La copertina del romanzo,
edito da Einaudi
Con la descrizione onirica di un edificio, che ricorda certe costruzioni escheriane o i vertiginosi interni di Piranesi, si apre il romanzo Dance Dance Dance dello scrittore giapponese Murakami Haruki. La voce narrante racconta infatti d’aver sognato, per l’ennesima volta, l’Albergo del Delfino a Sapporo. Anche stavolta non ha visto in sogno l’edificio di cui era stato ospite tempo addietro, ma un luogo completamente diverso: La forma dell’albergo appare
distorta. È molto lungo e stretto. Tanto lungo e stretto da sembrare, più che
un albergo, un lungo ponte coperto da un tetto. Un ponte che si estende, in
tutta la sua lunghezza, dall’antichità alla fine del mondo. Io ne faccio parte.
Lì dentro c’è anche qualcuno che piange. E io so che piange per me.
Chi piange? Il sognatore ne è sicuro: è
Kiki, una squillo di lusso con cui egli ha trascorso un brevissimo periodo nell’albergo,
e scomparsa nel nulla da qualche mese. Decide così di mettersi alla
ricerca della ragazza, che ricorda come enigmatica, sulle tracce di quel pianto udito solamente in sogno, prendendosi
un periodo di riposo dal suo lavoro di giornalista freelance e una vita dove
le persone entrano ed escono come folate di vento dalle porte di una stanza.

Il protagonista arriva all’albergo di Sapporo e, invece di ritrovare l’edificio vecchiotto e odorante di muffa, insieme al suo personale stinto e fuori moda, scorge una
costruzione modernissima e asettica, tutta vetro e metallo. Dell’edificio che
fu, l’albergo ha conservato solamente il nome. Pur deluso e stupito, prende possesso della stanza prenotata e continua il suo soggiorno in città, peregrinando senza scopo apparente tra
una tavola calda, un bar e un ristorante. E anche il lettore non comprende bene
e subito dove voglia l’autore voglia veramente condurlo a livello letterario, se attraverso un
romanzo noir o giallo, o una storia al limite della fantascienza o che sfiora
il paranormale, tanto che all’inizio sembra quasi che la trama si assottigli e si
disperda proprio come la volontà del protagonista maschile, di cui non si conoscerà
mai il nome.

Ma Murakami ha il dono di portare, lentamente, dove vuole, e
ad un certo punto ci si trova invischiati e irretiti nella trama… e si va
avanti come attirati da una forza magnetica. È una sorta di ipnosi data dalla
storia e, senza dubbio, da una scrittura precisa ed asciutta, fatta a piccoli
tocchi e tipica della cultura nipponica, ma anche originata dai brani della musica occidentale che bene o male contrassegna ogni romanzo di Murakami. Si tratta proprio
del misto tra oriente e occidente, antichità e modernità, concretezza e
sogno, simboli sottilmente ossessivi che sempre ritornano (la forma bellissima delle orecchie della ragazza), assurde creature mezze umane e mezze animali – perché la letteratura è fatta anche d’immaginazione e irrazionalità, o sarebbe solo contabilità di parole – che
costituisce l’originalità di questo autore e delle storie spiazzanti che ci racconta.

Yayoi Kusama, Peep Show, Castellane Gallery, New York, 1966
Una storia, come questa di Dance dance dance, dove anche l’esistenza “reale” è, comunque, costellata di incontri con personaggi imprevedibili: centraliniste nervose che sanno più di quanto non vogliano dire, attori affascinanti prigionieri del proprio ruolo, scrittori falliti e messi in ombra da mogli di successo, poeti con un braccio solo, ragazzine sensibili e sensitive, una coppia di poliziotti minacciosi e kafkiani, che meritano il soprannome di “letterato” e “pescatore”…

L’albergo scintillante e high-tech costituisce dunque solo un pretesto per narrarci una realtà che si fa sempre più incomprensibile e nello stesso tempo intrigante. I numeri dei piani e delle stanze sono indizi e livelli come in un videogioco. I corridoi, diventati improvvisamente bui come la pece, cambiano il proprio odore e la consistenza dell’aria e conducono ad altri luoghi. Si scoprono ambienti claustrofobici in cui vivono esseri forse generati dalla mente del protagonista e dei suoi comprimari, o forse appartenenti davvero ad altre dimensioni; e che ti aspettano. Come dice uno di queste creature al protagonista, la realtà non è una, ve ne sono molte, e molte potenziali. Tutto è in eterna sospensione e tutto s’interseca, come i cavi delle linee telefoniche, come gli stessi corridoi e le scale dell’albergo, o di altre abitazioni del romanzo, come le strade eternamente sfuggenti che si stendono davanti allo sguardo, come le connessioni neuronali della mente. Tutto sembra all’apparenza sconnesso e casuale, tutto,
invece, è collegato come se vi fossero griglie che si mettono in movimento e
che vanno ad incastrarsi le une nelle altre o, viceversa, ad aprire pozzi
temporali sotto i piedi dell’io narrante. E ogni mossa successiva dipenderà dalle decisioni del protagonista. Un romanzo che consiglio vivamente, dal finale imprevedibile come tutti quelli cui ci ha abituato Murakami. 

***

Una doverosa avvertenza: Nel segno della pecora costituisce l’antefatto al romanzo recensito in questo post, che comunque risulta comprensibilissimo. Provare per credere.