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La prima volta che ti ho vista eri un batuffolo di niente con un buffo berrettino rosso.

Ti guardavi attorno come un uccellino, mentre gli altri bambini dormivano nelle culle allineate sotto le grandi vetrate del corridoio.

A noi matti era vietato entrare nell’ala riservata alle mamme e ai neonati sfollati dagli ospedali milanesi per sfuggire ai bombardamenti. Ma io ero qui dentro da così tanti anni che ormai nessuno mi vedeva più.

Erano arrivate sui carri, su mezzi di fortuna e a piedi, all’inizio di Dicembre. La clinica psichiatrica si era riempita di donne incinte. Camminavano strane, le loro pance enormi nascondevano piccoli fiori che bucavano il ghiaccio della guerra per entrare nella vita, nonostante tutto.

A volte strillavano tutti insieme, spaventando a morte i matti.

Forse gridavano la loro indignazione di nascere in un mondo che cadeva a pezzi.

O forse avevano solo freddo e fame, come tutti noi.

Noi pazzi guardavamo per ore quel mondo lontano dall’altra parte del cortile, i nasi spiaccicati contro le finestre, le bocche che creavano fugaci fumetti di stupore.

Le vetrate altissime sembravano imprigionare le nuvole per farci sognare un futuro che non riuscivamo più nemmeno a immaginare.  Ma quei bambini nati durante la guerra non erano ancora stati traditi dalla vita, la loro innocenza era meravigliosa.

E mi riempiva di gioia per la prima volta da 26 anni, da quando ero entrato ferito e traumatizzato e avevo lasciato che la paura erodesse il coraggio di guarire. La trincea del Carso mi aveva masticato e risputato storto, avariato. Ci chiamavano ‘scemi di guerra’.

Ma forse eravamo solo ragazzini che avevano perso la strada.

Qui dentro avevo ricominciato a vivere poco alla volta, protetto dai corridoi affrescati della villa Pusterla-Crivelli, il manicomio di Mombello. La mia casa per tutta la vita, finché non hanno smantellato la struttura e ci hanno gettati in pasto alla realtà, in nome del nostro benessere e di un medico chiamato Franco Basaglia.

***

Sono nato 79 anni fa, mentre il mondo festeggiava l’arrivo del 1900, il secolo delle scoperte e dei cambiamenti. Sono diventato un uomo e poi un vecchio, guardando la vita degli altri attraverso il televisore sgangherato della sala comune.

Sono cresciuto nella casa gialla sotto cui ci siamo incontrati qualche settimana fa. Ci ero arrivato camminando a casaccio, attraverso una città sconosciuta e ostile, la mattina in cui mi avevano dimesso dal manicomio.

Avevo riconosciuto il portone della mia infanzia e mi ero fermato, cercando di abituarmi alla libertà che non avevo chiesto e che nemmeno ricordavo.

Non so quanto tempo sia passato, forse ore, forse mesi, quando ho visto la tua mamma.

Gli anni l’avevano appena sfiorata, camminava spiccia, decisa, come allora.

Accanto a lei una giovane donna, al collo una catenina con la Madonnina, lo sguardo curioso.

Mi è mancato il respiro quando ho capito che finalmente ti avevo ritrovata.

Non ho mai smesso di sperare di vederti cresciuta, una donna bella e felice, come ti avevo immaginato in questi lunghi anni trascorsi fuori dal mondo in cui tu vivevi.

Ti ho cercata in ogni bambina, ragazza e donna che veniva a trovare gli altri matti di Mombello.

Ho sognato tante volte di stringerti nuovamente tra le mie braccia come il giorno di Natale del 1944, quando hai riempito i miei occhi e il mio cuore di bellezza, pochi secondi prima che il mondo esplodesse.

***

Non ero più uscito dal cancello di ferro in fondo al parco dal 1918. A volte mi sedevo sull’ultima panchina, a fumare una sigaretta dopo l’altra con Arturo, la vecchia guardia. Parlavamo per ore di fiori. Io lavoravo alla serra, come altri pazienti. Faceva parte della terapia e per me era un miracolo vedere la vita germogliare, nonostante le mie mani tremanti e incerte.

Alla fine del suo turno, quando Arturo attraversava il cancello arrugginito, lo osservavo diventare giovane e leggero. Come se, varcandolo, si scrollasse dalle spalle le urla e la miseria dei pazzi.

Ho desiderato seguirlo tante di quelle volte che mi fa male pensarci, ma ogni volta tornavo alla sicurezza bugiarda della mia camera. Un mazzetto di fiori gialli sul tavolino, per nascondere l’odore di disinfettante e pannoloni. E far finta che mi andasse bene così.

***

E giallo è il colore della fascia che porti tra i capelli castani, lunghi e lisci. Gli stivali alti, una minigonna che non copre niente, il seno che si muove sotto la maglietta attillata, dando un ritmo vivace e allegro ai tuoi passi.

Sei bellissima, bambina mia.

Sei la figlia che avrei voluto e che ho avuto solo per una manciata di secondi, ma ho amato per tutta la vita. Quanti anni hai? Sei nata a Dicembre 44, sono passati 35 anni.

Mi hai guardato. Un vecchio dagli occhi sperduti nei ricordi che non ha vissuto.

Mi hai sorriso. Ti ho sorriso, senza denti, ma con speranza.

Mi hai fatto l’elemosina, un po’ imbarazzata per me. Io l’ho accettata, un po’ imbarazzato per te.

Sei tornata ancora, con due ragazzini per mano. Litigano per cose di bambini, sono meravigliosi.

“Ciao principessa dei matti di Mombello.”

“Come dice, scusi?”

Sorrido. E lascio che i ricordi riempiano i miei occhi di nebbia.

Tu ti allontani confusa. Ti volti e mi guardi, incerta se tornare indietro.

Poi la bambina ti chiama e ti dimentichi di me.

Ti ho sempre pensato come una principessa. Venuta tra le bombe a piantare un seme d’amore.

Che io non ho saputo far diventare albero. Non l’ho mai perso, però. È rimasto nel mio cuore.

Lo sai che i semi possono germogliare dopo decenni? È il loro segreto, la loro forza.

***

Conoscevo ogni palmo dei 40 mila metri quadrati di stanze, celle e corridoi della struttura sanitaria.

Mi piaceva esplorare e tracciare mappe dettagliate su un quaderno azzurro che mi aveva regalato suor Clementina, il giorno prima di essere trasferita ad Abbiategrasso. Le prime pagine erano state strappate, forse avevano ospitato i suoi pensieri ribelli, sfuggiti al rigore del voto.

O magari ci aveva fatto degli aereoplanini di carta, per distrarci dalla pazzia.

Conoscevo una strada segreta per arrivare all’ala dei bambini. Nel cuore della notte passavo dai sotterranei, dove personaggi scomodi avevano trovato morti infamanti, dimenticati da tutti.

Nessuno si avventurava là sotto, tra topi, umidità e immondizia.

Poi, da una piccola porticina dietro al refettorio, emergevo in mezzo le culle, circondato dai neonati addormentati, illuminati dalla luce della luna che entrava dalle vetrate del corridoio.

Quel giorno, la vecchia suora che restava di guardia alle culle mentre le puerpere pranzavano si era assopita, avvolta nelle coperte militari. Faceva freddissimo. Era la prima volta che venivo di giorno, quasi non respiravo dal terrore di essere scoperto. Sentivo il rumore di posate e risate in lontananza, mentre mi muovevo silenzioso ed invisibile nel corridoio.

Ti ho sollevata delicatamente dalla culla, incuriosito dal tuo faccino nuovo e grinzoso. Ho tuffato il naso nel tuo collo profumato di latte e ho pensato che quello fosse il profumo della felicità.

Un attimo dopo le vetrate sono esplose.

Il risucchio mi ha sbattuto contro il muro e ti ho avvolta tra le braccia, sentendo il disperato bisogno di proteggerti. La polvere ha ricoperto ogni cosa, trasformando le persone in statue sperdute.

Tua mamma è emersa dalla nube di calcinacci. Tossiva e correva, gridando il tuo nome, che ho sentito per la prima volta:

“Vivi”

Mi è sembrato un inno alla vita, una speranza in mezzo alle macerie, ai feriti, ai morti.

Un nome bellissimo e potente, che non avrei mai più dimenticato.

Era il 25 Dicembre 1944, il tuo sesto giorno di vita. Gli alleati avevano bombardato la polveriera di Ceriano Laghetto, a poca distanza da noi. Le enormi finestre della villa Pusterla-Crivelli erano esplose, travolgendo le culle dei neonati dell’ospedale dei pazzi.

In mezzo alla tragedia, la mia curiosità era stata la tua salvezza, Vivi.

La piccola principessa di Mombello sarebbe diventata una donna, grazie ad un povero matto.

La suora ti ha strappato dalle mie braccia temendo che fossi in pericolo.

Tu piangevi forte, ma non staccavi gli occhi da me.

Ho fatto appena in tempo a metterti al collo la catenina della mia mamma, con la Madonnina.

“Ti proteggerà in guerra, Nanin” mi ha sussurrato l’ultima volta che l’ho vista.

“Ti proteggerà nella vita, principessa Vivi” ti ho sussurrato mentre scomparivi nel corridoio in braccio alla tua mamma.

Dopo, sono rimasto seduto nella polvere della solitudine, stringendo il tuo cappellino rosso, piangendo rabbia e tenerezza. Ero di nuovo solo.

Poche ore dopo siete salite sulla macchina che vi avrebbe portate lontane da questo posto sbagliato.

Ti ho salutato con la mano, fino a quando l’auto è diventata un puntino. L’ultima cosa che ho visto è stato tuo papà sdraiato sul tetto dell’auto, per avvistare l’aereo che pattugliava la zona in cerca di prede.

Ho sentito tua mamma chiamarlo Carso. Mi è sembrato che un cerchio si chiudesse e ho pensato che il mio credito con l’altopiano in cui avevo perso la mia giovinezza, fosse stato in qualche modo saldato.

“Sei in buone mani, piccolina.”

***

Torni da giorni davanti alla casa gialla dove ci siamo incontrati dopo tutti questi anni.

Ti vedo dalla finestra dell’ospedale in cui mi hanno ricoverato, il mio vecchio cuore è stanco.

Lo so che mi stai cercando.

Forse il destino ci concederà un’altra occasione.

Prima di morire vorrei raccontarti questa storia d’amore, principessa Vivi,

principessa dei matti di Mombello.

 

Susanna Albertini

 

Fonte immagine: Fondo fotografico della Biblioteca Isimbardi