Prima delle mie turbolenze galattiche universitarie e lavorative, ho ripreso in mano a scopo revisione il romanzo


Il Tempio di Salomone 
che appartiene al ciclo medievale. Tale romanzo costituisce il proseguimento de Le regine di Gerusalemme e dunque il penultimo atto della storia dei miei personaggi – cavalieri, regine, guerrieri, cristiani, musulmani, schiavi, maghi… Rappresenta un momento delicato nell’ambito di una serie perché proietta i protagonisti verso il gran finale.

Oltretutto avevo la testa ancora immersa nel Settecento, quindi ho dovuto chiudere in una stanza i miei impazienti rivoluzionari promettendo loro che mi rifarò viva molto presto, per dedicarmi all’altrettanto amato Medioevo. Per farmi perdonare ho inserito nel post questo meraviglioso dipinto, che mi ricorda una delle sorelle Robespierre nel mio ultimo romanzo I Serpenti e la Fenice. S’intitola “A Girl Writing; The Pet Goldfinch” ed è della pittrice Henriette Browne (1829-1901). Non sia mai che si accendano delle zuffe tra personaggi di romanzi contrapposti, anche se sarebbe interessante assistervi!

Scrivere romanzi storici, del resto, significa posare un cappello per indossarne un altro. Per quanto mi riguarda, se mi calo in un periodo non riesco a portare avanti in parallelo un altro romanzo, e oltretutto in un’epoca così diversa, dato che non sono per nulla multitasking.

 

Le manchevolezze nel romanzo

Per proseguire con le metafore, nei confronti de Il Tempio di Salomone ho avuto la sensazione di dover prendere un gatto e ficcarlo in una tinozza per fargli fare un bagno. Com’è ovvio il micio, inferocito, non voleva saperne di sottoporsi all’ingrato lavaggio.

Alcune lacune erano evidenti a un primo sguardo: mancava tutta la parte relativa al giovane François de Saint-Omer, personaggio attorno a cui ruotano tutti gli altri, mentre era già scritta la storia relativa al padre, l’ormai celeberrimo e fascinoso cavaliere fiammingo, e soprattutto della bella regina Arda.

La seconda questione era che i personaggi erano troppo stanziali, mentre di solito li faccio girare come trottole attorno al mar Mediterraneo tra guerre, avventure e colpi di scena a ripetizione fino a togliere loro il fiato.

Il terzo difetto è che, proprio per i problemi suddetti, il romanzo era troppo magro rispetto agli altri, anche se quest’affermazione riguarda un manoscritto di circa quattrocento pagine.

 

Spremersi le meningi

Ho cominciato ad attivare la mia scarsa materia grigia sondando varie ipotesi. Per François ho pensato di scrivere una storia gialla alla corte di Marrakech, ma poi ho lasciato perdere: ambientare un’inchiesta in una corte musulmana del XII secolo con tutte le restrizioni originate dalla cultura, e dai dettami religiosi, non mi sembrava una buona idea. Inoltre, non ho l’abilità di una giallista, e sarebbe stata una nota stonata in una serie di vicende che parlano di tutt’altro. 

Ho meditato se fargli fare l’ennesima trasferta, ma François aveva già viaggiato molto, e inoltre ha delle difficoltà di deambulazione; e quindi ho scartato anche questa idea. C’è inoltre un personaggio secondario, un conte inglese, che ha aperto una sottotrama molto disturbante e che prima o poi dovrò chiudere; ho pensato di fare interagire François con questo personaggio ma senza riuscire a venirne a capo. E nei romanzi di questo ciclo gioco molto con i piani temporali, andando a mettermi nei guai da me medesima.

Ne ho parlato al telefono con la mia beta-reader storica, ma, non volendo raccontare troppo della trama, ho dovuto limitare le mie rivelazioni, anche se parlarne ha messo in moto tutta una serie di meccanismi mentali utilissimi. Però i miei fogli appallottolati si ammontavano nel metaforico cestino, e il romanzo-gatto mi soffiava e mi ringhiava contro non appena tentavo qualche intervento.

Il mio regno per una mappa

Quando ci si inoltra in un territorio impervio, però, uno dei metodi migliori è quello di tracciare una mappa, come potete vedere in questa bellissima immagine di mappa medievale del 1321 di Pietro Vesconte, ora alla British Library. 

Nel mio caso consiste in un semplice elenco delle scene del mio romanzo, un lavoro molto noioso ma necessario dove descrivo con una breve frase che cosa succede. Di solito eseguo tale lavoro dopo la seconda revisione, ed esso mi permette di verificare:

. se ci sia un buon equilibrio tra le scene (come sapete nel ciclo medievale tendo a dare molto rilievo alle scene con Geoffroy de Saint-Omer, ma anche gli altri protagonisti devono avere il loro giusto spazio);

. se non ci siano delle scene ripetute, o anche delle anticipazioni, e in questo caso tagliarle, spostarle o correggerle;

. se una parte sia della giusta lunghezza rispetto alle altre: magari ci sono delle scene su cui insisto troppo e altre troppo sbrigative.

Detto in poche parole, occorre lavorare alla sistemazione della struttura e così ho fatto. Lentamente sto venendo fuori da questo ginepraio anche se il lavoro è immane, perché si tratta di prendere delle parti del romanzo successivo e trasferirle ne Il Tempio di Salomone in una vera e propria rivoluzione (che a quanto pare spunta anche qua!) che ha qualcosa di folle. Inoltre sto eliminando delle sottotrame che non mi hanno mai convinto fino in fondo. 


Il cantiere delle grandi opere è ancora in corso, prima o poi la polvere si abbasserà e potrò cominciare la revisione vera e propria. Per questo mi chiedo sempre come facciano alcuni autori di romanzi storici a sfornare libri a ripetizione…

Il lavoro e la scrittura: due vasi comunicanti

Ma veniamo alla domanda che intitola questa mia riflessione, cioè quegli aspetti della propria professione che possono aiutare la scrittura. Qualche anno fa avevo parlato in che cosa consiste il mio lavoro di editor per volumi scolastici e universitari in lingua inglese e francese, in un paio di puntate sul blog Anima di Carta di Maria Teresa Steri dal titolo “Il meraviglioso mondo dell’editor di scolastica”, sotto le mentite spoglie di Alice, che potete trovare qui e qui.

Spiegare il ruolo di una redattrice o editor di scolastica non è mai facile perché non sono autrice, non sono traduttrice, e non solo semplicemente una correttrice di bozze, ma sono una sorta di consulente che assiste un autore nello sviluppo della sua opera, a più livelli secondo l’incarico ricevuto. Molta acqua è passata sotto i ponti e, se il mio lavoro non è cambiato nella sostanza, ho potuto fare nuove esperienze, e mi è perfino capitato di diventare autrice di mappe grammaticali e lessicali.

Nelle mie conclusioni dico:

Nella complessa lavorazione di un testo di scolastica, come avrete ormai capito, l’imponderabile è sempre in agguato, e di questo vi ho dato solamente alcuni pallidi esempi. Vi assicuro che potrei scrivere altri trenta post, ma tralascio. Il succo del discorso è che cosa questa professione mi ha insegnato, e continua a insegnarmi. Tre cose fondamentali:

1 La visione d’insieme. Nello sviluppo di un corso di scolastica non ci deve essere solamente un occhio di riguardo sul particolare, o sulla Unit (leggi: capitolo), ma sull’intera opera. Anche in un romanzo è quindi fondamentale avere questo sguardo complessivo. L’autore ha questa facoltà quasi divina, così è bene che spesso faccia delle ricognizioni a volo d’uccello sui suoi territori.

2 L’ordine. La vita è un caos apparente, e quindi sta all’editor far sì che i materiali siano sistemati in maniera corretta e armoniosa. Così come un corso ha una sua struttura e una sua regolarità interna, anche da un romanzo devono trasparire entrambe le cose. A livello razionale non lo senti, ma l’irrazionale lo avverte eccome.

3 La coerenza interna. Se tolgo un vocabolo e lo presento in una lezione successiva, mi devo ricordare di toglierlo ovunque finché non viene presentato “ufficialmente”. Se faccio fuori un personaggio in un capitolo, non può rispuntarmi due capitoli dopo, risorgendo senza un valido motivo…

Ecco, penso che questi aspetti del mio lavoro mi abbiano aiutato a orientarmi nei miei romanzi, e dunque a migliorare almeno un po’ l’organizzazione e le modifiche nella struttura; i rimandi interni; il bilanciamento del materiale; la coerenza e l’uniformità. Ho potuto appurarlo anche nel mio lavoro relativo a Il Tempio di Salomone, e non dico di aver domato del tutto il gatto che non voleva fare il bagno ma sono riuscita a trovare delle soluzioni per fargli accettare il sapone.

Sono però convinta che, qualsiasi sia la nostra professione, il nostro incarico, anche in famiglia, possano contribuire a migliorare aspetti della nostra scrittura, o se non altro essere un’ottima palestra psicologica. E che persino una professione per noi poco appagante ci può offrire molto in questo senso.

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E voi che cosa ne pensate? Ci sono aspetti della vostra professione che vi sono sembrati utili nella vostra attività di scrittura, o che ritenete possano rivelarsi interessanti se avete intenzione di scrivere?