“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto” (J.L. Borges)
Nel ripercorrere l’elenco delle mie letture nel fatidico 2022, che potete trovare qui in forma completa con ben quarantatré libri all’attivo – ho rintracciato alcuni leitmotiv: 1. il tentativo di sgretolare la montagna dei libri che giacevano da tempo immemorabile sullo scaffale, comprati magari prima dell’iscrizione all’università o ricevuti in regalo; 2. la “scoperta” dei gialli di Ellery Queen, di cui mio marito possiede l’intera raccolta e che, come dire, sono un piacere intellettuale; 3. la lettura della collana Maestri dello Spirito curata dal teologo Vito Mancuso, un vero balsamo nei momenti difficili che ho attraversato.
Invece di affliggervi con il solito lungo elenco accompagnato dalla quarta di copertina e da un breve giudizio, lavoro che tra l’altro mi porta via parecchio tempo, selezionerò alcuni libri che mi hanno particolarmente colpito fornendo una vera e propria recensione. Ho visto che l’articolo su Vita e destino di Grossman, sviluppato in lungo e in largo, è piaciuto molto e quindi rimpolperò il filone recensioni su questo mio blog.
Un best seller degli anni 70
Iniziamo subito con il romanzo Dove porta il fiume di James Dickey, il primo della lista. Tra l’altro non mi ricordo da quale fonte il libro mi sia pervenuto – trattasi senz’altro di un lascito di qualche parente – ed è rilegato in buon cartonato e con una sovraccoperta dai bordi rovinati. La grammatura della carta è spessa, di quelle che si usavano una volta.
A molti di voi il nome di questo autore non dirà niente. Atleta universitario, pilota notturno con oltre cento missioni all’attivo durante la Seconda guerra mondiale e in Corea, pubblicitario di successo a New York e Atlante, James Dickey cominciò a scrivere a trentotto anni, affermandosi come uno dei più interessanti scrittori americani. Nel 1966 vinse il National Book Award per la poesia con Buckdancer’s Choice e nel 1967 i Poems 1957-1967 gli valsero il pieno consenso del pubblico e della critica. Nel 1970 pubblicò il suo primo romanzo, Dove porta il fiume appunto, che divenne uno dei maggiori best-seller americani. Morì nel 1997.
Ancora nulla? Focalizzatevi sulla parola fiume e soprattutto ripensate al seguente film.
Un tranquillo weekend di paura di John Boorman
Ah, ecco che vi si è accesa la lampadina! Sì, ho letto questo romanzo proprio sulla scorta del film che avevo visto parecchi anni fa, e che ho rivisto dopo aver letto il libro: come a dire, galeotto fu il film, e non il libro, anche se, come spesso accade, e al di là dell’impianto narrativo che è stato rispettato dal film (l’autore collaborò alla lavorazione e il film in lingua inglese portò il titolo di Deliverance), sono due prodotti diversi che provocano emozioni differenti. Di necessità il film non può immergersi nella mente dell’io narrante come fa il romanzo, per esempio.
Qui accanto potete osservare le locandine dei due film: nella prima vengono proposti i personaggi colti in due momenti drammatici, in mezzo la mano che punta il fucile, ma che è come schiacciata dalle foto. Nell’altra si è optato per un’immagine simbolica con colori sbiaditi – in pratica un’illustrazione – ma molto più impattante: la mano armata di fucile emerge dall’acqua ed è centralissima. Sullo sfondo la canoa con tre minuscoli protagonisti, ridotti a prede.
La quarta di copertina
Leggiamo però interamente la quarta di copertina della vecchia edizione ingiallita della Arnoldo Mondadori del 1970, una quarta che oggi sarebbe senz’altro giudicata troppo lunga.
L’incontro tra due mondi degli Stati Uniti estremamente diversi e in un certo senso contrapposti: il mondo civilizzato delle città e quello primitivo dei bifolchi nel profondo Sud si risolve in questo romanzo inconsueto con una tragedia. Nella gola selvaggia del Cahulawassee, fiume che scorre impetuoso tra alte montagne ammantate di fittissime foreste di pini, quattro americani “arrivati” cercano di liberarsi in qualche modo della civiltà che ha dato loro una tediosa agiatezza, per tornare a immergersi nella natura. La loro intenzione è quella di discendere il fiume su due canoe e di cacciare di frodo i cervi con l’arco. Una feroce aggressione a sfondo omosessuale li costringe invece a diventare disumani e selvaggi quanto la natura stessa che li circonda; uccidono per ben due volte, e uno di loro rimane ucciso, mentre gli altri – due dei quali gravemente feriti – soltanto miracolosamente riescono a giungere al termine del viaggio, che dal progettato ritorno salutare alla freschezza rinnovatrice della natura idealizzata si è tramontato in un concreto calvario destinato a pesare in seguito su tutta la loro esistenza. Sebbene una vicenda del genere possa far pensare a un racconto di avventure, il romanzo scava in profondità, scende fino al nocciolo della crisi morale e dei conflitti che turbano gli uomini di tutto il cosiddetto mondo civile e perviene, mediante una analisi sottile e una satira intelligente, a conclusioni moralistiche innovatrici. La precarietà della vita, la comprensione dei fondamentali valori che pur sempre la dominano, ha definitivamente introdotto i protagonisti in una dimensione diversa in cui l’uomo vede la vita tanto più vera e ricca, quanto più ne riconosce la precarietà. Lo stile aggressivo, incisivo, gagliardo e al contempo poetico, in contrasto con le situazioni spietatamente realistiche della vicenda, è uno – e non il minore – dei pregi che rivelano in James Dickey romanziere quelle doti che fanno di lui uno dei migliori poeti contemporanei.
I protagonisti: cittadini allo sbaraglio e montanari violenti
Come avete letto dalla quarta, vi sono molti concetti nel romanzo che sono attualissimi ancora oggi: innanzitutto, l’ingenua visione verso un ambiente naturale considerato “buono” per antonomasia, dimenticando che tra la natura e l’umanità c’è una lotta senza quartiere che dura da tempo immemorabile; e che la posta in gioco è la sopravvivenza. I protagonisti – il grasso Bobby, il palestrato Lewis, il mite Drew, e Ed, la voce che ripercorre in prima persona la drammatica esperienza a cose fatte – sono pieni di sicumera, a tratti insopportabili, convinti come sono di poter percorrere un fiume di quella pericolosità come se fosse un gioco da ragazzi.
Da sinistra a destra: Ronny Cox nel ruolo di Drew Ballinger, Nead Beatty interpreta Bobby Trippe, Burt Reynolds è Lewis Medlock e John Voight nella parte di Ed Gentry.
Nemmeno i membri della comunità montana rintanata nel profondo della vallata sono messi meglio. Vivono in maniera miserabile e alcuni di loro sono il chiaro frutto di un incrocio molto stretto tra consanguinei, come il bambino nella famosa scena in cui Drew suona la chitarra e lui lo accompagna con il banjo.
Ha sempre qualcosa che non va la gente in campagna, pensai. Nelle relativamente poche occasioni in cui ero stato nel sud rurale, mi aveva colpito il numero delle dita mutilate. Grosso modo, ne avevo contate almeno venti. Non erano mancate numerose persone storpiate in qualche modo o affette da qualche malattia deformante, così come alcuni ciechi o orbi. Forse mancava una sufficiente assistenza medica. Ma v’era anche qualcos’altro.
Gli avventati protagonisti vogliono sfidare il pericolo nonostante le esortazioni a tenersi alla larga dal fiume e senza che nessuno di loro, nemmeno lo spavaldo Lewis che vuole vivere “secondo le leggi della natura”, abbia alcuna preparazione e la minima idea di quello che li aspetta, al di là della bravura nel tiro con l’arco. Ecco che cosa accade quando giungono in un’officina e chiedono che le loro automobili siano portate ad Aintry per venti dollari.
“Portare laggiù le automobili per quale ragione?”
“Vogliamo discendere in canoa il Cahulawassee, e vorremmo che le nostre macchine si trovassero ad Aintry quando ci arriveremo, dopodomani.”
“Una gita in canoa?” egli disse, volgendo lo sguardo dall’uno all’altro di noi.
“Precisamente” disse Lewis, socchiudendo un poco gli occhi. “Una gita in canoa.”
“Siete mai stati laggiù?”
“No” rispose Lewis. “E lei?”
[…] “Ma se andrà laggiù e non riuscirà a uscirne, desidererà non esserci mai andato”
Sentii un vuoto nel petto e il mio cuore vibrò come ferro. Volevo tornare indietro; semplicemente tornare in città e non parlarne più. Odiavo quello che stavamo facendo.
Vengono in mente certi racconti delle guide alpine, quando vedono inesperti escursionisti affrontare la montagna con le scarpe da ginnastica o le infradito, vestiti in maniera poco adatta e senza alcuna cognizione di causa.
Un mondo pieno di minacce
Il senso di un pericolo incombente aleggia sopra i personaggi, e si fa strada nell’animo di Ed, eppure egli non torna indietro, va avanti sulla scorta dell’ammirazione per Lewis e allo scopo di vivere un’esperienza diversa e più forte di quelle finora sperimentate. Eppure anche la prima notte passata in tenda, dopo aver compiuto un primo tratto nelle due canoe e aver preteso un cambio di compagno, ci immerge in un mondo cupo, spaventoso e ancestrale. Insonne, Ed sente un rumore provenire dalla sommità della tenda e accade qualcosa di inaspettato, che ha la potenza di un simbolo.
Il tessuto vibrava come una vela. Qualcosa sembrava aver afferrato la sommità della tenda; il tessuto tremava in una stretta possente. Il ricordo sconvolgente di dove mi trovavo si impadronì di me dall’interno del cuore. Brancolai in cerca della fredda impugnatura della lampadina tascabile tra i materassini di gomma e l’accesi facendo scorrere il debole bagliore all’insù dell’ingresso della tenda. […] Il tessuto era lacerato, e attraverso la lacerazione sporgeva la nocca di un pugno deforme, un lungo incurvarsi di dita adunche che si ripiegavano su se stesse. Quelli si chiamano artigli, dissi ad alta voce.
Abbiamo un sussulto nel leggere queste righe. Un uomo superstizioso penserebbe al demonio, si viene invasi dal terrore del nostro antenato preistorico, rintanato nel profondo delle caverne nel tentativo di difendersi dall’attacco dei predatori notturni. È soltanto un gufo, ma la scena fa accapponare la pelle.
Il fiume, potente come una divinità
Ma il vero protagonista è senza dubbio il fiume. Esso non è amico né nemico, è semplicemente potenza allo stato puro. Come a dire “io sono colui che sono”. Essendo un romanzo fisico, quasi carnale nelle descrizioni, le descrizioni dei tratti in canoa dominati spesso dalle rapide, delle rupi che si ergono a strapiombo sono di una bellezza incomparabile.
La capacità stilistica dell’autore e l’uso dell’io narrante ci fanno condividere il senso della velocità sopra il fiume, essere vivente che afferra le imbarcazioni, le trasporta, le fa quasi volare, ci fa udire il rumore dell’acqua che cambia di tonalità, permane dolce quando la corrente è tranquilla, diventa poi minacciosa, sinfonica, assordante, travolgente quando ci si approssima a cascate. Il lettore, come Ed, viene così trasportato in un tempo senza tempo dove tutto – la vita e la morte – è come sospeso e cristallizzato e dove il corpo perde di peso per assenza di gravità. Ecco un breve passaggio vero la fine del romanzo, dove i superstiti, malconci e feriti, si apprestano ad affrontare un ultimo tratto particolarmente pericoloso.
…non avrei potuto guidare la canoa se fossi stato più in basso di così, e stavamo filando nell’acqua risucchiati tutti insieme come fili che corrono in un telaio. Il rombo più volte ci si avventò in faccia, e poi dai lati, e fummo in esso, urtando le piccole increspature che ci fecero sobbalzare dinanzi alla prima cascata. Passammo. La prua si abbassò, la canoa raschiò sotto il mio coccige, e scendemmo un altro salto più breve, un violento urtone dal basso, attraverso la spina dorsale, che mi scaraventò giù dal sedile e coricò la canoa quasi su un fianco. La velocità ci raddrizzò, ed io affondai la pagaia con tutte le mie forse – un colpo solo con le ultime energie rimastemi – sulla destra per mantenerci sul filo della corrente. […] Pagaiai con forza, poi tentai di contropagaiare al lato opposto, mi resi conto che era inutile e di nuovo affondai la pagaia sulla destra, con tutta l’energia di cui ero capace, per spostare la prua, e deviammo, deviammo, e balzammo sfreccianti nel varco.
I temi portanti
Man mano che la storia procede, le pagine sono sempre più permeate di violenza, sia quella umana che sfocia nell’abuso sessuale e nell’assassinio, sia quella naturale, dove l’uomo sembra un intruso a meno di non adattarsi rapidamente e ritornare a uno stadio quasi primitivo, un po’ come accadeva ai bambini nel romanzo Il signore delle mosche di Golding.
La spensierata gita sopra il fiume si trasforma in una serie di orrori, dove a dominare è la lotta per la sopravvivenza e quella contro la furia degli elementi, nella ritrovata consapevolezza di quanto l’esistenza sia fragile, e come il proprio corpo, i suoi sensi e la forza di compiere l’impossibile, come scalare una rupe di notte e senza alcuna corda, possano rappresentare l’unica via per la salvezza. Non una salvezza spirituale, beninteso, ma, ancora una volta, puramente fisica. Il romanzo finisce anche con una sorta di “perdita dell’innocenza” da parte dei protagonisti, costretti a mentire alle autorità su come siano andate veramente le cose… ma un’innocenza che forse non è mai veramente esistita.
***
E voi avete letto il libro o letto il film, e che cosa ne pensate? Che cosa vi ha più colpito nella vicenda?
Cristina M. Cavaliere
Fonte testo: Dove porta il fiume di James Dickey – Traduzione di Bruno Oddera – Arnoldo Mondadori editore 1972
Fonte immagini: Wikipedia tranne la foto del fiume (Pixabay)
Non ho letto il libro ma vidi il film, che mi colpì molto. Uno dei “thriller” (se così si può chiamare) che maggiormente racconta l’uomo comune quando in modo inatteso viene messo di fronte alla lotta per la sopravvivenza nel senso più viscerale del termine (un altro è “Duel” ugualmente molto particolare e diverso rispetto ai soliti film ad alta tensione).
Ti dico che mi piacerebbe molto rivedere il film, e anche leggere il romanzo. Vedrò di adoperarmi per fare entrambe le cose.
Anche rivedendolo a distanza di anni, in effetti il film contiene delle scene piuttosto crude. La parte “thriller” permea le scene dove Ed deve cercare di sorprendere l’uomo con il fucile che ha teso loro un agguato e, verosimilmente, ha ucci so Drew (anche se la morte rimane volutamente ambigua), e anche quelle dove si nasconde tra i rami dell’albero per uccidere per primo. “Duel” è un film particolarissimo e inquietante, se non altro perché non si vede mai il viso dell’autista di camion che perseguita il protagonista!
Il romanzo di Dickey ti piacerebbe molto, te le consiglio.
Credo di aver visto il film ma tanto tempo fa perché ne ho un ricordo vago, mi piacerebbe quindi rivederlo. Invece il libro non l’ho letto. Il rapporto tra l’uomo e la natura porta sempre a una sorta di rito di iniziazione (come un film molto più leggero e allegro di qualche anno fa “Scappo dalla città”, era una commedia ma non mancano i momenti drammatici). Di fronte alla sopravvivenza viene fuori la vera essenza di ciascuno e quello che viene fuori non è affatto piacevole.
Sui mondi rurali si è scritto e rappresentato molto, mi é venuto in mente il libro “Padre padrone” di Gavino Ledda sul mondo dei pastori sardi del secondo dopoguerra.
Hai ragione, volente o nolente c’è sempre un rito di iniziazione specialmente nelle situazioni più estreme. Come scrivevo nell’articolo, il romanzo mi ha fatto venire in mente anche “Il signore delle mosche” con i bambini inglesi naufraghi sull’isola deserta che rapidamente ritornano allo stato brado (in tutti i sensi). Diciamo che entrambi non sono romanzi molto ottimisti sulla vera natura dell’essere umano.
Di “Padre e padrone” vidi il film, terribile proprio perché si tratta di un’esperienza realmente vissuta sulla pelle del protagonista.
Non ho letto il romanzo, mentre invece, diversi anni fa, avevo visto il film. Adesso che ho letto la tua recensione, è probabile che leggerò il libro 😊
Ricordo come tutto ruotasse intorno al tema della potenza (e della volontà di potenza, ma lo dico senza alcuna intenzione di scomodare la filosofia): quella dell’ambiente naturale che, come un Giano Bifronte, mostra il lato meraviglioso e l’altro implacabile; quella dei protagonisti che, dall’alto della loro civilizzazione, sfidano la natura selvaggia immaginando (a torto) il fiume al pari di uno scivolo da parco acquatico; quella degli emarginati delle zone rurali che brutalizzano i visitatori (il nemico/lo straniero); infine, la potenza brutale degli stessi protagonisti che, in un attimo, si (ri)trasformano in lupi feroci contro i loro aggressori.
Carissima Clem, i tuoi commenti sono sempre spettacolari, in poche righe hai riassunto l’essenza del libro! 😀 In effetti non c’è molto spazio per l’ottimismo in un libro come questo, tutti sono ritratti nel loro lato peggiore. Il romanzo merita di essere letto… anzi, se vuoi te lo metto da parte. 😉
Ricordo vagamente il film, forse lo avrò visto assieme a mio padre ma non ne sono certa. Invece so bene che trattasi di un cult e come tutte queste grandi storie non mi stupisce che fosse tratta da un ottimo libro. Di queste storie mi piace quell’elemento che è andato sparendo nel tempo: dietro all’intreccio, magari alla violenza di una trama al maschile fondata su un gioco di forze, c’è altro, una specie di filosofia di vita, un riferimento ai valori. Scrittori e sceneggiatori che sapevano fare. Per non dire di quegli attori, poi.
In questi giorni ho finalmente letto il mio primo Auster, Trilogia di New York, non mi stupisce sia stato pubblicato nel 1985, grande solidità. Dietro l’intreccio, altro.
Ti consiglio vivamente di guardare il film. Come dici, oltre alla trama avventurosa e violenta c’è tutto un pensiero dietro attualissimo ancora oggi: il rispetto, quasi da timor di Dio, nei confronti della natura, l’impreparazione culturale di persone che non sono abituate a confrontarsi con luoghi impervi come quelli descritti nel libro e ripresi nel film, la brutalità di persone abituate a vivere come rintanate in un mondo a sé e pronte a espellere il corpo estraneo rappresentato dai gitanti che osano violare le loro montagne, e molto altro ancora. Per quanto riguarda lo scrittore e il regista, ti racconto una curiosità: ebbero un litigio sul set, e si presero a pugni. Boorman uscì col naso e quattro denti rotti, mentre Dickey fu cacciato dal set, senza però subire alcuna querela. Boorman fece infatti interpretare a Dickey il ruolo dello sceriffo alla fine del film, in una sorta di cameo. Evidentemente ci sono dei film in cui la violenza si irradia dalla finzione alla realtà!