Questo post è l’ideale prosecuzione di un precedente articolo dal titolo I quadri, i romanzi e… i paesaggi naturali” che, se volete leggere, trovate qui e che appartiene alla serie ormai collaudata dei “vasi comunicanti”. Questa volta mi occupo di quei luoghi costruiti dalla mano dell’uomo che costituiscono l’ambientazione di romanzi e racconti, magnifici o squallidi che siano. Rimane sottinteso il concetto che anche i luoghi artificiali possono essere proiezioni dell’inconscio e della fantasia, e distorcersi in modo da diventare irriconoscibili… e anch’io, nel comporre questa nuova carrellata, mi sono trovata a scegliere in modo istintivo non tanto edifici fatti di pietre, cemento e mattoni quanto veri e propri luoghi-creatura o luoghi-simbolo.

Essendo più che mai necessario operare una selezione, mi sono limitata ad alcuni che trovo particolarmente nelle mie corde!

Il castello: Il castello di Otranto di Horace Walpole 

Per un’amante del Medioevo come la sottoscritta non poteva che essere questo edificio a inaugurare la mia rassegna. Il castello, chesorge solitamente in un luogo strategico, spesso in posizione elevata, rialzata e arroccata e facilmente difendibile, è indubbiamente uno dei luoghi che hanno goduto di maggior fortuna in campo narrativo e cinematografico; e che può essere dimora della magnificenza come pure dell’orrido. 

Il castello di Otranto, pubblicato nel 1864, diede l’avvio al cosiddetto filone del romanzo gotico-fantastico dove il quotidiano si mescolava al soprannaturale. Si trattava di una novità assoluta, in considerazione del fatto che i due generi erano sempre stati considerati distintamente. La corrispondenza tra realtà esterna e realtà interna è quanto mai viva in questo romanzo in cui la psicologia detta legge. Lo stesso autore, Horace Walpole, narrò in una lettera a un amico che il romanzo ebbe origine da un sogno: nel risvegliarsi, egli riusciva a ricordarsi di essersi trovato in un antico castello e che sul pianerottolo più elevato di un salone aveva visto una mano gigantesca rivestita di un’armatura. La sera stessa egli si pose all’opera con tale alacrità che, venuta la sera, non riusciva quasi più a tenere la penna in mano per quanto gli faceva male. Che bella sensazione, questa, per uno scrittore!

Le vicende sono legate a un’oscura profezia sulla signoria di Otranto: “Il castello e la signoria d’Otranto sarebbero venuti a mancare all’attuale famiglia, quando l’autentico possessore fosse diventato troppo grande per abitarvi”. Manfredi, principe d’Otranto, ha due figli: Matilda e Corrado, il suo prediletto. Egli dovrebbe sposare Isabella, la figlia del marchese di Vicenza. Proprio il giorno delle nozze, però, Corrado viene schiacciato da un enorme elmo identico a quello della statua di Alfonso, un precedente principe della signoria d’Otranto. Alla sera Manfredi propone a Isabella di sposare lui. Il principe desidera infatti un erede maschio, che non riesce ad avere dalla principessa Ippolita. Isabella scappa; Manfredi cerca di inseguirla, ma viene trattenuto dallo spettro di un suo antenato. Isabella raggiunge un passaggio segreto che congiunge i sotterranei del castello alla chiesa di San Nicola… E questo, appunto, è solo l’inizio! 

Il castello non viene mai descritto con precisione architettonica, ma visto per parti e spesso in maniera vaga; e questo concorre a farlo diventare un autentico labirinto mentale. Ecco ad esempio il punto dove l’eroina, Isabella, sfugge al principe Manfredi dopo che egli le ha manifestato la volontà di sposarla al posto del figlio: “Con questa risoluzione, afferrò una torcia accesa in fondo alle scale e si affrettò verso il passaggio segreto. La parte inferiore del castello era scavata in diversi corridoi intricati, e non era facile, per chi era così in ansia, trovare la botola che si apriva sulla caverna. Un terribile silenzio incombeva in quel regno sotterraneo: solo, di tanto in tanto, alcune raffiche di vento facevano sbattere le porte che Isabella si era lasciata alle spalle, con un cigolio dei cardini arrugginiti che riecheggiava attraverso quel lungo e oscuro labirinto.” Quindi, come potete intuire, nel romanzo c’è tutto quell’armamentario ad effetto che a me piace tanto!

Ho fatto parecchia fatica a trovare un quadro a olio così come lo volevo io, e alla fine mi sono orientata su questo A View of Tantallon Castle del 1816 di Alexander Nasmyth. Mi piace perché in qualche modo richiama il castello di Otranto che si affaccia sul mare, e per i colori assoluti e violenti, quasi al calor bianco. L’edificio che incombe alla sommità degli scogli è prepotentemente illuminato dalla luce sfolgorante che arriva dal cielo e appare gigantesco se paragonato alla barca a vela in balia delle onde, che sta per schiantarsi sugli scogli, in mezzo al mare infuriato. Tutta la parte inferiore e superiore del dipinto, con la spiaggia, le rocce e le nuvole nere, costituisce una cornice ideale per inquadrare il castello.

La chiesa: Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos

Sulla falsariga dell’edificio come luogo dell’anima, è la volta della chiesa intesa non tanto come edificio ma come comunità religiosa sottoposta alle cure di un pastore di anime. In questo romanzo, scritto nel 1936, un giovane prete appena ordinato viene inviato come parroco ad Ambricourt, un piccolo villaggio francese. Il sacerdote vuole ispirare la sua azione pastorale allo spirito del Vangelo, e per questo entra continuamente in contrasto con i parrocchiani. Si occupa anche della situazione della famiglia del conte locale, che ha una relazione con la governante della sua figlia adolescente, Chantal. La contessa è nemica di tutti: il marito la trascura, vive solo del ricordo di un figlio morto piccolo, ha un atteggiamento di ribellione anche verso Dio. Nonostante questo, il prete riesce a riportarla alla fede, ma si attira l’ostilità dei paesani dopo la morte della contessa.

Non gli resta che affidare pensieri e tormenti a un diario segreto, strumento di presa di coscienza della propria interiorità e di conseguente auto-liberazione. Forte solo della propria fede, goffo, magrissimo, minato da un male incurabile, egli vive nella solitudine e in una quotidianità ridotta al minimo. Tutto il romanzo è percorso da una profonda irrequietudine spirituale, a partire dal protagonista che, come tutti i “novizi” incomincia il suo ministero con grande entusiasmo, salvo a scoprire che può gettare solo dei semi e sperare che essi attecchiscano e senza poter presumere niente con le sue sole forze. Incarna dunque la forza di una fede che non è priva di dubbi, ma alla fine si affida totalmente a Dio. E dove l’eroismo è quello del quotidiano in cui le piccole azioni diventa grandi se irrorate da questo soffio potente. Nel romanzo ci sono frasi che sono come squarci: “L’inferno, signora, è non amare più.”

Ed ecco la descrizione del villaggio, ovvero della “chiesa”, all’arrivo del giovane prete sotto una pioggia triste di novembre: “Il villaggio m’è apparso bruscamente dalla parte di Saint-Vaast, così ammucchiato, tanto miserabile sotto l’odioso cielo di novembre. L’acqua gli fumava sopra da tutte le parti. Sembrava essersi coricato là, nell’erba ruscellante, come una povera bestia stracca. Com’è piccolo, un villaggio! E quel villaggio era la mia parrocchia.” 

Il dipinto del 1890 a olio di Van Gogh, La chiesa di Auvers, richiama bene il mondo descritto da Bernanos nel suo romanzo: quello di una società chiusa e gretta i cui membri di maggior spicco sono sordi a ogni sollecitazione spirituale. L’ho scelto perché trovo che l’edificio, che risulta deformato dalla pennellata convulsa di Van Gogh, quasi in procinto di sciogliersi come la cera di una candela, rispecchi molto bene la comunità con cui il protagonista dialoga in un tentativo quasi disperato. La figurina di donna vista di schiena concorre ad aumentare il senso di incomunicabilità del quadro.

La biblioteca: Il nome della rosa di Umberto Eco

Non occorrono molte presentazioni per il romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa, edito per la prima volta da Bompiani nel 1980. L’opera non è solamente un giallo storico, ma è un testo contenente diversi livelli di lettura in cui ciascuno può seguire il filone più congeniale, concentrandosi sulla serie di delitti che hanno luogo nell’abbazia, oppure sulle digressioni storiche e filosofiche, sulla perfetta ambientazione, sul meccanismo dei dialoghi e su molti altri aspetti. La storia è ambientata sul finire dell’anno 1327 e presenta l’espediente narrativo del manoscritto ritrovato, opera di un monaco di nome Adso da Melk che, ormai anziano, decide di raccontare i terribili fatti cui assistette come novizio molti decenni addietro. La storia ha luogo in un monastero benedettino dell’Italia settentrionale, e Adso è il novizio e compagno di frate Guglielmo da Baskerville che gli fa da maestro. Nella stessa abbazia sta per avere luogo l’incontro tra la congregazione dei frati francescani spirituali e gli inviati del Papa da Roma. L’abate del monastero approfitta della presenza di Guglielmo, ex-inquisitore, per incaricarlo di investigare sulla morte di un giovane confratello, che una notte si è gettato dalla finestra di un’alta torre dell’abbazia. Le prime giornate sono funestate dalla morte misteriosa di altri monaci, i cui omicidi parrebbero legati all’imminente venuta dell’Anticristo

Uno degli ambienti più famosi e affascinanti presenti nel romanzo è quello della biblioteca. In generale, grande o piccola che sia, pubblica o privata, questo ambiente rappresenta un universo composto dalle molte storie e anche dalle molte esistenze dei loro autori. Nel romanzo la biblioteca è congegnata come un’autentica “costruzione mentale”, in cui Guglielmo e Adso, una volta riusciti a entrare, puntualmente si perdono. Ecco la descrizione della prima sala in cui si trovano: “La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colonnine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio numerato, e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch’esso ripieno di libri. Su tutti i volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta. Sopra l’arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: Apocalypsis Iesu Christi.”

Per questo romanzo avevo scelto inizialmente un’immagine di Escher con una sfera riflettente, ma mi sembrava davvero troppo moderna. Così mi sono orientata su questo San Girolamo nel suo studio di Antonello da Messina del 1474-1475, attualmente alla National Gallery di Londra. Il dotto umanista e padre della Chiesa è intento alla lettura. La luce entra da più fonti a partire dall’arco centrale. Lo sguardo dello spettatore si posa immediatamente sulla figura centrale, circondata da un’architettura solenne e senza tempo. Vari animali si aggirano nella composizione, come il leone amico del santo, un pavone e un gatto. La presenza dei libri non è massiccia, ma mi piace perché, ancora una volta, si tratta di libri quasi metafisici.

Il faro: Gita al faro di Virginia Woolf

Lo so, lo so… mi direte: “Ancora Virginia Woolf! Ma non l’avevi già citata con Le onde nel post precedente?” Il fatto è che questa scrittrice per me è un modello inarrivabile a livello letterario. Siccome volevo un luogo legato al mare, avevo scelto il porto, ma non mi venivano in mente esempi che non avessi già fatto e soprattutto reperibili nella mia biblioteca di cui ormai sto perdendo il controllo; e quindi ho optato per questo romanzo che costituisce uno dei capolavori di Virginia Woolf e uno dei vertici letterari di tutti i tempi. Fu pubblicato nel 1927 ed è suddiviso in tre grandi quadri che corrispondono ad altrettanti momenti temporali, dal titolo: I. La finestra, II. Il tempo passa, III. Il faro.

Il romanzo si apre sulla vacanza estiva che la famiglia Ramsay sta compiendo sull’Isola di Skye. La signora Ramsay assicura al figlio James che il giorno dopo sarebbero andati sicuramente al faro. Tale affermazione è bocciata dal signor Ramsay, il quale afferma che sarà impossibile andarci per via del maltempo. Tale opinione provoca una certa tensione fra i coniugi Ramsay e anche fra il signor Ramsay e James. Ai Ramsay, in questa vacanza, si sono uniti vari amici e colleghi, fra cui una pittrice che sta tentando di dipingere un ritratto della signora Ramsay con il figlio. Lily è piena di dubbi riguardanti la sua arte e la sua vita, dubbi alimentati anche dalle affermazioni di Charles Tansley, altro ospite dei Ramsay, il quale sostiene che le donne non sono capaci né di dipingere né di scrivere. …

La trama è quasi inesistente, perché il vero protagonista è il flusso di coscienza dei personaggi. La mancata gita al faro dell’inizio diventa il pretesto per un’investigazione sul senso della vita, sui rapporti familiari, sulla memoria e sul tempo che eternamente scorre. L’incipit è il seguente, nella traduzione di Giulia Celenza per l’edizione Garzanti: “Sì, di certo, se domani farà bel tempo,» disse la signora Ramsay. “Ma bisognerà che ti levi al canto del gallo,” soggiunse. Queste parole procurarono al suo bambino una gioia immensa, come se la gita dovesse effettuarsi senz’altro, come se il prodigio che a lui sembrava d’aver atteso per anni e anni, fosse ormai, alla distanza d’una notte nel buio e d’una giornata sul mare, quasi a portata di mano. Giacomo Ramsay, all’età di sei anni, apparteneva di già a quella vasta categoria di gente che non può tener distinte le proprie emozioni, ma lascia che i lieti o mesti presagi del futuro annebbino quanto va realmente accadendo.”

Per illustrare il romanzo, ho trovato un bel quadro del 1925 di Charles Webster Hawthorne, un pittore americano, dal titolo Highland Lighthouse, con un faro inondato dal sole che sembra sfaldarsi ma allo stesso tempo irradiare tutto il potere del ricordo di un evento gioioso, così indietro nel tempo da essere quasi indistinguibile.

La città: Le città invisibili di Italo Calvino

Ed ecco la città, il luogo artificiale per eccellenza, e che, in realtà, racchiude tutti quegli ambienti preposti alle attività di un grande agglomerato umano, dall’abitazione al negozio, dal tempio al palazzo del potere. Qui avrei avuto solamente l’imbarazzo della scelta, ma siccome il post ha preso un andamento quasi metafisico, chiudo in bellezza con questo originale, straordinario libro di Italo Calvino, pubblicato nel 1972: Le città invisibili.

In esso il punto di avvio di ogni capitolo è il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, che lo interroga sulle città del suo immenso impero che egli non ha mai visto. In realtà Marco Polo descrive in ogni capitolo delle città che possono essere sia reali sia frutto della sua fantasia. All’interno c’è un’ulteriore suddivisione tra le “città e la memoria” alle “città nascoste”. In questo romanzo, che ha una struttura combinata esattamente come in un gioco, il lettore ha quindi la possibilità di seguire un raggruppamento o un altro, la divisione in capitoli o in categorie, o semplicemente saltando da una descrizione di città a un’altra. Le città descritte da Marco Polo diventano quindi caos di desideri e di memoria, dove con la sua narrazione egli tenta di dare un ordine esattamente come fa lo scrittore quando intende conferire armonia alla sua opera. Perché ciò che Calvino vuole mostrare, come da lui stesso affermato alla fine del libro, è “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.”

Per l’estratto ho scelto una città che appartiene alla categoria delle città invisibili e a cui è dedicato il capitolo “La città e il cielo”: “Chiamati a dettare le norme per la fondazione di Perinzia gli astronomi stabilirono il luogo e il giorno secondo la posizione delle stelle, tracciarono le linee incrociate del decumano e del cardo orientate l’una come il corso del sole e l’altra come l’asse attorno a cui ruotano i cieli, divisero la mappa secondo le dodici case dello zodiaco in modo che ogni tempio e ogni quartiere ricevessero il giusto influsso dalle costellazioni opportune, fissarono il punto delle mura in cui aprire le porte prevedendo che ognuna inquadrasse un’eclisse di luna dei prossimi mille anni. Perinzia – assicurarono – avrebbe rispecchiato l’armonia del firmamento; la ragione della natura e la grazia degli dei avrebbero dato forma ai destini degli abitanti.

A corredo di questo libro ho scelto Castle and the Sun di Paul Klee, un’opera del 1928 che non solo si sposa bene con il romanzo di Calvino e potrebbe costituire un’eccellente immagine di copertina, ma diventa un ideale raccordo con il castello che ha inaugurato la mia galleria di luoghi costruiti dall’uomo.

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E per voi quali sono i luoghi artificiali che meglio ricordate nei libri letti, e a quali immagini li abbinereste? Avete voglia di seguirmi ancora una volta in questo gioco?




Partecipanti al meme:




Fonti:

  • Foto iniziale: “Rio” da Pixabay
  • Il castello di Otranto di Horace Walpole – Bompiani
  • Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos – Mondadori
  • Il nome della rosa di Umberto Eco – Bompiani
  • Gita al faro di Virginia Woolf –Garzanti
  • Le città invisibili di Italo Calvino – Mondadori
  • Wikipedia per trame, fortemente adattate e modificate