Nei paesi del Commonwealth si commemorano i caduti delle ultime guerre mondiali con il Remembrance Day (o Armistice Day), nello specifico l’11 novembre, data in cui terminò il primo conflitto di portata planetaria. Ci si appunta un papavero artificiale come ulteriore segno della memoria. Il fiore deriva da una poesia dell’ufficiale medico canadese John McCrae “Nei campi delle Fiandre.” Inoltre quest’anno si
commemora l’inizio della Prima Guerra Mondiale, detta anche Grande Guerra, con molti documentari trasmessi in televisione, pagine sui
quotidiani, dibattiti e visite sui luoghi delle battaglie e nelle trincee. Molti storici stanno riconsiderando le due guerre mondiali nel loro
insieme, come se fossero state un unico, immane conflitto di portata
planetaria, appena interrotto da un breve intervallo di tempo. Secondo questa
teoria la guerra, quindi, sarebbe durata dal 1914 al 1945.
La copertina del libro,
edito da Mondadori

Il mio personale fiore di papavero è stato la lettura di un romanzo sulla
Prima Guerra Mondiale. Avendo già letto Una
lunga domenica di passioni
di Japrisot, di cui avevo visto il film (e
consiglio vivamente entrambi), ho affrontato il classico Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, che
molti di voi avranno letto da ragazzi. Il romanzo narra le vicende di un
gruppo di compagni di scuola che, irretiti dai discorsi propagandistici di un
loro insegnante, si arruolano come volontari per essere poi inviati al fronte
delle Fiandre. Paolo Bäumer, il protagonista, narra in prima persona e in media
res la dura realtà che si trova ad affrontare con gli amici rispetto all’ideale
illusorio di una guerra intesa in senso patriottico. Tra le altre cose
l’insegnante fautore del loro arruolamento si è ben guardato dal fare
altrettanto, anche se subirà una sorte altrettanto cruda di quella
dei suoi allievi. Il romanzo narra esperienze vissute in prima persona
dall’autore e si avvale di uno stile scarno e di taglio già cinematografico.
Proprio l’asciuttezza nella scrittura rende il tutto vivido e terribile come un
affresco dalle fosche tinte, al punto che sembra di condividere, almeno con il pensiero
e il cuore, le terribili sofferenze di una generazione di giovani e
giovanissimi che fu distrutta dalla guerra. Distrutta non solo a causa delle
vite stroncate, ma anche a causa della fatica a riadattarsi per coloro che
ritornarono a casa, segnati com’erano dagli orrori cui avevano assistito.

Il vero volto della guerra si mostra a partire
dall’addestramento, in cui ragazzi appena usciti dall’infanzia diventano duri,
diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi. Il narratore sostiene tuttavia che fu
un bene, e che erano quelle le qualità che a loro mancavano. Se ci avessero mandato in trincea senza
quella preparazione, i più sarebbero impazziti. Così invece eravamo preparati a
ciò che ci attendeva.
 
E il fronte: una danza macabra dove sembra che il
caso domini nella scelta di chi deve vivere e morire, per cui, spostandosi di
un soffio, si evita la granata che, invece, falcerà il compagno. Sono narrate
scene impressionanti per il loro realismo: le sofferenze dei soldati nelle
trincee, falciati o maciullati dagli attacchi delle granate, in un’esistenza
dove sussistono solamente i bisogni primari e poco altro. I combattimenti e l’arrivo
dei gas, il grido di allarme “Gaas! Gaas!”, le maschere indossate con gesti
frenetici, il rischio che il gas penetri e bruci i polmoni, la vista del vapore
mefitico che striscia sul terreno e scende in ogni avvallamento. La
claustrofobia e gli attacchi di panico di quando la trincea potrebbe crollare e
seppellire vivi i soldati. La morte dei cavalli con la pancia squarciata e le
interiora penzolanti, le loro urla insopportabili, che fanno esclamare a
Detering, il contadino, come la più grande infamia sia far fare la guerra anche
alle bestie.

Ci si rende conto, soprattutto, che non è solo la paura della
morte a incombere sopra i soldati, e che è già di per sé terribile, ma la paura
della lentezza nel morire, di
un’agonia che può durare giorni tra sofferenze inaudite e che niente può
lenire, vuoi per il luogo dove si muore, magari in un avvallamento o in campo
aperto dove i soccorsi non possono arrivare, o magari nel letto di un ospedale
carente di morfina.

Gassed di John Singer Sargent (1919)
Imperial War Museum, Londra – http://www.iwm.org.uk/
Nonostante la durezza della vita militare e l’orrore della
guerra, un forte sentimento di solidarietà si sviluppa tra i soldati, uno dei
pochi sentimenti positivi che la guerra potesse produrre. Si condivide il poco cibo
che si ha, si cerca di aiutare il compagno ferito, di calmare gli attacchi di
panico degli ultimi arrivati. Si sviluppa, anche un sesto senso rispetto al
pericolo, una duttilità impensabile nella quiete domestica. Nel
nostro sangue si è formato una specie di contatto elettrico, come allo scatto
di una molla. Non sono modi di dire, è un fatto: è il fronte, è la coscienza
del fronte che sviluppa questo contatto. Al fischio delle prime granate, al
primo strappo dell’aria solcata dalle detonazioni, subito nelle nostre vene,
nelle mani, negli occhi è come un’attesa sommessa, un origliare, un essere più
svegli, una singolare duttilità dei sensi; all’improvviso tutta la persona si
trova in piena efficienza.

Anche, in occasione di una licenza, l’impossibilità, ma
anche l’inutilità di spiegare ai propri familiari e conoscenti un orrore che
nessun vocabolario sarebbe sufficiente a descrivere e la sensazione di
appartenere ad un generazione ormai tagliata fuori da qualsiasi possibilità di
salvezza e normalità. Lo sguardo differente con cui si osserva il paese, la
chiesa, le case, il fiume, il viale di tigli, come se tutto fosse cambiato nel
tempo. Persino la casa dove lo aspettano i genitori e la sorella sembra fuori
registro. Naturalmente è lo sguardo del soldato che è cambiato. Niente sarà più lo stesso. L’impossibilità, quindi, anche nel caso di un ritorno definitivo a casa come avvenne per l’autore, di non superare il ricordo, lo sprofondare nella depressione, il tormento degli incubi. La scrittura fu terapeutica e consentì a Remarque di liberarsi, almeno in parte, della condanna al ricordo, ma per molti reduci non fu così.
Erich Maria Remarque
Non è un caso che un libro così efficace nel descrivere
l’orrore della guerra, e la sua inutilità, fosse stato accusato di pacifismo, e
il suo autore esposto all’accusa di essere ebreo e di non essere mai nemmeno
stato al fronte. Nel 1930 il film tratto dal romanzo venne proiettato a Berlino
dove i nazionalsocialisti provocarono disordini. L’intervento repressivo sarà
ancora più schiacciante nel 1933, quando anche il libro di Remarque verrà
bruciato nel tristemente famoso rogo dei libri, insieme ad altri autori
“degenerati”.

Mi piace comunque chiudere questa breve recensione citando
uno dei pochi momenti, nella storia, dove il tempo sembra essersi cristallizzato
e dove la guerra si fa in qualche modo lontana. Un momento di fraternità, quasi
di meditazione. Il protagonista Paolo e il capo della sua squadra, Stanislao
Katzinski, abilissimo nel procurare cibo per tutti, hanno catturato una grossa
oca e, al riparo di un casolare abbandonato, di notte, la stanno arrostendo con
lentezza, come si deve. La mangeranno e conserveranno il resto per gli altri,
dopo.

Un piccolo soldato ed una voce
buona: e se gli deste una carezza, forse non vi capirebbe più: ha gli scarponi
ai piedi e il cuore pieno di terra; e marcia così, e ha tutto dimenticato
fuorché il marciare. Non sono forse fiori all’orizzonte, e una campagna così
quieta e serena, che gli vien voglia di piangere? Non sorgono là immagini di
cose ch’egli non ha perdute, perché non le ha possedute mai: di cose che lo
turbano, ma che per lui sono passate vie: non sono là i suoi vent’anni?