È sempre sgradevole ricevere una recensione negativa, ma, per quanto mi riguarda, anche scriverla. Sul mio blog non ce ne sono molte, solo “Il diavolo nella cattedrale” fino ad ora. Come ho più volte detto, preferisco dare un parere sull’opera in
separata sede se l’autore è alle prime armi, e sempre se lo desidera (a meno che l’autore non appartenga alla specie dello
scrittore-pavone di cui ho già avuto modo di trattare e che quindi mi
perseguiti chiedendo a gran voce parole di elogio!… lì rischia grosso…).
La copertina del romanzo
nell’edizione spagnola
Ho molte meno remore quando si tratta di un autore che
costituisce un cosiddetto “caso editoriale” e che vende quindi centinaia di
migliaia di copie. La mia recensione non lo danneggerà più di tanto nelle
vendite. In questa sede vi parlerò quindi di un romanzo che aveva tutte le
premesse per tenere avvinti dalla prima all’ultima pagina e anche costituire un
memento utile su un argomento che è sempre bene riportare alla mente: quello
dei campi di concentramento e dei criminali nazisti scampati alla cattura dopo la guerra. Si
tratta de Lo que esconde tu nombre di Clara Sánchez, un titolo altamente significativo
in lingua spagnola (Che cosa nasconde il tuo nome), che, per misteriose
ragioni commerciali, in Italia si è tramutato ne Il profumo delle foglie di limone senza alcun aggancio al titolo originale
e poco collegamento al contenuto se non per la presenza di giardini. Non solo, anche la copertina, di grande impatto nella versione
spagnola, si è trasformata in un’immagine edulcorata e naturalistica che fa pensare ad
una storia sentimentale. In questo modo si tradisce innanzitutto l’autore, che
ha inteso narrare ben altre vicende, e il potenziale lettore, che si illude,
comprando il libro senza soffermarsi granché sulla quarta di copertina, di leggere
una vicenda d’amore. 
   
La copertina del romanzo
nell’edizione italiana
La
storia viene narrata in prima persona da due punti di vista, alternati tra loro:
quello di Juliàn, un ottantenne che vive in Argentina ed è sopravvissuto agli
orrori del campo di concentramento di Mauthausen, e Sandra, una trentenne incinta
recatasi sulla Costa Blanca, nella villa vuota della sorella, per trascorrervi
un periodo di vacanza. Juliàn giunge nella ridente località di mare perché
chiamato da un amico, Salvo, come lui sopravvissuto al campo e ospite di una
casa di riposo. I due anziani appartengono ad un’organizzazione che non ha mai smesso
di dare la caccia ai loro aguzzini, e proprio una coppia norvegese composta da
un ex-ufficiale nazista e da sua moglie, all’epoca infermiera, si nasconde
sotto falsa identità in un’altra villa del luogo. Giunto alla casa di riposo,
Juliàn scopre che l’amico è già deceduto e che quindi, in un certo senso, gli
ha lasciato il compito di continuare nella caccia. Per una serie
di circostanze, sulla spiaggia Sandra fa amicizia con i due anziani, Fredrik e Karin Christensen, e diviene loro ospite fissa, ma conosce anche Juliàn, che la mette sull’avviso a proposito di chi siano veramente i suoi amabili anfitrioni. Confusa su ciò che vuole fare nella sua vita, sui suoi sentimenti per il padre del bambino e priva di una professione, o di qualsivoglia progetto, la ragazza decide di aiutare Juliàn nelle sue indagini mettendo a repentaglio la sua incolumità. Viene così a scoprire che i due appartengono ad una Confraternita di ex-nazisti, tutti residenti nella zona, nata allo scopo di nascondersi e proteggersi e dediti a bere strane pozioni di lunga vita.

Dopo un buon inizio dove si costruiscono le premesse della storia e dove c’è una sana dose di inquietudine strisciante, il romanzo sembra scivolare lentamente come fosse su un piano inclinato: la narrazione perde mordente, la storia si annacqua tra contraddizioni e incongruenze, logistiche e psicologiche, le scene si ripetono sempre uguali fra appostamenti e giri in fuoristrada, visite a centri commerciali e palestre, appuntamenti sulla stessa panchina tra Juliàn e Sandra, incontri tra ex-carnefici ed ex-vittime che dovrebbero essere magistrali e si trasformano in innocue scaramucce… In generale, tutti i personaggi sono tratteggiati in maniera superficiale (fra loro salverei solo Juliàn) e, quel che è peggio, trasmettono la loro banalità intrinseca a una storia che dovrebbe invece essere basata sulla paura, e l’orrore per un passato oscuro che riemerge dal pozzo della Storia; e che quindi, a un certo punto, non trasmette più niente. Il registro linguistico dei due personaggi principali, che dovrebbe essere diverso per vissuto, sesso ed età, è uguale in maniera quasi imbarazzante. Il lettore finisce per annoiarsi nella consapevolezza inconscia che tutto continuerà così fino alla fine. E succede proprio in questo modo: alla fine di trecento pagine, nessuna corda intima è stata toccata, nessuna riflessione profonda è stata fatta… e non rimane una sola scena memorabile in testa.

La prima edizione del memoriale
di Primo Levi

Ma il vero delitto di questo libro non è tanto letterario, quanto di intenti, ed è questo che mi ha causato la maggiore irritazione. Non è facile parlare di nazismo e di campi da parte di chi non li ha vissuti sulla propria pelle, per giunta traducendoli in un romanzo, ma non si può ridurre il nazismo e i suoi membri di spicco a un Moloch addomesticato e patetico, quando così mai è avvenuto, nemmeno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel leggerlo, mi venivano in mente ben altre testimonianze e ben altre sofferenze: quelle vere e atroci di Primo Levi, in Se questo è un uomo o I sommersi e i salvati, o quella delle donne ebree costrette a prostituirsi ne La casa delle bambole di Yahiel De-Nur. Rileggiamo piuttosto queste pagine se vogliamo tentare una riflessione: non perderemo il nostro tempo né a livello narrativo né a livello storico, irretiti da qualche furba operazione di marketing, ma rispetteremo meglio la memoria degli esseri umani che patirono tante indicibili sofferenze e ne terremo viva la memoria.