Vi presento con questo articolo una storia poco conosciuta che rischiava di smarrirsi, e quindi merita un posto di riguardo nel blog “Il Manoscritto del Cavaliere”. Ha come protagoniste un gruppo di donne e narra una vicenda accaduta al tempo della Grande Guerra in territorio italiano: queste donne, umili ed eroiche insieme, sono state inserite nella mia Galleria di Grandi Donne. Ho appreso peraltro della vicenda attraverso le pagine di un bel romanzo, Fiore di roccia di Ilaria Tuti, scritto benissimo con uno stile semplice, poetico e insieme profondo, che parla alla mente e al cuore del lettore a più livelli. Questo romanzo mi ha conquistato fin dalle prime pagine proprio per la qualità della scrittura, e per il fatto che, recuperando questa vicenda, ricolloca le donne e la loro forza nel loro giusto ruolo. 
L’eroismo delle Portatrici carniche

Protagoniste sono le cosiddette portatrici carniche di montagna, e la storia descrive il loro determinante contributo alle sorti degli alpini in Friuli. Queste contadine poverissime e analfabete abitavano nei villaggi di confine con l’Austria, in special modo a Timau, e aiutarono i soldati italiani a resistere su un fronte posto a 1800 mt d’altezza in vari modi, portando loro medicine, rifornimenti, proiettili su sentieri faticosissimi e a rischio della vita. Erano infatti esposte non soltanto al pericolo di precipitare nei dirupi, ma anche al tiro dei cecchini austriaci, soprannominati “i diavoli bianchi”. Maria Plozner Mentil, madre di quattro figli, fu colpita a morte da un cecchino: le fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria nel 1997.

L’appello del comando italiano

Il romanzo Fiore di roccia inizia nel giugno 1915, quando l’esercito italiano versa in gravissime difficoltà, anche a causa dei numerosi errori commessi dal generale Cadorna. I soldati provengono da altre regioni e non conoscono quelle zone così aspre, impervie e lunari. L’esercito austroungarico già da tempo ha dispiegato i suoi uomini, poiché la Carnia è considerata la porta d’ingresso per penetrare in Italia. A difendere questa porta è un esercito italiano male equipaggiato e gettato allo sbaraglio, una situazione che, ahimè, si sarebbe tragicamente ripetuta nella guerra mondiale successiva su altri fronti. 

Il comando italiano sta dunque inviando uomini di paese in paese per chiedere aiuto alla popolazione, ma in questi villaggi, svuotati dal reclutamento, sono ormai rimasti soltanto anziani, bambini e… donne. Il romanzo inizia proprio con la scena in cui alcune donne, dopo essersi consigliate tra loro rispondono all’appello: “Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan,” dice una di loro, “Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame” e si presentano per assumere l’incarico. Inizia così la straordinaria storia di queste donne. 
L’impresa delle portatrici

Esse vengono caricate con pesi che arrivano fino a 40 kg, inerpicandosi per 3-4 ore di cammino sui sentieri, ai piedi soltanto le leggere “scarpetz” con cui sono in grado di far presa sui sassi. “Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle.” Mentre camminano e salgono, le amiche lavorano a maglia, chiacchierano, pregano. 

Tra andata e ritorno, il viaggio richiede l’intera giornata, la fatica è tanta e le cinghie delle gerle incidono la carne viva. Lassù, al fronte, vedono con i loro occhi l’orrore della guerra, tra cadaveri, feriti, mutilati, conoscono la vita quotidiana dei soldati fatta di tagliole, mazze chiodate, pidocchi, sangue e sporcizia. Non c’è nulla di eroico in questa guerra propagandata sui giornali, verso cui non è consentito manifestare il proprio dissenso o semplicemente esprimere un dubbio nella corrispondenza con la famiglia, pena finire davanti alla corte marziale
Anche queste donne sono sottoposte a una rigida disciplina militare, e i loro viaggi e carichi sono scritti nel libretto a testimonianza della loro fatica. Si offrono non soltanto di portare pesi che stroncherebbero chiunque, ma di lavare la biancheria dei soldati e rendersi utili nelle infermerie; portano giù persino le barelle con i morti da seppellire. E al loro ritorno a casa, le aspettano i lavori dei campi, la cura dei bambini, l’assistenza agli infermi e ai malati. Pur avvezze alla fatica, si tratta di un lavoro enorme, quasi sovrumano, che sembra non avere mai fine. Dopo il primo momento di sconcerto e diffidenza da parte dei soldati, queste donne di età diversissime riescono a guadagnarsi il rispetto e l’ammirazione del comando che le considera parte integrante dell’esercito.

Agata sono io, siamo noi

La narrazione è svolta in prima persona per bocca di Agata, una delle portatrici, consentendo un maggiore coinvolgimento del lettore. Attraverso il personaggio di Agata, si assiste anche a un’evoluzione nel ruolo stesso delle donne, che da sempre sono soggette all’uomo, dapprima attraverso la “patria potestas” e poi al marito dopo il matrimonio. “Ho pensato che da sempre siamo abituate a essere definite attraverso il bisogno di qualcun altro.” La donna è un bene che passa di mano in mano, e il destino di Agata sembra segnato. Tra l’altro, accudisce da sola il padre infermo. 

Ma Agata è speciale perché sa leggere e scrivere: la mamma era maestra e le ha lasciato una piccola biblioteca dove, attraverso storie di eroi quali l’Iliade, può staccarsi dalla realtà così triste e buia e partecipare alle imprese di guerrieri e personaggi mitologici. La conquista della libertà, anche interiore, della protagonista passa attraverso la rottura di alcuni stereotipici e convinzioni indotte. Alla fine del libro questa ragazza sarà cambiata, poiché avrà acquisito la consapevolezza di se stessa, attraverso le prove così dolorose della guerra.

Per quanto atroce, la guerra è diventata un’opportunità, per lei come per molte altre donne, che andranno a coprire posizioni lavorative in fabbrica, negli uffici, oppure come crocerossine, lavoro, quest’ultimo, osteggiato dalla Chiesa contraria dalla presenza delle donne sul campo perché avrebbero visto le nudità maschili. Molte si emanciperanno e si rifiuteranno di abbandonare le professioni così duramente conquistate una volta terminata la guerra. C’è da notare peraltro che le portatrici erano abituate a essere indipendenti e sole per lunghi periodi tempo, perché gli uomini emigravano dal Friuli ed esse si occupavano di tutto, dalla compravendita sui mercati ai figli e ai lavori dei campi.

La Caporetto delle donne

Un altro aspetto storico della vicenda, adombrato in una frase di Agata sulla necessità di resistere perché consapevoli di che cosa accadrebbe in caso di invasione del nemico, mi ha ricordato il lavoro che, insieme ai miei compagni di università, avevo avuto modo di svolgere in un seminario con una visiting professor di Dundee che aveva svolto il corso sul tema del femminismo, nazismo e fascismo.

Il nostro gruppo di lavoro aveva ricevuto come tema “Sexual violence in WW1” e a me era stato

assegnato proprio il territorio italiano invaso dall’esercito austroungarico dopo la disfatta di Caporetto e la ritirata. Grazie alla mie ricerche, scopersi dati sconvolgenti, anche se purtroppo non sorprendenti. Nelle regioni di confine in Veneto e Friuli, l’esercito occupante si stanziò in quei territori per circa un anno e stuprò numerose donne, all’aperto o nelle loro case, e persino negli ospedali dove si erano rifugiate o dove giacevano ammalate. Molte vennero violentate mentre erano in cerca di cibo per la famiglia: il 1918 è conosciuto come l’anno della Grande Fame. Nessuna fu risparmiata, bambine, adulte e donne anziane. La maggior parte delle violenze avvenne nella prima parte del novembre 1917, ma durarono anche nell’anno successivo all’occupazione con la sostanziale impunità da parte degli aggressori.

Dopo la fine della guerra e il ritiro del nemico, si aprì una commissione nazionale per richiedere un risarcimento per danni (e lesione dell’onore!), anche se poche donne andarono a testimoniare per vergogna o desiderio di dimenticare. Quindi i numeri che emergono dai lavori di questa commissione sono soltanto la punta dell’iceberg. Vi fu anche un aspro dibattito su che cosa fare dei bambini nati dagli stupri. Dalle pagine dei giornali, la Chiesa sostenne persino che l’aborto era un dovere. Ho scoperto la figura bellissima del sacerdote don Celso Costantini che nel 1918 aperse l’istituto San Filippo Neri a Portogruaro per ospitare sia donne incinte sia i bambini frutto dello stupro, e dove ben 327 bambini furono ospitati e allevati là. Anche Ilaria Tuti si è ispirata alla figura di un prete-simbolo realmente esistito, don Floreano Dorotea, per delineare il don Nero del romanzo.

Il “fiore di roccia”

Ritornando appunto al romanzo,  e lasciandolo alla vostre lettura per non anticipare troppo la parte narrativa, vorrei menzionare alcune figure che emergono con particolare forza e delicatezza tra le portatrici: Agata che conduce il lettore a vivere la storia con i suoi occhi, permettendogli di provare non soltanto la fatica dell’ascesa, la sensazione di fame attanagliante, la paura della guerra e di un futuro ignoto, ma anche la stupefazione sempre nuova scaturita dalla comunione profonda con la natura: emozioni, intatte, quasi ancestrali. Tra le portatrici, Lucia, la giovane madre che ha ispirato proprio la figura di Maria Plozner Mentil onorata della medaglia d’oro. Nel comando italiano, il capitano Colmar che riconosce in Agata un suo pari grado e che la chiama “fiore di roccia”, il nome della stella alpina. E, non da ultimo l’austriaco Ismar, il cecchino o “diavolo bianco”… il personaggio che riserverà molte sorprese al lettore. 

Concludo invitandovi a visitare, al momento virtualmente, il Museo della Grande Guerra di Timau, di cui potete trovare il link nelle fonti.

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E voi avevate mai sentito parlare di questa storia? Conoscete altre vicende poco note, magari locali, che meriterebbero di essere raccontate?

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Fonte testo:
Fiore di roccia di Ilaria Tuti – Longanesi editore

Fonte immagini:
tutte le immagini provengono dal sito del Museo della Museo della Grande Guerra Timau, che potete visitare al seguente link: https://www.museograndeguerratimau.com/

tranne la copertina del romanzo, l’immagine della donna con i bambini (dal web) e la stella alpina (Wikipedia)