Continuo nella mia rassegna di articoli sul personaggio di Bernabò Visconti, che ormai ha piantato saldamente le sue tende nel mio blog in vista del famoso evento che avrà luogo il giorno 8 luglio. Questo sarà dunque l’ultimo post prima del grande finale con tanto di locandina. Tenete duro! 🙂

Bernabò, intemperante e violento, aveva un suo senso della giustizia pur dalla logica contorta. Anche nei momenti in cui era maggiormente irritato, sapeva apprezzare l’arguzia con cui una persona controbatteva, e quindi la presenza di spirito era essenziale per salvarsi la pelle. Naturalmente non tutti erano dotati di questa capacità, e la maggior parte di chi lo contrariava fece una gran brutta fine: alcuni vennero sepolti vivi, ad altri vennero cavati gli occhi, altri furono decapitati, altri bastonati, altri bruciati… e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo visto il sadismo di cui Bernabò dava prova alla minima infrazione alle sue leggi o ai suoi capricci. Se oggi è vera la frase “La legge non ammette ignoranza”, egli la applicava alla lettera. L’imprevedibilità di Bernabò, le sue reazioni sproporzionate, gli scoppi d’ira incontrollati gli conferivano quell’aura terrorizzante e diabolica con cui è giunto fino a noi, pur se alimentata dalla damnatio memoriae cui fu sottoposto per opera del nipote Gian Galeazzo che lo aveva scalzato.

Dopo la sua morte vi fu una fioritura di novelle, la maggior parte delle quali originate in Toscana, favole e dicerie che traggono Bernabò fuori dalla Storia comunemente intesa per trasformarlo in un vero e proprio protagonista letterario. Veri o presunti che fossero i fatti narrati, danno la misura di quello che doveva essere l’uomo, che potete vedere qui sopra in un momento di particolare buonumore nell’incisione di Eugenio Silvestri (1845), tratta dal libro Ritratti dei Visconti, Signori di Milano di C. Pompeo Litta. Questa fioritura culminò nell’Ottocento con il romanzo La Ca’ di Can di Carlo Tenca, contemporaneo di Manzoni, e di cui ho parlato qui.

Nelle Trecentonovelle di Franco Sacchetti, raccolta che con tutta probabilità fu ideata dal Sacchetti durante il suo incarico di priore nel 1385 a Bibbiena e redatta agli inizi del 1392, Bernabò compare come protagonista della novella IV. L’autore asserisce che il signore di Milano era tenuto più in considerazione del Papa. Sacchetti da buon toscano era guelfo e quindi aspramente antivisconteo; eppure in questa novella rende testimonianza alla potenza e al prestigio del dominus milanese. Nella vicenda narrata infatti Bernabò premia la saggezza di un umile mugnaio con la nomina ad abate, dopo che egli è riuscito a risolvere quattro quesiti dalla soluzione impossibile. L’ultimo quesito è: “Quello che la mia persona vale,” La risposta del mugnaio è sia astuta sia lusinghiera: “Ventinove denari, perché nostro Signore Gesù Cristo fu venduto a trenta denari; penso che voi valete un denaro meno di lui.”


Episodio della vita di Bernabò Visconti
(post 1831). Palazzo Cernezzi, Como.
Nel celebre episodio con i legati papali giunti a portargli l’ennesima scomunica del Papa,
Bernabò intima loro: “O mangiate o bevete”:
 l’alternativa era mangiarsi la pergamena e i sigilli oppure essere lanciati nel fiume Lambro.

Bernabò non ebbe alcun riguardo per gli ecclesiastici, che anzi si divertì a maltrattare in modo particolarmente feroce, e in special modo coloro che predicavano bene e razzolavano male. Nelle due novelle che il fiorentino Ser Giovanni dedica a Bernabò, è un frate conventuale a fare le spese dell’intolleranza del Visconti. I conventuali chiedono a Bernabò di sovvenzionare il loro capitolo, ed egli non glielo nega, ma si prende gioco della loro condotta sessuale: “Noi provvederemo a’ lor’ bisogni, massimamente a quelli delle femmine, il quale e’ sa che sarà maggior bisogno che voi abbiate, però che voi ne siete molto vaghi, e quelle che voi avete mo non basterebbero”. Avuta la risposta, uno dei frati ha la malaugurata idea di rispondere per le rime, dandogli del cafone con una frase in latino: “Qui di terra est, di terra loquitur.” Bernabò, che conosceva benissimo il latino e il diritto canonico in quanto, per ironia della sorte, avrebbe dovuto intraprendere la carriera ecclesiastica come figlio cadetto, si vendicò facendo scaldare un ferro e infilandoglielo in un orecchio. Si preoccupò inoltre che uscisse dall’altra parte affinché non udisse mai più.

Vi è un’altra vicenda, riportata dal Sacchetti, da Goro Dati e arrivata fino al Cinquecento in quanto presente anche nei Ghiribizzi del Rofia e anche oltre, che mostra la durezza di Bernabò nei confronti del clero. Un parroco si rifiuta di officiare a un funerale perché la famiglia è così povera che non ha denari per pagarlo, e quindi il signore fa seppellire vivo il parroco insieme al cadavere. L’avversità del  Visconti, in questo e molti altri esempi, sembra esercitarsi contro quel clero più istituzionalizzato e vicino al papato, e quindi più lontano dai bisogni della gente.

Affresco della chiesa di San Giovanni in Conca, chiesa palatina attigua
al palazzo di Bernabò Visconti, che mostra il supplizio di San Giovanni.

Nella IV novella dell’anonimo del codice Ginori Conti è un artigiano a scampare alle ire del signore grazie all’avvedutezza delle sue risposte. Nel racconto è sospettato di essere un ladro, o comunque un disonesto, visto che in un pubblico mercato aveva sgozzato due capponi belli e grassi, esclamando: “Chi gode un dì, non vive di stenti tutto l’anno.” Bernabò lo convoca e gli domanda dove abbia preso i soldi per comprare i due capponi, e perché abbia sprecato tutto quel bendiddio, anziché conservarlo. L’uomo, dopo aver addirittura accusato il signore di essere troppo ricco e avaro, risponde che ha un metodo infallibile per amministrare i pochi denari guadagnati. L’oculatezza dimostrata dall’uomo nella spiegazione della sua tecnica colpisce molto Bernabò, che lo perdona; però gli fa promettere di non rivelare a nessuno il segreto della sua abilità, a meno che non riveda la faccia del suo signore duemila volte. Poi Bernabò fa chiamare i suoi consiglieri e amministratori e li mette alla prova, domandando di scoprire il metodo impiegato dall’artigiano. Dopo essersi spremuti invano le meningi, essi si rivolgono all’artigiano stesso, che glielo rivela in cambio di una bella somma in monete d’oro. Il signore, adirato dal fatto che abbia violato le sue disposizioni, lo fa portare a corte. L’artigiano però gli risponde che aveva visto il suo viso non duemila, ma ben tremila volte, in quanto si era fatto pagare dai consiglieri tremila monete d’oro… proprio con il profilo di Bernabò. Quest’ultimo ammira talmente tanto l’arguzia dell’artigiano, e ne è così divertito, che scoppia a ridere, lo salva e gli fa ottenere benefici e rendite a profusione.

Insomma, un signore di grande crudeltà e spietatezza, che disponeva della vita dei suoi sottoposti a suo capriccio; ma, per contro, provvisto di un suo humour macabro e che sapeva apprezzare l’ingegno di chi lo fronteggiava. Un uomo dalle molte sfaccettature  e di indubbia eccentricità.

Alla prossima!

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Fonte;
Archivio storico Lombardo – “Un denaro in meno di Cristo”. Bernabò Visconti nella novellistica toscana di Luigi Barnaba Frigoli 


Immagini:
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