Anche quest’anno la nostra amica Clementina torna a parlarci di donne e di emancipazione femminile tra Ottocento e Novecento. Come in precedenza, abbiamo diviso il post in due parti per una migliore fruizione. Chi volesse recuperare l’ultimo articolo, sia per leggerlo ex-novo sia per rinfrescare la memoria sugli argomenti trattati, può cliccare qui. Buon viaggio!
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Nella foto: domestiche inglesi nell’Inghilterra del XIX secolo.
Prima di affrontare la storia dei movimenti che hanno aiutato le donne a ottenere il diritto di voto – conquista realizzata in ogni parte del pianeta solo nel corso del 1900 – ho scelto di soffermarmi ancora una volta sul tema della donna lavoratrice, in occidente e nel XIX secolo.
Ciò che mi preme sottolineare è che il traguardo del diritto di voto, a cui si faceva riferimento nell’ultimo post della serie, è il risultato di un percorso lunghissimo attraverso la trasformazione della condizione della donna, del suo ruolo e dell’immagine della donna, nell’Ottocento e nel Novecento.
Quindi, insistere sulle condizioni del mondo del lavoro in quel periodo e soffermarsi a riflettere sull’inquadramento, sociale e giuridico della donna in quanto lavoratrice, è molto importante per comprendere la portata del conseguimento di quel diritto. E, permettetemi di aggiungere, anche per porci una riflessione sull’attualità, con i suoi scoraggianti risvolti di disoccupazione che colpiscono i giovani e soprattutto le donne…
Parlando di suffragio femminile, infatti, non possiamo dimenticare i sacrifici – talvolta anche della stessa vita – le vessazioni e il disprezzo che le donne impegnate in questa lotta hanno subito.
La conquista dell’uguaglianza giuridica e la parità dei diritti passano attraverso un cammino irto di ostacoli che si svolge in un periodo di trasformazioni epocali, a partire dal fenomeno dell’industrializzazione che consente l’accesso di migliaia di donne nel mercato del lavoro.
Per chiarezza, anticipo che i temi di rivendicazione delle femministe di tutto il mondo occidentale sono molteplici (il diritto; l’educazione e la formazione, che passano comunque attraverso l’acquisizione e il riconoscimento delle competenze professionali; la questione del corpo; la morale…). Oltre a tutti questi argomenti il tema del lavoro, senza dubbio, gioca un grande ruolo nell’emancipazione femminile.
Questo non significa che le donne abbiano iniziato a entrare nel mondo del lavoro solo a partire da quest’epoca.
Le donne hanno sempre lavorato, in tutte le epoche, ma esiste un contrasto netto tra il mondo preindustriale, in cui il lavoro femminile era informale e spesso non remunerato, e il mondo industrializzato della fabbrica, che richiedeva personale salariato e disponibile a rimanere a tempo pieno lontano da casa.
Nella foto: donna americana del XIX secolo.
Nel XIX secolo, questo è il punto, la donna lavoratrice (non importa se si trattasse di un’operaia, di una cucitrice, di una scrittrice, di una ragazza indipendente, di una madre, di una vedova, o della moglie di un operaio disoccupato) viene a rappresentare un problema. Un problema che coinvolge il significato stesso di femminilità e la compatibilità fra femminilità e salario.
Le domande che quella società sollevava erano ovunque le stesse: una donna dovrebbe lavorare per un salario? Qual è l’impatto del lavoro salariato sul corpo della donna? Qual è l’impatto del lavoro salariato sulla sua capacità di adempire i ruoli di madre e di moglie? Qual è il genere di lavoro adatto a una donna?
Le discussioni partirono dall’idea che, mentre nel periodo preindustriale le donne avessero combinato con successo l’attività lavorativa e la cura dei figli, il mutamento del luogo di lavoro (la fabbrica per l’operaia, la casa dei borghesi per le domestiche e le istitutrici, il negozio in città per la campagnola, …) rendeva difficile, se non impossibile questa combinazione.
Come prima conseguenza si sostenne che le donne dovessero lavorare (in modo salariato) solo per brevi periodi della loro vita, e dovessero ritirarsi una volta sposate o dopo la nascita del primo figlio. In questo modo si ritenne che le donne fossero prive di spinte alla carriera e che, pur di tenersi il posto per quel poco che veniva loro concesso, avrebbero lavorato con salari minimi: salario fisso e nessuna opportunità di avanzamento.
La seconda conseguenza fu che alle donne vennero assegnati solo lavori non specializzati e mal pagati. Pertanto, il lavoro femminile veniva inteso sempre e solo come lavoro di scarso valore.
La terza conseguenza fu che, in tutti i settori industriali, gli imprenditori, forti di queste argomentazioni, decisero di inserire le donne nelle loro aziende per risparmiare sul costo del lavoro.
La quarta conseguenza fu che le confederazioni maschili di mestiere – per esempio l’ordine dei panettieri, o l’unione dei rilegatori di libri – chiusero molto spesso l’ingresso alle donne, o posero condizioni irraggiungibili al loro ingresso.
Orbene, una delle sedi in cui si andò svolgendo il discorso sulla divisione del lavoro e la relativa remunerazione è l’economia politica. Gli economisti del XIX secolo, seppure esistessero importanti differenze tra le diverse nazioni, così come esistessero scuole di economia politica differenti, si trovarono tutti d’accordo su due punti:
1) il salario dell’uomo doveva essere sufficiente, non solo per il suo mantenimento, ma anche per sostenere la sua famiglia;
2) Il salario di una moglie, al contrario, “tenendo conto della cura che essa deve avere dei figli” doveva essere appena sufficiente al suo mantenimento. Anzi, per alcuni economisti, ciò non sembrava nemmeno necessario.
Per esempio, l’economista francese Jean Baptiste Say – raffigurato nel ritratto – sosteneva che i salari delle donne avrebbero dovuto essere mantenuti sempre sotto il livello della sussistenza, perché tanto le donne avrebbero sempre potuto contare sulla famiglia. Per questo motivo le donne sole, zitelle o vedove che fossero, dovevano necessariamente essere povere.
Secondo queste teorie, gli unici responsabili della progenie erano gli uomini.
Un altro elemento importante nel quadro che si andò a dipingere in tutta l’Europa del XIX secolo riguardava il ruolo dei sindacati.
La maggior parte dei sindacalisti uomini cercarono di proteggere il loro lavoro e il loro salario tenendo le donne lontano dalla loro attività e, se possibile, lontano anche dal mercato del lavoro, in generale. Quando dovettero accettare che il salario femminile dovesse essere più basso di quello maschile, trattarono le lavoratrici come una minaccia.
Tutti i sindacalisti del XIX secolo, inglesi, francesi, tedeschi, eccetera concordavano sul fatto che i membri del sindacato avevano il dovere, come mariti e come uomini, di tenere le donne nella sfera domestica, la “loro sfera naturale”. Da tutti i fronti sindacali europei si levò un coro di elogio della casalinga, altresì vennero invocati studi medici e scientifici che sancissero, in modo inequivocabile, che le donne non erano fisicamente capaci di fare il lavoro degli uomini e vennero sostenuti discorsi sulla pericolosità del lavoro per la salute e la moralità della donna.
Nella foto: tabacchine di Rovigno, 1882.
Esistevano, ovviamente, anche sindacati che accettavano le donne all’interno dell’organizzazione, ma solo nei settori in cui le donne rappresentavano una porzione rilevante della forza lavoro (es.: nel settore tessile, nella lavorazione del tabacco e nell’industria calzaturiera). Tuttavia, anche in questi casi, il sindacato nazionale proibiva alle donne l’adesione a scioperi e manifestazioni. Intanto, va detto che lo sciopero era considerato un’azione virile, ma soprattutto vanno evidenziati alcuni passaggi chiarificatori. La donna che scioperava veniva ritenuta intollerabile dai padroni, che si aspettavano sottomissione; diventava fonte di disappunto per la famiglia, faceva scandalo nell’opinione pubblica, poiché uscire dalla fabbrica per una donna equivaleva a comportarsi come prostitute.
Solo in certi casi si costituirono delle associazioni femminili, che per la natura stessa della loro composizione venivano considerate marginali (anche se contavano migliaia di membri).
Pertanto, segregata nelle occupazioni femminili, raggruppata nei sindacati femminili, la situazione delle donne si trasformò nell’ennesima dimostrazione della necessità di ristabilire differenze “naturali” tra i sessi.
… continua
Clementina Daniela Sanguanini
FONTE IMMAGINI
Tutte le immagini presenti nel post sono state tratte da Wikicommons
FONTI BIBLIOGRAFICHE:
Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, Laterza, Bari, 1991
Célibat et âge au mariage aux XVIIIe et XIXe siècles en France. II. Age au premier mariage – articolo di Louis Henry e Jacques Houdaille, pubblicato sul n° 2 della rivista Population, nel 1979
Questi articoli sull’emancipazione femminile sono sempre molto graditi, anche se leggerli suscita in me un po’ di rabbia vedendo quanti ostacoli, pregiudizi e quanta fatica hanno dovuto affrontare le donne.