Gli dei norreni Odino e Frea.

I Longobardi: chi erano costoro?

La Storia affonda le sue origini nel mito, spesso costruito ad arte per motivi di propaganda, e comunque parte di quel patrimonio di cui è detentrice l’intera umanità. Le origini dei Longobardi non vi fanno eccezione, e contribuiscono ad accrescere il fascino di questo popolo guerriero, ancora per molti aspetti misterioso. Il primo cenno alle loro origini mitiche si ritrova nell’Origo Gentis Langobardorum redatta da un anonimo nel VII sec., poi ripresa dal cronista per eccellenza Paolo Diacono nel suo Historia Langobardorum. In una delle leggende, si narra che la dea nordica Frea consigliasse alle donne dei Winnili di sistemare i lunghi capelli attorno al viso per sembrare uomini. In questo modo avrebbero aumentato il numero dei guerrieri appartenenti a quel popolo che, per primo, si sarebbero presentati al cospetto di Godan (Odino), il suo sposo, per assicurarsi la vittoria. Questi, nell’osservare quelle schiere, le chiese: “Chi sono questi uomini dalle barbe lunghe?” Al che la dea rispose: “Poiché hai dato loro un nome, dai loro anche la vittoria.“ Ebbe così origine il termine longobardi o langobardi.

Re Rotari in trono,
particolare dall’Editto di Rotari

Ma il mito erompe nella Storia.

Ed ecco che, nell’anno 568 dell’Alto Medioevo, questo popolo guerriero e nomade invade irresistibilmente il nord Italia attraverso il Friuli, per poi conquistare gran parte della nostra penisola dando vita ai due regni. Il primo è conosciuto come Langobardia Maior, nome attribuito ai domini dell’Italia settentrionale e dell’attuale Toscana, ripartita in numerosi ducati e avente Pavia come capitale. Il secondo è noto come Langobardia Minor, in riferimento ai domini dell’Italia centro-meridionale, corrispondente ai ducati di Spoleto e di Benevento. Dopo la conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno, nel 774, quest’ultimo regno rimane ancora a lungo sotto controllo longobardo e quindi sotto la loro influenza. 


Stirpe di guerrieri e conquistatori, senza alcun dubbio, che invadevano, saccheggiavano, violentavano, ammazzavano e gettavano nel terrore le popolazioni, prima di insediarsi saldamente ai posti di comando. Inutile trasformarli in qualcosa che non furono, e non potevano certamente essere vista l’epoca. Ma dai Longobardi provennero anche grandi re, come Rotari e Liutprando, di cui si conoscono editti e leggi scritte, di straordinaria e non scontata modernità. E da loro giunsero regine passate alla Storia per determinazione e carisma, e ispiratrici di profonda devozione, come Teodolinda che traghettò il secondo sposo, Agilulfo, e tutto il suo popolo, dal paganesimo al cristianesimo. Grandemente abili erano nella lavorazione del metallo con cui forgiavano i loro strumenti di offesa e difesa: e quindi, come naturale conseguenza, esperti anche nella lavorazione dei gioielli di cui si adornavano, ancora una volta di sconcertante modernità per linee, raffinatezza e gusto. A testimonianza che l’uomo cerca d’istinto la bellezza, a qualsiasi segmento storico e ceto sociale appartenga. 
Paolo Diacono, raffigurazione
in un manoscritto medievale

I Longobardi e Trezzo sull’Adda

Nella sua Historia Longobardorum Paolo Diacono racconta di una battaglia combattuta nell’anno 698 tra Cuniperto ed Alachi in località Coronate, a pochi chilometri da Trezzo. Negli anni ’70, nella località furono rinvenute delle sepolture in una collina argillosa, che, forse, ebbero a che fare con la battaglia. Si tratta di cinque sepolture maschili appartenenti a personaggi di altissimo rango gerarchico, probabilmente i cosiddetti gastaldi (o funzionari regi). Nelle tombe fu ritrovato un ricchissimo corredo composto da spade, cinture, lance, scudi, scramasax, elmi, fibbie, croci d’oro, monete, broccati, vasellami e vari altri oggetti. Non da ultimo, furono portati alla luce tre importanti anelli sigillari al negativo: uno con gemma (corniola di colore rosso) incastonata con l’incisione di un granchio, e due anelli d’oro massiccio detti di RODC HIS VIR e di ANSV ALDO, come da scritta che attornia il viso di ciascun personaggio. Dopo accesi dibattiti, storici e archeologici ritengono che i volti siano i ritratti dei proprietari degli anelli, e non quelli dei loro sovrani. Uno degli uomini tumulati, Rodchis, era un uomo talmente alto che dovettero spezzargli le gambe per deporlo nella tomba. Per questo egli è soprannominato il Gigante di Trezzo.

Antonio Migliozzi e l’Officina Orafa

Antonio Migliozzi, classe 1964, è un maestro nella lavorazione manifatturiera dei gioielli, che nel 2000 ha aperto la sua Officina Orafa a Trezzo sull’Adda. Dal suo laboratorio escono gioielli ispirati ai soggetti più svariati, ma, tra le collezioni che può presentare con maggior vanto, primeggia la linea ispirata all’oreficeria longobarda. All’importante Museo di Vimercate, e anche al castello di Trezzo, ci sono sue riproduzioni di croci e anelli. La passione di Antonio per questo popolo è diventata non solo un’ispirazione professionale, ma quasi un’ossessione. Si può ben dire che i longobardi siano ormai i suoi maggiori datori di lavoro!

Antonio Migliozzi nella sua bottega.
Copyright foto: Antonio Migliozzi.
1. Antonio, raccontaci brevemente come si è svolto il tuo apprendistato per diventare maestro orafo.

Innanzitutto mai avrei detto che, un giorno, sarei stato nel campo dell’oreficeria: non avevo né attitudine manuale né fiducia nelle mie capacità né interessi specifici. Ho iniziato a lavorare molto presto, all’età di 16 anni.

Dopo un inizio tribolato in una macelleria, mio padre mi aveva trovato lavoro presso un orefice. Il mio primo impatto fu negativo: si trattava di uno scantinato, dove vidi alcuni ragazzi che lavoravano a un banchetto. Poi, uno di loro mi mostrò quello che stava saldando: un anellino. Qualcosa scattò in me: quell’oggetto era bello, pur nella sua semplicità. Però… non ero affatto sicuro che sarei stato in grado di fare qualcosa di simile.

In quel luogo, cominciai come fattorino: ero incaricato di comprare le pietre, segnare costi e pesi per ogni pezzo e rendere conto dei miei acquisti. Nei tempi liberi, imparavo a lucidare. Ero ansioso di apprendere, e tempestavo di domande le categorie di professionisti per carpire qualcosa dai segreti del mestiere: gli incastonatori, gli orafi, gli incisori, i grossisti di semilavorati… Nel mio settore, infatti, ognuno è gelosissimo delle sue tecniche, e io non evolvevo. Dopo altre esperienze professionali poco formative, e cercando anche di apprendere in casa come autodidatta, finalmente giunsi a lavorare con un orafo che, in soli due anni e a tappe forzate, aveva completato la mia formazione.

A Milano avevo aperto un mio laboratorio dove lavoravo su commissione per gioiellerie importanti e non, e anche per privati. Poi avevo fatto un breve periodo nel settore dell’alta gioielleria, che equivale a ripartire da zero (ad esempio, lì ho imparato a lavorare il platino, cosa difficilissima). Alla fine ho traslocato da Milano a Capriate, aprendo la mia bottega orafa a Trezzo sull’Adda, ma quasi per caso. Il posto mi era piaciuto, durante una visita di passaggio.

Anello di Rodchis, anello con granchio 
e anello di Ansvaldo.
Copyright foto: Antonio Migliozzi.

2. Parlaci del tuo primo, straordinario incontro con i Longobardi, e soprattutto con i loro lavori di oreficeria. Un incontro che ti ha cambiato la vita.

Gli inizi sono stati difficili, tanto è vero che in vetrina mi limitavo a esporre solamente disegni di gioielli. A Trezzo, puntavo a produrre qualcosa che fosse legato al territorio. Mia moglie Nives era allora andata in biblioteca, e aveva portato a casa dei volumi e delle fotocopie. Avevo quindi letto della figura di Jacopo da Trezzo, un medaglista, incisore e scultore vissuto nel 1500 e più conosciuto all’estero che da noi, con gioielli poco rispondenti ai gusti moderni.

Poi, presi in mano il materiale riguardante le sepolture longobarde ritrovate negli anni ’70. Là, vidi la fotografia di una splendida fibbia con un’incisione a forma di otto. Non conoscevo per niente il significato dell’otto, ma colsi immediatamente la forza e soprattutto la straordinaria bellezza emanate da quell’oggetto. Infatti, io ho un’esigenza interiore di bellezza che è come una necessità. Il secondo oggetto raffigurato era una croce con volute al suo interno. Capii che questo manufatto era riproducibile. Servendomi di fotocopie ridotte, cominciai innanzitutto a riprodurla con carta carbone. La mia ulteriore difficoltà era che avrei dovuto imparare a incidere. Difatti, io non ero incisore e, anche lì, sarei andato per tentativi. Alla fine ci ero riuscito. Ragionandoci sopra, avevo pensato anche a delle modifiche – secondo me la croce non stava bene con la contromaglia – e ideato una chiusura a snodo differente per metterne maggiormente in risalto la bellezza.

3. Che cosa ti affascina maggiormente nell’oreficeria longobarda? Quali sono le maggiori difficoltà per un artigiano dei giorni nostri nel riprodurre questi antichi gioielli? 


Mi affascina la spiritualità nei disegni, e l’intreccio che è inserito in tutti questi manufatti. Si tratta di un discorso che si collega con il simbolo dell’infinito. Un legame infinito. Non sai dove l’artista ha cominciato a incidere e dove ha concluso il lavoro, per via del segno che è come un flusso incessante. Quando ho davanti agli occhi oggetti come questi, mi confondono… Per riprodurlo, infatti, devi trovare la logica alla base dell’oggetto, e ogni volta è una sfida perché non sono mai dei segni casuali. Di conseguenza tu, l’artigiano, ti modifichi in relazione all’oggetto cui stai lavorando, come se stessi trafilando te stesso. Cosa che succedeva senza dubbio anche agli artigiani longobardi.

La croce di Trezzo.
Copyright foto: Antonio Migliozzi.

Per quanto riguarda le difficoltà odierne nel riprodurre questi gioielli, sono innumerevoli. Prima di tutto, come dicevo, ogni disegno possiede una sua logica. Se tu lo copi com’è, senza interpretarlo, l’oggetto sarà inevitabilmente brutto. Invece, se cerchi di comprenderne l’anima, sarà un pezzo unico. Ciò ti conduce a una ricerca incessante per ampliare la tua esperienza, e, anche grazie agli errori, a perfezionare i tuoi strumenti di lavoro o a inventarne di propri. 

L’artigiano deve avere stimoli, perché solo grazie a quelli sarà in grado di trasmettere la sua passione nel manufatto. Difatti l’oggetto contiene qualcosa di te, e ed emana uno suo spirito nei confronti di chi lo osserva e lo prende in mano. Siccome si tratta di oggetti superflui, che non rispondono a necessità primarie, devono essere interessanti. Quell’oggetto deve servire all’anima. Deve far stare bene chi lo acquista, che esiterà a disfarsene e vorrà invece trasmetterlo ai suoi figli come un valore (al di là dei materiali preziosi impiegati). Infatti il mio primo acquirente rimase affascinato da una croce longobarda, pur non possedendo alcuna cultura in tal senso. Fu un colpo di fulmine, se ne innamorò e lo acquistò. Grazie al passaparola, nel tempo mi sono fatto conoscere.

4. Nei simboli della loro oreficeria, hai potuto constatare una sorta di denominatore comune con altre culture geograficamente lontane (e con cui, all’epoca, era impossibile avere scambi)?

Senza dubbio c’è un filo conduttore comune a tutti i popoli. Ad esempio io ho constatato un forte legame tra i vortici presenti nei manufatti dei Maori e quelli della cultura celtica, che certamente non potevano conoscersi. Anche lì ci sono intrecci che ti confondono. Più che di simboli religiosi, parlerei di simboli animistici, legati alle forze spirituali della terra. Queste sono interpretate dall’uomo attraverso rappresentazioni oniriche o fantastiche, e poi sintetizzate da disegni molto stilizzati su oggetti. L’oggetto diventa quindi magico, nel senso del valore che tu gli attribuisci. Di recente ho studiato anche la cultura degli Incas, e ho visto ripetersi la stessa cosa.

5. Ogni gioiello ci racconta una storia. Esaminiamo l’anello sigillare di Rodchis, il “gigante” di Trezzo. Che cosa ci può rivelare di questo anello, partendo  dal luogo del suo ritrovamento e dal suo aspetto? 

Anello di Rodchis.
Copyright foto: Antonio Migliozzi.
L’anello di Rodchis è l’esemplare più bello in assoluto del periodo longobardo. All’inizio, nell’esaminarlo, mi pareva vi fossero elementi grezzi di taglio. Invece non è per nulla semplice, anche in considerazione degli strumenti usati all’epoca. Io nell’anello vedo la “fotografia” di quest’uomo. Lui ha la pettinatura tipica dell’epoca, con la scriminatura in mezzo alla fronte, due bande laterali di capelli, e la barba. La mano ha le due dita sollevate nel gesto della maestà. Il proprietario era senza dubbio un uomo di altissimo rango, anche in considerazione di un corredo funerario unico nel suo genere. La parola VIR nell’anello sta per “uomo illustre”, cioè riconosciuto da tutti come un’autorità.

L’anello sigillare di Ansvaldo, invece, non ha questa parola al suo interno. Gli anelli sigillari erano apposti sulla ceralacca delle missive per apporre un segno di riconoscimento del mittente, e non tutti li avevano. Molto importante è anche l’anello di Marchebadus, l’unico ritrovato in S. Ambrogio a Milano. Lui ha una piccola croce alla sommità del capo, che divide in due i termini “marche” e “badus”.

Imperatrice Teodora, basilica di San Vitale
a Ravenna. (Fonte: wikipedia)
6. Lasciamo per un attimo Trezzo, ma rimaniamo in questo ambito storico. Dopo aver parlato degli uomini, raccontaci dell’anello di una signora, Gumedruta. L’originale si trova al British Museum, ma fu ritrovato a Bergamo e la riproduzione è presente nella tua collezione. 

Anello di Gumedruta.
Copyright foto: Antonio Migliozzi.

L’anello di Gumedruta è ancora più enigmatico di quello di Rodchis, se possibile, non fosse per il fatto che è l’anello sigillare di una donna. Anche lei ha la mano nella posa della maestà, con le due dita alzate. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che si tratti dell’immagine di un uomo imberbe, per giustificare la presenza di un anello al femminile. Anche l’abbigliamento è comunque affascinante perché è vestita come una regina: sembra avere sul capo una corona con pietre pendenti ai lati, alla bizantina, molto simile all’immagine dell’imperatrice Teodora nei mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna. Era sicuramente una donna di alto rango anche lei, anche se non è rintracciabile su fonti o altri documenti. Fatto sta che non sono stati trovati anelli sigillari femminili come questo.




7. I Longobardi, come ho accennato nell’introduzione, si convertirono al cristianesimo. Ci vuoi parlare del simbolo per eccellenza della cristianità in termini di oreficeria? 



Loro erano popolazioni nomadi e guerriere, arrivate dopo il crollo dell’Impero Romano che si erano innestate nella cultura romana dei popoli conquistati. Chiaramente le croci non potevano essere longobarde, ma dovevano derivare da altri tipi di manifatture. All’inizio tuttavia le loro croci contengono i motivi a volute di derivazione germanica: è come se fosse presente l’anima barbarica pur inserita in un simbolo cristiano. Nel corredo di Rodchis invece c’è una splendida croce, ma è, ancora una volta, particolare perché nel suo interno ci sono tre piccole croci e il tutto richiama i dettami dell’arte cristiano-bizantina. Ad ogni modo è incredibile come, proprio attraverso l’oreficeria, si possa capire come la loro cultura d’origine fosse stata completamente assorbita fino a diventare irriconoscibile.

8. Per concludere… al di là della Storia e di tutti i dibattiti in corso che lasciamo agli esperti, quale idea ti sei fatto tu? Chi erano i Longobardi?


Cavaliere, lastrina in bronzo dorato dello Scudo di Stabio,
VII secolo. Berna, Historisches Museum. (Fonte: wikipedia)



Erano degli alieni… ! Perché era davvero come se provenissero da un altro pianeta, per quanto erano diversi dalle popolazioni conquistate. Avevano cambiato completamente la fisionomia e la Storia dell’Italia. Ma, alla fine, avevano perso la loro identità iniziale: da conquistatori essi erano stati irresistibilmente conquistati.

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Ringrazio Antonio per aver risposto alle mie domande, con l’augurio di trovare sempre nuovi stimoli per elaborare la bellezza all’interno della sua bottega di maestro orafo. Non resta che recarci presso la sua bottega per ammirare le sue creazioni. Per farlo, potete trovare tutti i dettagli nel sito della sua Officina Orafa http://www.traccedistoria.com/ e cominciare a lustrarvi gli occhi davanti alle sue splendide collezioni.


La domanda che vi rilancio è: sperimentate anche voi qualcosa di simile a ciò che descrive Antonio quando scrivete o dipingete o disegnate? Siete anche voi cercatori di bellezza?



Fonti:

I Signori degli Anelli – Un aggiornamento sugli anelli-sigillo longobardi – a cura di Silvia Lusuardi Siena – V&P Università

L’eredità longobarda, ritrovamenti archeologici nel milanese e nelle terre dell’Adda – a cura della Soprintendenza Archeologica della Lombardia



N.B. Il copyright delle fotografie di gioielli è di Antonio Migliozzi, dove specificato. Si fa divieto di riprodurle in altri ambiti senza prima chiedere l’autorizzazione al proprietario.