Ecco a voi il prosieguo dell’articolo sulla donna e sul suo lavoro nel XIX secolo, scritto da Clementina. Se avete perso la prima parte, potete trovarla qui. Buona lettura!
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A dare il colpo di grazia furono i legislatori che, nel corso del XIX secolo, negli Stati Uniti e in tutta l’Europa Occidentale, per rispondere alle pressioni dei vari collegi elettorali, intervennero a più riprese per regolamentare le pratiche di assunzione nel settore manifatturiero. Nell’immagine, potete vedere un’operaia italiana di un’azienda bellica (1914).
Anzitutto, va ricordato che le donne, non essendo cittadine e non avendo accesso al potere politico, erano considerate vulnerabili e bisognose di protezione.
Il tema della vulnerabilità e del conseguente bisogno di protezione fu fondamentale per la costruzione di una tesi difficilissima da demolire:
a) il loro corpo era più fragile di quello degli uomini e, per questa ragione, non avrebbero dovuto lavorare per molte ore;
b) l’impiego le distoglieva dai compiti domestici;
c) i lavori notturni le esponevano a rischi di aggressioni sessuali (sul luogo di lavoro, sulla strada dall’abitazione e lavoro e viceversa);
d) lavorare al fianco degli uomini, o sotto la supervisione degli uomini, metteva in pericolo la loro moralità;
e) il lavoro guastava gli organi di riproduzione, rendendole inadatte a generare e allevare bambini in buona salute.
Alle femministe che provavano a negare di aver bisogno della protezione maschile, i legislatori e i rappresentanti dei lavoratori rispondevano che, dal momento che le donne erano escluse dalla maggior parte dei sindacati maschili e che si erano dimostrate incapaci di organizzarsi in un proprio sindacato, avevano bisogno del sostegno di una forza molto potente (che non poteva essere altro che maschile).
In sostanza, la cosiddetta legislazione protettiva venne messa a punto per offrire agli uomini inseriti nel mercato del lavoro (datori di lavoro e lavoratori) una soluzione al problema della presenza delle lavoratrici.
Tradotto in parole poverissime (abbiate pietà), le donne dovevano consentire agli imprenditori di risparmiare sul costo del lavoro, concedere ai mariti un contributo aggiuntivo, ma non dovevano permettersi di montarsi la testa con idee stravaganti (di avanzamento di carriera, di parità di diritti, di parità di salario, …) perché la loro “naturale destinazione”, in quanto femmine, era la casa e l’accudimento della famiglia. Non a caso le operaie di città vennero doppiamente rifiutate: come donne, poiché in antitesi con il concetto di femminilità; come lavoratrici, perché il loro salario, per legge inferiore a quello dell’uomo, veniva considerato una “capricciosa” integrazione del bilancio familiare.
Va anche detto, però che, nel corso di quel secolo, si crearono inediti spazi professionali anche al di là del territorio industriale. Per esempio, il servizio domestico, che un tempo era appannaggio degli uomini, diventò sempre più un lavoro femminile, guarda caso, svalutato. Le grandi città europee assorbirono dalla campagna (dove la crisi rurale si intensifica) le giovani ragazze che, in quel modo, potevano contare sulla possibilità di guadagnare qualcosa e imparare i rudimenti di istruzione per tentare la scalata sociale.
Le domestiche, inoltre, risultarono altamente coinvolte nei consumi e nelle pratiche urbane e furono loro a far conoscere le mode cittadine alle donne rimaste in campagna.
Nacque anche una nuova gerarchia, quella delle governanti e delle istitutrici. Spesso si trattava di soggetti provenienti da famiglie borghesi modeste, figlie di pastori o di piccoli funzionari, oppure di orfane o giovani appartenenti a famiglie numerose. La governante era una signora che insegnava a domicilio, spesso ospite della famiglia per la quale lavorava e che, per la sua stessa origine, non poteva trovare solidarietà né presso i datori di lavoro né presso gli altri domestici. I romanzi delle sorelle Brontë e di Jane Austen, qui accanto nell’illustrazione, sono pieni di riferimenti a queste figure…

Governanti, istitutrici, infermiere, commesse delle poste, assistenti sociali, spiccarono come nuove identità lavorative che aspiravano a un tenore di vita intellettuale e sociale più alto della media delle donne “del popolo” e che per salire anche pochi gradini della scala sociale non avevano altra scelta che quella di restare nubili. Ma la scelta di rimanere nubili, oltre a pesare notevolmente in termini di solitudine, le esponeva anche al rischio di venir percepite come intriganti seduttrici.
I testi di Matilde Serao – qui in un’immagine del 1890, RadioCorriere – sono efficacissimi nel restituire una fotografia puntuale, spietata e veritiera di quelle atmosfere.
Collegandomi alla Serao, vorrei ricordare che, verso la fine del 1800, in molti paesi (Inghilterra, Francia, Germania, USA, Olanda, Finlandia, Italia) nacque un’ulteriore figura professionale, molto meno diffusa delle precedenti (sia chiaro), ma capace di catalizzare l’opinione delle donne e differenziare le posizioni femministe: la giornalista.
Di fatto, man mano che sorsero nuove associazioni femministe, si sviluppò una stampa autonoma che, nella maggior parte dei casi, ebbe vita breve ma rivestì un’importanza fondamentale per sottrarre dall’oblio la questione di genere: questa figura offrì alle signore la grande opportunità di confrontarsi sui punti nodali delle loro rivendicazioni.
La prima donna giornalista che riuscì a vivere del proprio lavoro fu una parigina che scriveva su La Fronde, un quotidiano fondato nel 1897 da Marguerite Durand e trasformato in mensile nel 1903. Si chiamava Caroline Remy – qui ritratta da Renoir – ed era nota come Sévérine.

Nell’Inghilterra del 1859 Emily Davis scriveva sul English Womens’s Journal e negli Stati Uniti del 1868 Susan Anthony, leader del movimento suffragista, scriveva su The Revolution. Il suo giornale mirava a promuovere il diritto al suffragio delle donne e degli afroamericani, ma si occupava anche di molti altri temi sociali, come il diritto ad un salario equo, leggi più liberali per il divorzio e la posizione della Chiesa sulle questioni femminili.
In Germania, nel 1891, la esponente socialista e combattente per i diritti delle donne, Clara Zetkin, conversava con le tedesche attraverso la testata Arbeiterin, mentre negli USA Amelia Bloomer, nel 1849, redigeva articoli magnetici su The Lily.



Da sinistra a destra: il giornale diretto da Emily Davis, una foto con Susan B. Anthony e Elisabeth Cady Stanton, infine una foto di Clara Zetkin.

In Italia, oltre a Matilde Serao, che a Napoli, tracciava un ritratto a tinte forti della realtà femminile, nella Milano del 1868 troviamo Anna Maria Mozzoni – ritratta nella fotografia in bianco e nero – la quale dava vita a una rivista cosmopolita, invitando le lettrici a seguire l’attualità femminista all’estero. La rivista si chiamava La donna e divenne la tribuna dalla quale tante brave giornaliste si batterono per il diritto all’istruzione femminile. La Mozzoni fu anche autrice de La donna e i suoi rapporti sociali, considerato il manifesto del femminismo italiano.
Come loro ve ne furono anche altre, che non ho citato per evitare di creare un “effetto lista”. Ciò che conta è che questi giornali si trasformarono in tante sedi di associazioni culturali femministe nelle quali venivano offerte le indicazioni di uno stile di vita.
In conclusione, ciò che ho voluto mettere in luce è che la lotta a favore di un accesso al mondo del lavoro ha gettato le premesse per la conquista di un’autonomia economica legata a doppio filo con la rivendicazione, da parte dei tanti movimenti femministi nati nel XIX secolo, di molti altri diritti.
Riflettendo sugli obiettivi del passato, non posso però esimermi dal fare considerazioni su ciò che oggi vedo intorno a me. La mia impressione è che, sebbene le donne europee continuino a entrare nella forza lavoro in gran numero, la parità di genere in talune zone sembra essere più di facciata che di sostanza. Inutile dire che mi sto riferendo all’Italia, paese nel quale la difficoltà nel conciliare il lavoro con la famiglia rimane uno zoccolo duro e nel quale, da decenni, si è favorito (o se preferite, non si è fatto nulla per impedire) un massiccio accesso femminile all’occupazione temporanea, instabile e incerta. Per effetto di tutto ciò, intere generazioni, madri e figlie, si confrontano con un precariato che, di fatto, impedisce loro la progettazione del futuro. Dove si sia verificata la frizione che ha bloccato il motore della grande macchina dell’emancipazione, non lo so. Mi vien da dire che, forse, abbiamo abbassato la guardia troppo presto…

E ora, vi chiedo gentilmente di raccontarmi cosa vi ha colpito di più e perché.
Vi auguro una bella settimana e vi abbraccio! 🙂
Clementina Daniela Sanguanini
FONTI IMMAGINI:
Tutte le immagini presenti nel post sono state tratte da Wikicommons
FONTI BIBLIOGRAFICHE:
Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, Laterza, Bari, 1991
Célibat et âge au mariage aux XVIIIe et XIXe siècles en France. II. Age au premier mariage – articolo di Louis Henry e Jacques Houdaille, pubblicato sul n° 2 della rivista Population, nel 1979
Wikipedia e Enciclopedia Treccani, per le ricerche su: Matilde Serao, Caroline Remy, Emily Davis, Susan Anthony, Clara Zetkin, Amelia Bloomer, Anna Maria Mozzoni
È positivo che, oltre a governanti e istitutrici, siano nato anche il lavoro di giornalismo al femminile, almeno una voce a favore delle donne. Piccoli passi che hanno portato verso la parità di genere, purtroppo ancora molto più di facciata che nella sostanza in Italia, concordo con la tua visione…
Penso che la professione del giornalismo sia stata decisiva per portare le donne finalmente fuori casa. Per esempio, nel romanzo di Sibilla Aleramo “Una donna” è interessante vedere come uno dei modi per affrancarsi dalla sudditanza economica (e non solo) dal marito avvenga quando la protagonista conosce le redattrici dei giornali femminili, ricevendo la proposta di scrivere degli articoli e guadagnare un piccolo stipendio.
Grazie per questa storia del lavoro delle donne, sempre molto vituperato fatta eccezione per quando ce n’era bisogno. faccio riferimento alla rivoluzione industriale cominciata nel tessile già nel XVIII secolo che ha visto le donne e i loro figli impiegati massicciamente nella nuova produzione con turni di lavoro massacranti e condizioni inidonee e usuranti. oppure quando, durante la seconda guerra mondiale, le fabbriche sono state abbandonate dagli uomini andati in battaglia e rimpiazzati dalle donne che sono state poi, a fine conflitto, rispedite a casa dove erano sempre state confinate senza nemmeno che questo lavoro venisse valorizzato. La nostra è una storia di disparità e subalternità difficile da scalfire. ne è prova la situazione attuale del mercato del lavoro di cui parli. C’è una parità soltanto formale e non sostanziale, frutto di una incultura che si fa fatica a scalfire. Da quel che vedo a un orizzonte nemmeno troppo lontano, mi pare che le cose difficilmente possano andare meglio. Ma osservo che nei momenti difficili, sono sempre le donne a fornire le risposte. Siamo tante e siamo forti. Dovremmo esserne più consapevoli
Ti ringrazio moltissimo del bel commento, e rispondo anche a nome di Clementina. Hai esposto due momenti storici fondamentali per dimostrare come si sfruttino le donne e il loro lavoro soltanto quando fa comodo (la Rivoluzione Industriale, e la Seconda Guerra Mondiale), ma aggiungerei anche la Prima Guerra Mondiale dove successe esattamente la stessa cosa: donne chiamate a rimpiazzare gli uomini al fronte, salvo poi a rimandarle tra le quattro mura a fine conflitto. Beninteso, non tutte si assoggettarono perché dopo aver vissuto in una condizione così diversa, e in parte libera, era ben difficile ritornare entro certi schemi. All’università avevo partecipato a un laboratorio su femminismo, fascismo e nazismo con una professoressa scozzese – Perry Willson, una visiting professor – di cui avevo letto poi il libro “Italiane: Biografia del Novecento” per le Edizioni Laterza, fornisce un ritratto molto accurato delle donne italiane. Ecco la quarta di copertina, se ti interessa magari leggerlo:
“Le contadine e le lavoranti a domicilio che faticano senza sosta, la casalinga meravigliata del suo primo bagno in casa. Le militanti cattoliche, le comuniste, le fasciste e le femministe di varie tendenze. Le donne che trasportano bombe per liberare il proprio paese, quelle disposte a commettere un omicidio per salvare l’onore della figlia, quelle che rischiano la vita ricorrendo all’aborto clandestino e quelle pronte a morire per Mussolini. Le donne all’avanguardia nel campo del lavoro, dell’istruzione e della politica e quelle impegnate in iniziative sociali, su fronti opposti, dalle cattoliche alle socialiste. Le nuore tiranneggiate nelle famiglie mezzadrili e le vedove bianche. Le studentesse, le badanti immigrate e le ministre del governo. È con tutte loro che l’Italia è arrivata al Duemila, dopo aver superato un secolo intenso e difficile, quel Novecento in cui la metà femminile della popolazione è protagonista, al pari degli uomini, di profonde trasformazioni politiche, sociali, economiche, giuridiche e culturali. In questa prima biografia collettiva del Novecento delle italiane, Perry Willson esplora come la realtà femminile sia stata condizionata e abbia a sua volta plasmato eventi storici fondamentali, tra cui l’ascesa del fascismo, le due guerre mondiali, il ‘miracolo economico’ e le agitazioni culturali e politiche degli anni Settanta. Un lungo periodo che ha visto grandi progressi e conquiste per le donne italiane, in un continuo intreccio di modernità e tradizione.”
E comunque sono d’accordo con te, non è cambiato granché in tutto questo tempo…