Dopo il post di Clementina sui Fanti nei Tarocchi (qui), e l’excursus su vino e antichità di Antonella (qui), proseguo molto volentieri nel racconto dell’esistenza e delle opere di Katherine Mansfield, ricavato dagli appunti di una serie di conferenze cui partecipai nel 1982.
Ritratto di una scrittrice
Il ritratto che ne fa la scrittrice Lucia Drudy Demby è esemplare:
“Fronte robustamente caparbia, morbide labbra di soave ipocrisia, naso un po’ corto, avverso, si direbbe, a un gran numero di pietanze e imbandigioni, frangetta un po’ in disordine, umida, come di ragazza che si è alzata troppo presto e ha camminato troppo a lungo, coraggiosamente e sbadatamente, fra vecchi salici di rugiada. Ampia e aristocratica per costituzione, occhi proustianamente discordi: uno più piccolo e fermo, più denso e imperscrutabile, ricevente, sembra, sotto l’ampio arco sopraccigliare, più grande l’altro, aperto ed emittente di avvertimento e di tenerezza. Palpebre delicate e febbrili, collo alla Louise Brooke, pensieri affollati nella scatola gracile del corpo.”
Aveva quindi un fascino non da poco: l’amavano, ma spesso ne avevano paura, come fanno gli uomini con le donne che dicono troppo la verità. Soprattutto con Virginia Woolf aveva un rapporto di amore-odio, di rivalità letteraria.
La carriera letteraria
Essa dura solo dodici anni: dal 1910, in cui pubblica i primi racconti in “The New Age” (“La Nuova Era”), e viene paragonata fin dal primo momento a Čechov per l’elemento fantastico, inafferrabile, precario dei suoi racconti, fino al 1922, anno della morte. Alcuni dei suoi libri vengono pubblicati postumi, ma sono tutti dei lunghi racconti o dei romanzi brevi.
Famosissimo è il racconto “Felicità” che ha un crescendo ineguagliabile e che finisce nella maniera più triste. È un esempio classico dello stile di Katherine, cui capitava spesso di sentirsi colma di un empito di felicità per poi vedersi franare ogni cosa sotto i piedi. Vi suggerisco di prendervi una mezz’oretta di tranquillità (28:41) per dedicarvi all’ascolto di questo mirabile racconto nell’audio che ho trovato su youtube.
In un altro bellissimo racconto, “Preludio” (“Prelude”), Mansfield dà il ritratto della madre, amata tantissimo e in cui in parte si identifica. Il racconto fu pubblicato dalla Hogarth Press nel luglio 1918, dopo che la stessa Virginia Woolf l’aveva incoraggiata a finire la storia. Mansfield aveva iniziato a scrivere “Preludio” mentre stava avendo una storia d’amore a Parigi nel 1915.
Una tragedia in famiglia
C’è un altro genere di identificazione, stavolta con il fratello Leslie soprannominato Chummie dalla famiglia, la cui perdita è per lei uno dei momenti più tragici della sua vita. Questi, prima di essere chiamato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, passa un pomeriggio nel giardinetto con Katherine. Quando cade una pera dall’albero, il ragazzo le chiede: “Ti ricordi?” e di colpo ritorna tra loro, che sempre si sono amati, tutta l’infanzia e l’isola selvaggia della Nuova Zelanda. Katherine capisce che la sola persona che l’abbia veramente amata e capita è stato questo fratello.
Menin Road di Paul Nash (1918), The Imperial War Museum, Londra. |
Nella poesia “Sleeping together“, ecco come ricorda l’infanzia e il sonno del fratello piccolo:
Sleeping together … how tired you were! …
How warm our room … how the firelight spread
On walls and ceiling and great white bed!
We spoke in whispers as children do,
And now it was I – end then it was you
Slept a moment, to wake – “My dear,
l’m not at all sleepy”; one of us said …
Was it a thousand years ago?
I woke in your arms -you were sound asleep –
And heard the pattering sound of sheep.
Softly I slipped to the floor and crept
To the curtained window, then, while you slept,
I watched the sheep pass by in the snow.
O flock of thoughts with their shepherd Fear
Shivering, desolate, out in the cold.
That entered into my heart to fold!
A thousand years … was it yesterday
When we, two children of far away,
Clinging close in the darkness, lay
Sleeping together? … How tired you were! …
Poesie e prose liriche, a cura di Maura Del Serra, Pistoia, Petite Plaisance, 2013
Katherine dice del fratello che facevano un solo bambino in due. “Sebbene Katherine camminasse sentendo l’aria e il vento, era sepolta vicino al corpo di lui. Ora il presente e l’avvenire non avevano più significato e le cose le erano care soltanto se le ricordavano lui ancora vivo,” scrive Pietro Citati nella biografia “Vita breve di Katherine Mansfield.” “Adesso, mio caro,” scrive nel suo diario, “devo fare qualcosa per noi due, poi verrò anch’io prima possibile.”
L’insorgere della malattia
Katherine ribadisce: “Ti raggiungerò presto.” In quel momento scatta in lei la coscienza che la sua fine è molto vicina, infatti morirà pochi anni dopo. Cominciano i dolori al polmone, l’ansietà nel respiro e nei gesti, la prima emottisi, dopo la quale scrive allegramente al marito Murry: “Niente di grave: posso camminare, posso saltare, posso scrivere, questo è quello che conta.” Mai Katherine ha fatto dell’autocompatimento, che odiava, e negava il rimpianto: uno scrittore deve abolire il rimpianto, che è quanto di più sterile esiste. Tanto vale guardare il presente e, se ne siamo capaci, appena al domani.
È il momento della malattia e della peregrinazione, in ospedaletti in cui è infelicissima. Una volta o due viene anche in Italia, dove si reca sull’Isola Bella del Lago Maggiore, poi torna a Parigi e a Londra. A proposito degli alberghi, scriveva: “Oh, come odio gli alberghi, so che morirò in un albergo. Mi troverò davanti la tovaglietta ad uncinetto di una toilette, raccatterò una lunga, invisibile forcina lasciata dalla «signora» precedente e morirò di disgusto. È veramente comico amare come me, amare appassionatamente le belle camere, i bei mobili, i colori, la quiete, ed errare eternamente in queste camere tappezzate a uccello o a crisantemi.”
Nella descrizione che fa di questi luoghi c’è tutta un’epoca, un’epoca perduta, di un mondo ormai chiuso per sempre: il mondo della Belle Époque. È una testimonianza storica di uno dei pochi periodi felici del Novecento. Katherine non morirà in un albergo, ma il suo trapasso avverrà in maniera persino peggiore. Scrive infatti al marito Murry, il suo perno nella vita, che però le diede così poco: “Se tutti non va bene fra noi, non posso scriverne nemmeno una riga. Io scrivo a modo mio attraverso di te. Dopo tutto è l’amore per te, nel profondo, che mi fa vedere e sentire.” Tutto le crolla intorno: la salute, la letteratura che non le interessa più, la società del dopoguerra.
L’incontro con Gurdjieff
Pensa allora di poter trovare pace seguendo le teorie di una sorta di guru che gestiva un istituto, di nome Georges Ivanovič Gurdjieff, che potete vedere qui nella foto. L’istituto era vicino a Fontainebleau e si sosteneva che gli riuscisse di conciliare anima e corpo – e dunque avrebbe potuto sanare quella scissione che Katherine avvertiva in maniera così importante. Il suo corpo voleva vivere, l’anima invece avvertiva la morte, il nulla. La vita le sfuggiva, le cose le piacevano, la verità non esisteva anche se la cercava.
Così dice Citati nella biografia: “Dapprima la Mansfield abitò in una stanza bella e sontuosa, poi il capriccio sovrano di Gurdjieff la trasferì in uno stanzino tetro, piccolo e povero, uno di quei covili dove dormono nella sporcizia i personaggi di Dostoevskij e Kafka, mentre un inverno freddissimo avanzava sotto i boschi di Fontainebleau. Si raggomitolò nella sua pelliccetta chiedendo il lusso agli ospiti del castello la carta per accendere il fuoco, la legna e i fiammiferi. Finché un altro capriccio la restituì alla gloria della sua prima stanza. Aveva appreso la prima lezione dell’istituto: doveva staccarsi da tutte le cose, vivere come una fuggiasca sotto le tende, sopportare il disordine, la povertà, la sporcizia e i cattivi odori come fossero effluvi del paradiso. La mattina si alzava presto e si lavava con l’acqua gelata, facendo colazione con gorgonzola e marmellata di mele cotogne. Passava la giornata vivendo una vita fisica e laboriosa che negli ultimi tempi aveva desiderato: curava le pecore, i maiali mistici dalle lunghe setole dorate, i conigli cosmici, le oche così piene d’intelligenza, le galline e le capre; andava in cucina a raschiare le carote e a sbucciare le cipolle fino a rovinarsi le mani, o semplicemente a guardare il lavoro degli altri. Osservava il falegname piallare e fabbricare mobili, pensando che presto anche lei avrebbe lavorato il legno; cuciva i costumi per il teatro, lavava il bucato, faceva dei tappeti con lunghi steli di grano e ascoltando musica imparava una libera aritmetica mentale, dove 2 x 2 faceva 1, 3 x 3 faceva 12, 4 x 4 = 13, 5 x 5 = 28. A pranzo mangiava fagioli e cipolle, vermicelli con zucchero e burro, vitello avviluppato in foglie di lattuga e cotto nella panna. Alle dieci andava a letto, sebbene Gurdjieff cambiasse sovente gli orari, perché nessuna delle sue vittime riposasse mai nella fiducia.”
(segue la terza e ultima parte)
***
Ebbene, che cosa vi ha colpito di più in questa seconda parte? Conoscevate la figura di Gurdjieff?
Cristina M. Cavaliere
Fonti testo:
- Tutti i racconti di Katherine Mansfield – Adelphi
- Vita breve di Katherine Mansfield di Pietro Citati – BUR
- “Sleeping together” da Poesie e prose liriche, a cura di Maura Del Serra, Pistoia, Petite Plaisance, 2013
Mi colpisce vedere come il tentativo di trovare una "via" abbia invece finito col farle perdere la bussola. Probabilmente quel che cercava non è di questo mondo.
Ci sono anime che nascono con delle proprie fragilità e contraddizioni che non sempre riescono a risolvere. Fatte le debite distinzioni, mi sembra che la vicenda esistenziale di Katherine Mansfield assomigli molto a quella di certi cantanti recentemente scomparsi (Jim Morrison, Amy Winehouse, Kurt Cobain…), che si sono bruciati le ali anzitempo.
Mi interrogo sulle origini del rapporto con il fratello (non parlo di incesto). Non mi meraviglia che lei sia morta così giovane. Forse l'intensità con cui è vissuta le ha fatto completare il suo percorso anzitempo, anche se a noi sembra soltanto una morte prematura.
Katherine era come una candela che brucia alle due estremità in modo inarrestabile. In casi simili mi chiedo sempre che cosa avrebbe potuto produrre un talento simile, se fosse vissuta più a lungo… un po' come John Keats o altri poeti morti giovani.
Mi ha colpito tutto!
Senza dubbio lei appartiene a quel cluster di artisti nei quali si concentra un tasso di creatività altissimo e che, forse proprio per questo, ad un certo punto della loro giovane vita hanno un tracollo pesantissimo e letale.
Devo dire che a me la figura di Gurdjieff è sempre risultata interessantissima. Non penso affatto che la sua vicinanza le abbia nuociuto. Certo, i suoi metodi erano sui generis – lui aveva studiato in modo approfondito il sufismo e altre filosofie orientali-, ma bisogna anche ricordare che partiva dall'assunto secondo cui le persone vivono in uno stato di totale incoscienza. Se ci pensiamo, è difficile dargli torto, soprattutto guardandoci intorno, per strada (perlopiù le persone sono immerse nei propri pensieri e non si accorgono nemmeno di ciò che fanno). Quindi, i suoi programmi avevano come obiettivo quello di risvegliare la coscienza.
Ti ringrazio del bellissimo commento e per il tuo entusiasmo. 🙂 In effetti gli spunti di questo post sono molti, dall'attività letteraria al rapporto simbiotico con il fratello, alla tragedia della guerra e al tentativo di ricondurre a unità un'interiorità che in lei si era frantumata. Katherine Mansfield è stata anche paragonata a un Rimbaud femmina per la convulsa brama di vivere e di sperimentare. Io penso che anche la scelta letteraria del racconto non sia un caso e la rispecchi in pieno.
Concordo, la figura di Gurdjieff è molto interessante, anche se nella biografia Citati la demolisce, a quanto mi ricordo. Ho un'amica che anni fa aveva seguito il metodo Gurdjieff, e mi parlava proprio di questa cosa di cui scrivi, cioè che la maggioranza delle persone vive in uno stato di sonno da cui ben pochi riescono a svegliarsi dopo un lungo percorso di illuminazione.
Quello che colpisce di più di questa donna è la continua ricerca di un equilibrio (anche atttaverso il guru Gurdjieff), del resto è spesso così per molti artisti, soprattutto quelli che muoiono molto giovani. Mi chiedo anche se la loro ansia di bruciare le tappe in ogni cosa non sia quasi un presentimento della brevità della loro vita…
Si tratta di anime tormentate dalla nascita, come se si portassero sulle spalle una predestinazione. Mi vengono in mente tanti cantanti, poeti, scrittori morti giovanissimi e che pure seppero esprimere in pieno, in un breve lasso di tempo, un talento e una genialità innegabili. Anch'io mi faccio delle domande, quando mi imbatto in questi casi…