Scommetto che speravate di esservi liberati delle mie chicche riguardanti le imperfezioni nei testi narrativi. Invece no! Eccovi alcune perle di piccole dimensioni, come recita il titolo di questo post. Leggendolo, capirete perché.

Una casetta piccolina in Canada
Vi ricordate della deliziosa canzone di Gino Latilla sulla casetta in Canada, che faceva canticchiare i nostri padri e nonni? Eccovi il passaggio più famoso:

Aveva una casetta piccolina in Canada 
con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, 
e tutte le ragazze che passavano di là 
dicevano: “Che bella la casetta in Canada”!

L’argomento che vorrei affrontare in questa sede è l’uso delle alterazioni nella lingua italiana, cioè quelle modifiche alla parola che non ne intaccano il concetto fondamentale. Facciamo un po’ di sano e necessario ripasso grammaticale, il che ci riporterà indietro ai tempi della nostra scuola elementare e ci farà ritornare alla memoria tanti ricordi, belli o brutti che siano.

Le alterazioni linguistiche si suddividono in quattro gruppi:

Ragazza e cane di Pierre-Auguste Renoir
Il cane di questo dipinto è senz’altro
un cagnolino o un cagnetto!
  • diminutivi, con i suffissi -ino, –ello, -etto oppure -uccio. Se scrivo “tavolo” nel mio testo, al lettore verrà in mente l’immagine di quell’appoggio tanto utile nelle nostre cucine e sale da pranzo. Se invece dico “tavolino”, incorporo nella parola qualcosa che ne riduce le dimensioni. Potrei dire “piccolo tavolo”, però, e il risultato sarebbe sempre lo stesso: ho alterato le dimensioni, non l’oggetto in sé. Soprattutto con gli animali il diminutivo si rivela di particolare efficacia. Un conto è scrivere “asino”, un conto è scrivere “asinello”; in quest’ultimo caso porgeremo omaggio a questo mite e robusto quadrupede, di natalizia memoria insieme al bue, suo cornuto collega. 
  • accrescitivi, con i suffissi –one oppure –acchione. Se scrivo “matto” indico una persona con disturbi mentali più o meno gravi, e che spesso darà in escandescenze, ma se scrivo “mattacchione”, tutto cambia: si tratterà di una persona allegra e incline a fare scherzi, simpatica e conviviale, ma sostanzialmente innocua. Un “furbo” è una persona che vive di raggiri ed è pure un po’ antipatica perché se la cava sempre, un “furbacchione” è proprio un furbo di tre cotte.
Betty Boop equivale a Bettina
 o Betta e non a Elisabetta.
  • vezzeggiativi, che spesso equivalgono nei suffissi ai diminutivi. Oggi i vezzeggiativi sono usati pochissimo, tranne che per riferirsi a nomi di persona. Se scrivo Carla è solo il nome di una persona di sesso femminile, se scrivo Carluccia potrei riferirmi ad una bambina o a una Venere tascabile. Interessante è notare che i vezzeggiativi, in questo senso, sono usati anche in molte altre culture, come a dire che l’affetto non ha geografia. Ad esempio, in inglese, Nicholas è il nome canonico (Nicola), Nick o Nicky sarà usato dalla mamma o dagli amici (Nicolino) anche per riferirsi ad un gigante attempato.
  • peggiorativi, con i suffissi –accio e –astro. Se scrivo “cane” mi riferisco ad un animale che non possiede caratteristiche spiccate né nel bene né nel male, lo dovrò scoprire leggendo… ma, se scrivo “cagnaccio”, al lettore verrà subito in mente l’immagine di un randagio con i denti scoperti e il pelo irto e sporco. Potremmo anche dire, come nell’esempio del tavolino: “un cane brutto e cattivo”, però sarebbe meno d’effetto.

Peccato che le alterazioni si stiano perdendo nei testi degli scrittori nostrani!

L’errore su cui vorrei attirare l’attenzione sta nell’accostare ad una parola già alterata dal suffisso un aggettivo che vuole ottenere lo stesso scopo. Quindi è un errore dire: “una piccola isoletta”, perché con “isoletta” abbiamo incorporato già nella parola l’alterazione. L’abbiamo già diminuita nelle sue dimensioni. Come a dire: si credeva grande e importante come l’Inghilterra, non è altro che uno scoglio in mezzo al mar. Parimenti, è un errore scrivere: “un brutto cagnaccio” o “un cattivo cagnaccio”.

E quindi, direte voi, è un errore la “casetta piccolina” situata in Canada? Sì, è un errore, ma si tratta di una licenza canora e poetica. Noi però non scriviamo canzoni, ma romanzi, e quindi facciamo attenzione. A meno che, ripeto, non vogliamo far parlare in modo sgrammaticato un nostro personaggio.

Poco o tanto, ci vuole l’apostrofo
Visto che l’ho tirata per le lunghe con la questione delle alterazioni, riservo questo spazio ad un errore – anzi, ad un erroraccio – che si sta diffondendo in maniera davvero endemica, come la pianta di ambrosia nei nostri giardini, cortili e aiuole, e che come l’ambrosia causa starnuti, lacrimazioni e sinusiti: la parola pò con l’accento anziché con l’apostrofo.

Vi prego, non fatelo. Scrivete po’ perché deriva da “poco”, e la parola con l’elisione ha perso per la strada la sua coda. “Pò” con questa specie di coperchio sulla testa, tutto inclinato sulla sinistra, è orribile a vedersi. Nessuno di noi potrebbe asserire di scrivere come Alessandro Manzoni, e nessuno di noi può quindi permettersi di infrangere le regole grammaticali senza farla franca.

Scrivere pò anziché po’ è un errore imperdonabile anche per uno scrittore in erba.