Virginia Woolf, in una foto del 1927.

Dopo la pausa pasquale, riprendo con molto piacere a parlarvi di Virginia Woolf, un vero e proprio mostro sacro nel panorama letterario di tutti i tempi. Se avete perso la prima parte della sua vita, potete trovarla qui.

Vi ricordo che questi post sono appunti tratti da una serie di conferenze dal titolo “Dramma e speranza nella letteratura femminile del ventesimo secolo”. All’epoca stenografavo, fresca di liceo, e poi ricopiavo gli appunti, quindi abbiate pazienza se ci sono delle stranezze! Spero comunque di essere riuscita a rendere il concetto in maniera sufficientemente chiara.

Una mente androgina

Virginia Woolf era arrivata alla convinzione che nella mente umana esista una componente maschile e femminile insieme. Ove si riesca a fondere questi aspetti, queste due tendenze, si arriva a una mente androgina. Peraltro, non sono scoperte di Virginia, ma sono concezioni presenti anche nella filosofia orientale.

La mente androgina è il culmine dell’armonia: non si parla di due sessi uniti, ma addirittura di trascendere il sesso. Lei sosteneva che molti dei guai della nostra epoca, soprattutto in chiave artistica, erano la conseguenza di aver sfacciatamente posto di fronte all’umanità il fatto della distinzione tra sessi. Citando Coleridge, dove c’è nel poeta uomo questa raffinatezza soave della poesia che è femminile, lei sosteneva che questo non è necessario, che si vive in una sorta di fusione.

 

Uomini e donne

Questa rottura della Woolf è clamorosamente annunciata dal fatto del suffragio di voto alle donne ed è in questo tempo che lei – femminista molto particolare – dice che forse il sesso maschile non ce l’ha con la donna per dimostrare la sua inferiorità, cosa di cui giustamente le donne si dolgono, ma è proprio perché l’uomo ha sentito tremare la terra sotto i piedi e per confermare la sua superiorità senza la quale non trova più, per il momento, degli agganci, è costretto a vedere la donna come un essere inferiore.

Dice la Woolf che può essere ancora più interessante studiare il perché ci sia stato questo bisogno di conferma da parte dell’uomo. Anche Woolf, come già Sibilla Aleramo, Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, diceva che l’antitesi è assurda, ma che è assurda anche l’imitazione. La donna è donna, ha un suo linguaggio e lo deve trovare, ha una sua fisionomia e la deve accentuare e mantenere; anzi, sosteneva che l’educazione dovrebbe insistere sulle differenziazioni tra uomo e donna. Povera la donna, dice, che imita l’uomo: perde se stessa.

Sarebbe mille volte un peccato se le donne scrivessero come gli uomini o vivessero come gli uomini o assumessero l’aspetto degli uomini; poiché, se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come ci potremmo arrangiare con uno solo? Forse l’educazione non dovrebbe sottolineare e accentuare le differenze, invece che le somiglianze? Poiché di somiglianze ce ne sono abbastanza e se un esploratore dovesse tornare con la notizia di altri sessi che siano tra i rami di altri alberi sotto altri cieli, sarebbe il più grande servizio che potesse fare all’umanità.”

Se ci basiamo su questa serie di pensieri di Virginia Woolf, possiamo intuire come Simone de Beauvoir abbia in fondo in fondo imitato un po’ il mondo maschile, anche nel suo modo di scrivere. Nello scrivere, sostiene invece Virginia, non ci devono essere rivendicazioni personali: né un uomo né una donna devono soggiacere, scrivendo, all’istinto di sfogare il proprio io: sono ombre, che rompono la chiarezza della scrittura. Il cervello di un artista deve essere sgombro da qualsiasi riferimento ai suoi problemi, a quelli del suo sesso, ai suoi rancori, alle sue frustrazioni, e cita sempre Shakespeare di cui è innamorata.

“Se questa storia dei due lati della mente è valida, ciò significa che la virilità è diventata consapevole: cioè che gli uomini scrivono adesso con il lato maschile del loro cervello. Per una donna è uno sbaglio leggere questi uomini, perché inevitabilmente ella vorrà cercare qualcosa che non vi si trova. Ciò di cui si sente più la mancanza è la forza su suggestione. Le osservazioni sono molto valide, molto acute e piene di erudizione, ma l’inconveniente era che i suoi sentimenti non comunicavano più l’uno con l’altro, la sua mente sembrava divisa in compartimenti stagni. Nessun rumore riusciva a passare attraverso le pareti.”

 

L’atto della creazione

Pagina del manoscritto di Mrs Dalloway – British Library

Secondo Virginia c’è una grossa differenza tra scrivere e creare. A tale proposito si chiedeva: “Qual è lo stato d’animo più propizio all’atto della creazione?” Su questa domanda impazziva; oltre a scrivere pagine e pagine di riflessioni, non si fermava ai propri ragionamenti, andava a controllare. Virginia Woolf leggeva continuamente, anche quando scriveva; e addirittura nel suo diario afferma che la situazione ottimale per portare avanti il proprio romanzo è un po’ di moderato movimento fisico, passeggiata, al mattino, e poi la lettura di testi belli nel momento in cui tu sei perduto nel tuo pensiero, ma non per imitare.

Le donne, poi, sostiene Virginia Woolf, non si conoscono abbastanza e tendono a pontificare, a incoraggiarsi, invece bisogna provare a dire le cose come stanno. Bisogna leggere molto: la Woolf va a Cambridge, a Oxford, si perde nei meandri delle sue letture, annota dei concetti filosofici, entra in certi dubbi laceranti.

La risposta totale alla domanda sulla creazione è in pagine e pagine, anche se quella definitiva non esiste, in cui cercava la verità. Virginia Woolf è l’immagine di quell’intelligenza di cui Simone de Beauvoir diceva “l’intelligenza è non accontentarsi delle prime risposte“. La mente dell’artista deve quindi essere incandescente, non ci deve essere alcun ostacolo, alcuna materia estranea che non sia interamente consumata.

 

Un simbolo potente

In Gita al Faro, capolavoro della scrittrice diviso in tre parti: I. La finestra, II. Il tempo passa, III. Il faro, avviene questa fusione di qualità contrastanti che trova in moltissimi punti una soluzione ideale. È un ulteriore, splendido risultato della genialità di Virginia Woolf, che è quello di aver posto tutto in una dimensione fuori dal tempo.

A proposito del romanzo e della sua genesi, la Woolf scrive nei suoi diari: «Fino a quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre… Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai al faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un’altra… Che cosa aveva mosso quell’effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente, e quando l’ebbi scritto, l’ossessione cessò. Adesso non la sento più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda»

Il romanzo s’impernia su un viaggio simbolico a questo faro, visibile dalla villa della famiglia Ramsey e dei suoi figli (la signora Ramsey è appunto l’immagine della madre di Virginia). Con la promessa della gita al faro si apre il libro, ma la si farà soltanto alla fine, quando la signora Ramsey è morta, è passata la guerra, i ragazzi sono diventati grandi; arrivano dunque al faro tanto sospirato, che è solo una rozza costruzione in pietra. Però sono soddisfatti. Su questo elemento così esile si costruisce un libro di una magia incredibile. Perché questo faro rimane come il simbolo di tutto, è il sogno, il Moby Dick, la nostra proiezione.

Il faro di Godrevy Island, che ispirò il romanzo.

Nelle descrizioni iniziali della villa, scritte magistralmente, ci sono tutti i caratteri che intervengono (per esempio Lily Briscoe, una pittrice che sta tentando di dipingere un ritratto della signora Ramsay). Il passato e il presente si fondono in un tutt’uno e il presente viene ripreso dal passato che ne fa un’anteriorità a se stesso: è uscire dal tempo. Allora tutto è possibile in una mente creativa e tutto è possibile quando si accetti come realtà quella che noi ci ostiniamo a negare.

 

Virginia e Leonard

Virginia Woolf non era però una passionale, ma aveva una lucidità razionale incredibile e voleva entrare nell’essenza delle cose. Ci riusciva molto spesso perché era nata per scrivere e per tutta la sua vita lo scrivere è stato come un mestiere. Scriveva tutte le mattine e molto velocemente, tanto è vero che il romanzo Mrs Dalloway fu scritto in un anno!

Virginia e Leonard in una foto del 1912.

Questo è stato possibile attraverso il matrimonio con Leonardo Woolf, nonostante Virginia non avesse per lui nessuna particolare attrazione fisica. Fu chiesta in matrimonio da persone molto note e rifiutò tre volte. Accettò Leonard, che diventerà L. in tutti i suoi libri e con il quale non avrà mai rapporto alcuno a livello fisico, ma con cui fu in perfetta coesione a livello intellettuale. A Leonard deve, come dice lei stessa nella sua ultima lettera, il meglio della sua vita: Leonard l’appoggia, la protegge, l’aiuta.

Quando, dopo il matrimonio, scrive una lettera a un’amica molto ricca, Vita Sackville-West, che nulla è cambiato e non c’è nessun stupore e in fondo lei potrebbe essere ancora la signorina Stephen. L’unica differenza è che è molto più di buonumore e che i suoi nervosismi li scarica su Leonard. Spesso, infatti, nel suo diario Virginia confessa che Leonard è infinitamente superiore e in lei, ma lo dice senza alcuna rabbia femminista: lei rimane se stessa e ammira lui.

***

Con la figura del marito Leonard si conclude questa seconda parte. Che cosa pensate delle teorie di Woolf sulla mente androgina, a livello letterario, e invece sull’insistenza nel differenziare l’educazione nei sessi? E quali sono secondo voi le condizioni migliori per scrivere?

 

Cristina M. Cavaliere

 

Fonti immagini: Wikipedia