Il principe Aldebaran e la sua sposa percorsero il ponte levatoio del Castello-Fortezza a notte fonda, accompagnati da un frastuono di zoccoli ed un rotolare di cerchioni, e inseguiti dalle prime gocce di pioggia che, alle loro spalle, punteggiavano le acque ormai livide e minacciose del fiume, ed entrarono nel castello. Mentre il ponte si rialzava con un gran scorrere di catene, e possenti grate di ferro si abbassavano con altrettanto tremendo fragore, la principessa girò lo sguardo tutt’attorno: lo posò sulle mura alte e massicce, bucate da finestrelle grigliate, dietro cui s’intravvedevano bianchi volti come balenii nella notte, e sugli spalti merlati, formicolanti di guardie armate. Un’alta figura oscurò, per un attimo, la luce d’una torcia che le fiammeggiava accanto. Era quella dello sposo. “Vieni, mia signora,” le disse Aldebaran, tendendole la mano guantata, “il re è stato avvisato del nostro arrivo e ci attende con impazienza.” Insieme varcarono una porta, e salirono un ampio giro di scale larghe e bassissime, lordate qua e là da sterco di cavallo e a malapena illuminate da torce infilate ad anelli alle pareti, fino ad arrivare ad una porta di legno massiccio crivellata da pesanti borchie.
Il principe aperse la porta, e un latrato assordante risuonò nella stanza: cinque enormi molossi, col collo chiuso da un collare irto di punte di ferro, e i denti acuminati protesi ad azzannarli, si lanciarono contro gli sposi abbaiando ferocemente… per fermare la loro corsa davanti ad Aldebaran, scodinzolando e uggiolando di gioia e abbassandosi sul pavimento. Lyra, che aveva sobbalzato di spavento all’inattesa accoglienza, si aggrappò allo sposo quando quelle fiere le si accostarono, annusandole le vesti e mostrando i denti. “A cuccia,” intimò il principe e gli animali, con gran sollievo della fanciulla, si allontanarono brontolando in un angolo della stanza.
In quel mentre, il pavimento di pietra risuonò d’un passo pesante. Un giovane tarchiato, e assai trasandato d’aspetto, comparve sulla soglia d’una seconda porta, e là s’arrestò.
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Alboino re dei Longobardi |
“Anche i denti di Fomalhaut sono aguzzi come quelli dei suoi molossi,” pensò Lyra, osservando il re mentre mangiava. “Ed il naso è umido e sensibile come quello d’un cane,” aggiunse, sempre mentalmente, sentendo montare dentro di sè un crescente ribrezzo. Accanto a quei denti aguzzi, che strappavano la carne dall’osso, e la masticavano con forza, per poi lacerarne nuovi brandelli fino a spolparlo del tutto, erano le dita tozze, dalle unghie nere, che giravano e rigiravano il cosciotto d’agnello. Al mignolo della mano sinistra, Fomalhaut portava un anello d’oro con il simbolo del regno inciso, di squisita fattura, ma sia il prezioso metallo sia la bellezza della lavorazione erano velati dall’olio che vi colava sopra. Pure il mento del re dei Crudeli era ornato d’una barba rada, assai più chiara di quella di Aldebaran, ch’era quasi corvino, e malcurata, e l’olio
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I Tetrarchi – Venezia, p.za S. Marco foto di Giovanni dall’Orto, 2007 license Creative Commons |
dell’intingolo s’aggiungeva alla sporcizia in cui egli la teneva. Nei Quattro Regni dicevano, infatti, che Fomalhaut assomigliasse al padre, e Aldebaran alla madre. Di quando in quando, egli lanciava ai suoi molossi, acciambellati accanto alla fiamma del camino, gli ossi semispolpati, ed i cani rizzavano, pronti, la testa, li prendevano al volo, per poi contenderseli ringhiando.
Davanti a lei era seduta la regina Denebola – sposa del re, e perciò sua cognata – la quale mangiava chiusa in un silenzio indifferente. La donna aveva accolto gli sposi senza pronunciare alcuna parola di benvenuto, e s’era lasciata baciare da Lyra senza opporsi, ma senza nemmeno mostrare gioia o curiosità. Aveva capelli del colore e della consistenza della stoppa, un incarnato pallido, a tratti smorto, e l’occhio spento. Nelle mani che sbucavano dalle ampie maniche del vestito, e toglievano pezzi di carne dall’osso, pigramente, pareva non circolasse alcun sangue. L’unico segno della sua regalità era una semplice coroncina d’oro che le cingeva la fronte, da cui pendeva un gioiello a forma di fiore, e quell’ornamento prezioso era come un diadema posto sulla testa d’un uccello spelacchiato.