Se vogliamo scoprire come eravamo, o meglio che cosa mangiavamo e perché, non possiamo prescindere dalla lettura del saggio

Alimentazione e cultura 
nel Medioevo 

di Massimo Montanari, una vera e propria pietra miliare per chiunque s’interessi al periodo sia come studioso sia come semplice appassionato. Come esplicitato nel titolo, il saggio non riguarda soltanto il cibo inteso come alimento indispensabile alla sopravvivenza, ma anche come espressione culturale dell’essere umano posto in un determinato contesto sociale e religioso da cui viene influenzato e che egli influenza a sua volta. Per questo motivo accade che fortissimi parametri mentali siano a volte più determinanti del cibo stesso, in un’epoca pur soggetta a carestie e alla scarsità di determinati alimenti.

Il capitolo dal titolo “Il peccato di Adamo” crea subito un significativo collegamento del cibo con il passo biblico, ovvero il peccato della gola, e della lussuria conseguente in quanto i progenitori scoprono di essere nudi subito dopo aver ceduto alla tentazione di mangiare del frutto proibito. Per questo motivo nella cultura cristiana il problema del cibo diviene centrale, in quanto è la prima occasione di cedimento ai sensi al di là dell’ovvia necessità di avvalersene per non morire di fame. Se la gola è il primo dei vizi, però, il digiuno diverrà lo strumento con cui fortificare lo spirito e fuggire dal peccato. La sessualità fa così paura che in ambito religioso diventa una vera e propria ossessione e, e l’equivalenza tra la carne alimentare e la carne intesa come corporeità e sensualità è pressoché matematica.

Di contro, è nella classe nobiliare che si sviluppa il polo opposto dell’alimentazione come espressione di forza e violenza. L’uomo nobile, ovvero l’uomo potente, è colui che mangia molto. Non solo, egli deve mangiare molto per esibire il proprio status sociale. Scatta qui l’allarme del pensatore cristiano, soprattutto al cospetto di tale quantità di cibo, in quanto l’eccesso provoca una sovrabbondanza di “umori” che portano alla sovraeccitazione sessuale. Riscaldato da cibo e bevande, il sangue si risveglia e provoca appetiti di vario genere. Santi abati, padri della Chiesa, persino l’apostolo Paolo ammoniscono che la concupiscenza di cibo non è altro che la libido carnale, cosa peraltro confermata anche nei testi di materia medica a partire dal IV secolo, uno per tutti, la Collezione medica di Oribasio. In essi si sostiene che certi cibi favoriscono la sessualità, altri la inibiscono. Nascono così le indicazioni mediche, ad esempio per la cura dell’impotenza, suggerita dallo stesso Oribasio, e alla nascita di una delle teorie fondamentali della medicina medievale, ovvero quella dei quattro “umori”: caldo e freddo, umido e secco che, combinati in varia misura, costituiscono a determinare tutto ciò che esiste in natura, uomo compreso. Da qui ad esempio la predilezione degli eremiti per i cibi crudi, ovvero freddi, come inibitori di sessualità.

Ma il cibo è anche espressione di un incontro-scontro culturale di cui ancora oggi possiamo trovare le tracce sulle nostre tavole e nelle nostre stesse scelte alimentari, e che viene ben spiegato nel capitolo “Barbari e Romani”. La civiltà greco-romana, sviluppatasi in ambito che possiamo definire mediterraneo, ha nella cerealicoltura e nell’arboricoltura con vite e olive la principale fonte del suo sostentamento, accanto a una pastorizia soprattutto a carattere ovino. Grano-olio-vino vengono integrati non tanto dalla carne, quanto dai latticini e in modo particolare dalla produzione casearia.  Le popolazioni celtiche e germaniche che arrivano dal Nord Europa, invece, si avvalgono di un’economia silvo-pastorale, con caccia, pesca, raccolta di frutti e allevamento del bestiame allo stato brado, specialmente con riguardo ai maiali. Il regime alimentare di questi popoli prevede quindi un ingente consumo di carne, ma anche di ortaggi derivati dalle coltivazioni orticole. Questi due modelli alimentari così diversi si contaminano e portano a un modello “misto”. Chiese e monasteri diventano i principali motori di espansione del modello produttivo di tipo “mediterraneo”, anche grazie alla necessità di produrre localmente il cibo necessario. Il modello produttivo germanico trova invece ampia diffusione nelle regioni centro-meridionali dell’Europa. Gli spazi incolti come boschi, paesaggi, paludi, non sono avvertiti come un ostacolo, ma occasione di sfruttamento di risorse e come luogo di allevamento, caccia, pesca e raccolta. L’allevamento del maiale, cibo primario nell’Alto Medioevo, è della massima importanza in quanto non è giuridicamente precluso a nessuno. Il dettaglio curioso è che nella Langobardia emiliana precocemente germanizzata sono assai diffusi questi allevamenti suini (ancora proverbiali ai giorni nostri!), mentre nelle regioni limitrofe persiste l’allevamento ovino.

Il cibo diventa un linguaggio (“Il linguaggio del cibo”), come si accennava all’inizio: il ricco mangia di più e meglio, mentre il povero mangia di meno e peggio. Non solo il potente deve ostentare, tramite il banchetto, la propria superiorità, ma spetta anche al pauper non ricercare comportamenti estranei al proprio rango, anche se per ipotesi ne avesse l’occasione. Massimo Montanari qui sfata però un luogo comune del Medioevo, perlomeno nei primi secoli dello stesso, e cioè la possibilità di approvvigionarsi di carne. Nell’Alto Medioevo difatti il tipo di economia, basata sull’allevamento e la caccia, consente un regolare approvvigionamento di carne a tutti i livelli sociali, popolo compreso. Solo con il tempo la caccia grossa, come dire, verrà riservata alla nobiltà. A rinforzare la teoria secondo cui l’alimentazione a base di carne è un simbolo, nell’aristocrazia militare si procede a comminare l’astinenza forzata come forma di punizione ed emarginazione a seguito di un comportamento scorretto. Ancora una volta, quello che è un atteggiamento virtuoso in un ecclesiastico diventa una maniera per indicare come indegno un membro della nobiltà.

Anche nella disposizione dei posti attorno a una tavola imbandita si sottolinea con estrema precisione la gerarchia dei commensali a seconda della maggiore o minore vicinanza all’uomo dominante. Questa assegnazione dei posti è estremamente rigorosa alla tavola bizantina, come ci informa un ambasciatore di Ottone I presso il rex Grecorum. Più informale ma altrettanto significativa è la consuetudine dei Longobardi di cui è attento cronista Paolo Diacono, in cui il figlio del re può stare a tavola col padre solo dopo aver sottratto le armi al nemico, e quindi aver dimostrato il proprio valore. Peraltro anche nei monasteri la disposizione a tavola segue un codice rigoroso, come sappiamo dalla Regola di Benedetto e altri analoghi testi. L’abate ha una sua mensa distinta dove accoglie ospiti di riguardo e pellegrini. La solitudine della mensa diventa anche un segno di esclusione sociale, e nessuno può mangiare insieme a uno scomunicato a meno di essere scomunicato a sua volta. Particolarmente interessanti sono le disposizioni testamentarie a favore dei pauperes relative alla somministrazione regolare di pasti a favore dei più disagiati.

Il ruolo degli animali, com’è ovvio, è della massima importanza sulla tavola medievale, ma non solo (“Mangiare gli animali”). Vi sono suddivisioni tra gli animali destinati al cibo e animali da fatica. Il maiale è comunque il sovrano nei banchetti non soltanto per le carni, ma anche per altri usi come lo strutto. Rari e preziosi sono i bovini, di taglia più piccola rispetto a quelli che siamo abituati a vedere sui nostri pascoli; sono utilizzati come forza-lavoro per le operazioni agricole e i trasporti, più che come produttori di carni e latte, anche perché la selezione delle razze avviene in epoca molto più tarda. Soltanto alla fine della vita essi vengono macellati a scopo alimentare. Per il cavallo il discorso è del tutto particolare, in quanto esso è destinato in prevalenza alle cavalcature militari, sebbene non venga esplicitamente proibito il consumo della sua carne nei libri penitenziali (qui il link all’articolo sul cavallo). Si può dire che solo pecore e maiali vengano davvero destinati alla tavola medievale. A questa schiera si aggiungono quelli gli animali da cortile come galline, oche anatre, e la selvaggina di piccola taglia cacciata nei boschi. Grazie alla presenza di corsi d’acqua, molto diffusa è la pratica della pesca e la presenza di pesce di allevamento. Le tecniche di conservazione e preparazione delle carni e dei pesci rivelano grandissima ingegnosità: in un’epoca dove non esistevano i frigoriferi, si sviluppano ad esempio le tecniche dell’affumicatura e dell’insaccamento, o i formaggi stagionati oppure fusi che reggono il passaggio del tempo, e possono essere trasportati da un luogo all’altro nei lunghi e faticosi viaggi.

Nel saggio c’è il capitolo sulle diete monastiche che riguardano i cibi consentiti e quelli proibiti in corrispondenza del calendario liturgico, l’alto significato cristiano di cibi come il pane (eucaristico) e il vino (benedetto). E gustoso – è il caso di dirlo! – è “Il pranzo dei canonici” dedicato alla furibonda contesa che si innesca nel 1198 tra il vescovo di Imola, Alberto, e i canonici della cattedrale di S. Cassiano. Tra i vari punti delle loro richieste, parecchi sono dedicati al cibo: molto pressante è la pretesa dei canonici di sedere alla tavola del vescovo in occasione di quattro pranzi annuali. Non solo, ma il povero vescovo dovrebbe apprestare i suddetti pranzi anche alla loro familia, ai servientes e ai castaldi con una spesa niente affatto irrisoria per l’epoca, rispettando così la malaugurata consuetudine istituita dal suo predecessore.

Un discorso a parte merita il consumo dei cereali nell’Italia del Sud (“Modelli di civiltà: il consumo dei cereali”), con particolare riferimento alle leggi protezionistiche messe in atto dall’imperatore Federico II per tutelare la produzione nei campi e di conseguenza il lavoro dei contadini. Nel capitolo è molto ben spiegata la cattiva nomea dell’orzo come alimento per gli animali e che persino nelle grandi carestie viene adoperato obtorto collo per produrre pane povero e poco nutriente. Mangiare orzo equivale, nella mentalità dell’uomo medievale, ad essere arrivati al grado più basso della scala sociale, ovvero all’equiparazione con gli animali. Il capitolo “Mercanti” illustra con dovizia di fonti e documentazione il percorso che dovevano fare le navi comacchiesi sotto il regno longobardo di Liutprando per arrivare a Pavia e a quale pioggia di dazi fossero sottoposte.

Infine “Alimentazione e cucina” e “Il sale e la vita dell’uomo” sono capitoli imperdibili per chi scrive racconti o romanzi storici. Nel primo si entra direttamente in cucina, si preparano le pietanze insieme al cuoco di turno e si prende ispirazione da raccolte di ricette; si parla bevande aromatiche e fermentate, insieme a metodi di preparazione, insaporimento e conservazione dei cibi assai intelligenti. La preziosità del sale è ben nota sia come elemento per insaporire sia per conservare, e l’indicazione evangelica “Voi siete il sale della terra” la dice lunga sul tesoro rappresentato nei secoli da questo ingrediente e per cui si combatterono guerre.

Grazie al saggio di Montanari, si può dunque fare una vera e propria immersione nel passato per dare una coloritura più credibile e veritiera alle scene conviviali che scaturiscono dalla nostra penna, se scriviamo di Medioevo.

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Fonti:
Alimentazione e cultura nel Medioevo di Massimo Montanari – Editori Laterza


Immagini:

  • Cucina medievale
  • Sant’Onofrio anacoreta in una icona bizantina
  • Macellaio – miniatura dal De Univers” di Rabano Mauro – Montecassino, X-XI sec.
  • Arazzo di Bayeux – Scena 43 : il vescovo Odon benedice il banchetto – Bayeux, seconda metà dell’XI secolo
  • Copertina del libro