Uscimmo infine, era l’alba.

La città appariva spettrale nella polvere che l’avvolgeva. Vagavamo storditi, atterriti, eppure felici. Eravamo vivi.

«Ti porto a Torino, al cinematografo» mi proponesti. «Prendiamo la littorina delle due e poi ci fermiamo nella casa di tua mamma. Domattina presto saremo di ritorno.»

«Sei pazzo.» Risi. Eravamo solo noi due, occhi negli occhi per non vedere la guerra attorno.

Il rumore della pellicola nel buio, l’odore delle sigarette e dei vestiti invecchiati da anni di miseria. Le medaglie sulla tua divisa che luccicavano, come la spilla a forma di violetta sul il vestito di seta prestato da tua madre, che al cinematografo bisogna andarci eleganti.

E poi l’urlo disperato delle sirene, la fila ordinata ma impaziente per scendere al rifugio. La notte infinita, stretti nella paura di perdere tutto. Il pianto sommesso di chi non aveva nessuno, là sotto, con cui condividere l’attesa, mentre fuori Torino cadeva sotto le bombe.

Uscimmo, infine, all’alba. Un braccio alzato a schermare gli occhi dalla luce troppo bianca.

Stringevo la tua mano senza parlare, i vetri crocchiavano sotto le nostre scarpe sbiancate. Non riconoscevamo le strade che avevamo lasciato intatte poche ore prima, i cumuli di macerie si rovesciavano al centro di via Roma, impedendo il passaggio delle poche camionette che cercavano di portare soccorso.

E noi due, vestiti da sera, al centro della tragedia.

«Ti riporterò a casa.» Mi dicesti, senza crederci.

«No, dobbiamo restare.» Indicai un gruppo di donne. Scavavano e gridavano un nome, Giuseppe.

Giuseppe da salvare. Giuseppe che rappresentava quello che provavamo tutti. La rabbia, la paura, la solitudine.

Giuseppe, che soprattutto era la speranza.

 

Susanna Albertini