Liliana Segre ha scelto di rendere la sua ultima testimonianza pubblica a Rondine, in provincia di Arezzo il 9 ottobre 2020, e il suo resoconto ha trovato espressione in stampa con il libro “Ho scelto la vita“. Davanti a centinaia di studenti delle scuole italiane, e in collegamento con scuole straniere, e alla presenza di molte cariche dello Stato, la senatrice Segre ha parlato per settanta minuti e in un silenzio quasi perfetto. Il silenzio viene preteso da lei stessa per chi non c’è più e non è mai uscito vivo dai campi di concentramento.

Tra i passaggi più toccanti del racconto di Liliana Segre, c’è la descrizione del tragitto di lei, una bambina di tredici anni, insieme con il padre e altri, a bordo dei camion che dal carcere di san Vittore di Milano li avrebbero condotti alla Stazione Centrale e al binario 21. Al carcere i detenuti salutavano con affetto le persone, delle età più svariate – da bambini piccoli alle famiglie agli anziani. Al contrario, nessuno in città nessuno aprì le finestre per testimoniare la loro solidarietà, e nessuno sui giornali dell’epoca ne scrisse, al di là di brevi trafiletti come “Trasporto prigionieri”. Arrivarono alla Stazione Centrale dove furono caricati sui vagoni, che furono poi sprangati. Era così iniziato un calvario la cui ultima stazione sarebbe stata il campo di concentramento di Auschwitz.

Ho voluto recuperare l’articolo che avevo scritto qualche anno fa in occasione della mia visita proprio al Memoriale della Shoah, e che vi ripropongo arricchito della mia lettura del libro. Nel libro di Liliana Segre si ricorda infatti come questo sia l’unico luogo di deportazione degli ebrei a essere rimasto allo stato originario. Il Vélodrome d’Hiver a Parigi non c’è più, per esempio, ed è quindi un’occasione imperdibile per visitarlo, oggi accedendo al sito di cui potete trovare qui il link e, quando sarà possibile a pandemia conclusa, recandosi di persona.

La Storia del Novecento rappresenta l’apogeo della guerra su scala mondiale, e non solo. Nel secolo appena trascorso il Male parve posarsi come una grande coltre luttuosa sul mondo intero: quest’ultimo venne sconvolto da due conflitti senza precedenti, al punto che alcuni storici oggi sono portati a voler considerare l’intervallo tra le guerre come una sorta di lugubre pausa prima della ripresa.

L’essere umano è dunque capace di ogni efferatezza, ma con la Shoah superò se stesso in quanto perpetrò il massacro sistematico di milioni di esseri umani, pianificandolo a tavolino, soprattutto nella conferenza di Wannsee, una riunione tra alti ufficiali e burocrati nazionalsocialisti tenutasi il 20 gennaio 1942, e non come conseguenza di battaglie, pur cruente. In questo modo furono sterminati tra i cinque e i sei milioni di ebrei secondo le fonti attestate, anche se potrebbero essere molti di più. 

I sopravvissuti ai campi di sterminio, dopo aver perso tutta o gran parte della famiglia, come nel caso del padre di Anna Frank, e aver provato atroci sofferenze fisiche, mentali e spirituali, patirono il dolore di non essere creduti, o di avere ascoltatori distratti desiderosi soltanto di dimenticare e lasciarsi alle spalle il passato. Molti, sconvolti dagli orrori subiti, vissero a lungo nella paura e nel timore di essere considerati diversi, e di una ripresa delle persecuzioni. La stessa Liliana Segre tacque per molti anni. 

Ma, come diceva il filosofo e scrittore George Santayana “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo“. Occorre coltivare la memoria, e la parola stessa “memoriale” indica qualsiasi cosa che abbia per fine il ricordo o la commemorazione. Si tratta non soltanto di ricordare, ma farlo in modo che la Storia più recente non sbiadisca nel fluire del tempo o, peggio, non diventi bersaglio di negazionisti. Il rischio del memoriale come edificio statico, infatti, è diventare museo frequentato per dovere, magari scolastico, o per una curiosità fine a se stessa; nello stesso modo la commemorazione può trasformarsi in un vuoto rituale.

 

Il Memoriale della Shoah di Milano, detto anche Binario 21, è un esempio vivente di un modo di ricordare la Storia che tocca le corde più sensibili dell’essere umano. Non può definirsi immersiva, perché nulla riuscirebbe a eguagliare quell’orrore, ma un passo nella direzione giusta. L’ingresso è nella ex-via Ferrante Aporti, ora Piazza Edmon J. Safra, 1, ed è uno spazio che è stato recuperato rispettando l’architettura originaria ed effettuando interventi poco invasivi nell’ottica di offrirti un’autentica esperienza, pur con gli inevitabili limiti come dicevo, di immersione nella memoria.

Per chi non conosca Milano, occorre giungere davanti alla Stazione Centrale, portarsi sulla destra e costeggiare il marciapiede. Attorno ci sono passanti frettolosi, all’altro lato ci sono bar, negozi, porte e passi carrabili, e un filare di alberi, di quelli che, a Milano, sembrano lottare contro il cemento e lo smog per puro istinto di sopravvivenza. Sui gradini di ingressi sbarrati, a ridosso della stazione, vi saranno senz’altro dei poveri infagottati nelle coperte e nei maglioni, distesi o rannicchiati sopra cartoni e con accanto bottiglie e cartocci di cibo. Anche questo è espressione della città.

Arriviamo all’ingresso del Memoriale, un’area un tempo destinata al carico e allo scarico della posta. Tra il 1943 e il 1945, dopo l’armistizio dell’8 settembre e quindi durante l’occupazione dei tedeschi e la Repubblica Sociale Italiana, iniziano i rastrellamenti di massa, gli arresti e le deportazioni. Siamo dunque giunti nel luogo dove gli ebrei, dapprima rinchiusi nelle carceri di San Vittore e poi trasportati sui camion, venivano caricati sui carri bestiame. All’ingresso  verrà consegnato un biglietto adesivo da applicare sugli indumenti, anche per ricordare che gli ebrei dovevano portare su giacche e cappotti la stella gialla di riconoscimento bene in evidenza. Nell’atrio c’è una grande scritta grigia che recita INDIFFERENZA, voluta dalla stessa Liliana Segre: una delle ragioni che permisero ai nazisti e collaborazionisti di agire indisturbati nei confronti degli ebrei. Un atteggiamento pericolosissimo in ogni epoca e a qualsiasi latitudine, che mi porta a chiedere: “Ma io che cosa avrei fatto in quelle circostanze?”

Il Memoriale è un grande spazio apparentemente vuoto e silenzioso, che bisogna scoprire man mano e quasi in punta di piedi come quando entri in un luogo sacro. Vi sono dei tabelloni da leggere, appesi su pilastri nella penombra, che costituiscono il filo conduttore di questo segmento storico degli orrori. Mentre si legge, un rombo scuote il soffitto e le pareti, e si rabbrividisce perché sembra di rivivere… poi ci si rende conto che quel rumore fragoroso è il rombo dei treni che, al di sopra, stanno partendo. I treni di oggi. Eppure l’impressione che ne ricavi è fortissima, meglio di qualsiasi colonna sonora.

Si può continuare a leggere oppure entrare in uno degli spazi insonorizzati dedicati ai filmati con le testimonianze dei sopravvissuti, vedere i luoghi e ascoltare la narrazione, seduti in silenzio.

Si arriva finalmente al binario dove ci sono dei carri merci, del tipo utilizzato per le deportazioni. Si può salire, oppure girarci attorno. In uno si trova una corona e dei fiori. Ogni carro veniva stipato di persone – uomini, donne, bambini, vecchi, mamme e papà – fino all’inverosimile, a furia di calci e pugni, tra i latrati dei cani e le urla dei soldati, terrorizzanti perché sbraitavano in una lingua che nessuno capiva. Con sé avevano pochissimi oggetti, preparati nel giro di venti minuti dalla notifica della deportazione. Quindi il carro veniva piombato e posizionato su un carrello traslatore, che si muoveva lungo un’enorme galleria, visibile ancora oggi, poi immesso su un ascensore montavagoni e poi sollevato fino a raggiungere un binario di manovra all’aria aperta situato tra i binari 18 e 19. In questo modo nessun passante della stazione si rendeva conto di che cosa vi fosse al’interno di quei carri merci.

Agganciati al locomotore, aveva inizio il trasporto verso le tappe intermedie di Fossoli e Bolzano per poi proseguire verso la destinazione finale, cioè i campi di concentramento di Auschwitz e Bergen Belsen. All’interno dei vagoni surriscaldati d’estate, o gelati d’inverno, non c’era aria, cibo, acqua, spazio per muoversi o distendersi, luoghi per espletare i propri bisogni. Molti piangevano, alcuni pregavano. Tante persone già debilitate morivano ancora prima di arrivare alla meta finale.

Oltre i vagoni, nel Memoriale c’è una grande installazione con sfondo nero su cui compaiono 774 nomi, tra cui quello di Liliana Segre. Essi rappresentano il carico umano dei convogli partiti da qui il 6 dicembre 1943 e il 30 gennaio 1944 dalla stazione con destinazione Auschwitz-Birkenau. Di queste persone, solo 27 sopravvissero. Sulla banchina, ci sono delle targhe con delle date, ognuna delle quali rappresenta una partenza. Altrove si può accedere anche a un grande spazio chiuso di forma conica, dedicato al raccoglimento, alla meditazione, alla preghiera, per credenti e non credenti. In altre parole, dedicato alla memoria.

In un’altra zona c’è anche una raccolta di oggetti al tempo del regime fascista, che hanno stretta attinenza con la questione ebraica, come elenchi di arrestati, proclami in lingua tedesca, giornali con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fotografie di adunate oceaniche con cartelli raffiguranti lo stereotipo dell’ebreo. 

In un altro settore del Memoriale, assai più toccante, sono invece raccolte le fotografie, le lettere, gli scritti, le cartoline delle persone e delle famiglie deportate, e non solo. Testimonianze commoventi, come le letterine dei bambini ai nonni, con disegni e frasi d’affetto, compiti di scuola, brevi messaggi, alcuni oggetti, vestiti per neonati. Queste persone ritratte quasi sempre sorridono al fotografo – il tempo è prima della tragedia, ed essi si trovano con i propri cari, in qualche località di vacanza, o nelle loro case.

Ci guardano da un passato che sembra lontanissimo, e che invece è accaduto appena settant’anni fa. Un battito di ciglia, una svolta di strada, a livello temporale. Sono morti pochi anni prima della nostra nascita. Ci chiedono di non dimenticarli, e il Memoriale è per loro, ma anche per noi.

Chiudo con una citazione dalle lettere di Etty Hillesum in un’ideale chiusura del cerchio con la fotografia e l’esperienza di Liliana Segre. Etty era una giovane ebrea olandese, di cui vi consiglio gli splendidi diari e le lettere. Scrisse nel 1942-1943 da Amsterdam e poi dal campo di smistamento di Westerbrok, da cui fu poi deportata verso Auschwitz: Credo che per noi non si tratti più della vita, ma dell’atteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine.” Una frase che, in tempi come i nostri funestati da un’epidemia molto simile a una guerra mondiale, ci riguarda molto da vicino, come individui e come collettività

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Immagini:

  • Fotografia di Liliana Segre e copertina del libro “Ho scelto la vita”
  • Memoriale della Shoah di Milano – pubblicazione
  • Foto 1 – Ingresso al Memoriale
  • Foto 2 – Inaugurazione della nuova Stazione Centrale di Milano
  • Foto 3 – Carri merci nel Memoriale
  • Foto 4 – Il carrello elevatore
  • Foto 4 – Ebrei provenienti dai Carpazi arrivano ad Auschwitz. Visibili sullo sfondo le ciminiere dei crematori II e III del campo di concentramento di Auschwitz
  • Foto 5 – Il Muro dei Nomi
  • Foto 6 – Fotografie dei deportati
  • Foto 7 – Etty Hillesum