che, di fatto, è
appena finita, da poco lasciata dietro le nostre spalle – poiché il tempo non è altro
che un frammento, una briciola, un battito. A costo dell’estremo sacrificio,
siamo stati gettati sulla spiaggia, in salvo, tra la risacca che si sta da poco
ritirando; ne vediamo ancora la schiuma sanguinosa, tutt’attorno a noi, nei
racconti dei reduci, dei salvati, degli ex-prigionieri di guerra, dei
partigiani, delle staffette, delle nonne, delle madri e delle zie. Storie di
dolore inenarrabile, casualità, ingiustizie e vendette, ma anche di
scelte eroiche e di mito. Mito che si
condensa nella bellissima immagine dell’ufficiale tedesco che, di notte e sotto
la luna, davanti al fienile dove è nascosto il gruppo di partigiani che
ritornano a casa, percorre il perimetro
dell’aria tenendo il cavallo per le redini. Nell’oscurità, nel silenzio. E che,
rimontato a cavallo, se ne va con ostentata eleganza. In questo momento storico e narrativo anche a
noi, come al padre di Nadia, “mai la
guerra apparve tanto lontana e incomprensibile.”
assenti, come non ce ne sono in questo romanzo. Sedute sulla spiaggia, come moderne, impotenti Mnemosine – dee della memoria – possiamo
solamente fissare quell’oceano da poco placatosi, riflettere su ciò che si è
concluso, e pregare; infinitamente grati a coloro che si sono inabissati in quelle acque. Mettendo
noi al sicuro, tra la risacca del mare che, con dolcezza, si sta allontanando verso l’orizzonte.
Bellissima e intensa recensione che fa rivivere le intense immagini di questo libro. Mentre nuotiamo e ci dibattiamo nell'oceano della Storia, possiamo aggrapparci a immagini come queste per restare a galla: basta saperle cogliere…
Stella Stollo
Hai ragione, Stella. Mio padre aveva fatto la guerra in Africa come conducente di carri armati, e poi era stato prigioniero in Inghilterra. Raccontava, ma all'epoca ero troppo immatura per saper ascoltare veramente. Ora che potrei, purtroppo lui non c'è più.
La lettura della recensione mi ha commosso. E come non condividere in pieno quello che scrivi? Teniamoci stretta Mnemosine, allora, noi figlie lasciate con pochi ricordi. Grazie Cristina. Un abbraccio.
Sono contenta che la recensione ti sia piaciuta, come sai sono molto sensibile al tema del padre… Continuiamo a custodire nella memoria i nostri papà, in attesa di riabbracciarli.
Un abbraccio.
Una bellissima recensione, toccante e profonda, che rende merito all'intenso romanzo di Nadia, piccola Mnemosine, fuggita sulle onde del mare dei ricordi.