Ritorna la rubrica sui Tarocchi con la seconda appassionante puntata scritta da Clementina, che ci conduce alla scoperta delle origini di questo affascinante gioco (e non solo). Se avete perso la prima parte, la potete trovare qui. Non poniamo tempo in mezzo perché il materiale è abbondante e interessante, e incominciamo subito…

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Vorreste sapere chi ha inventato i Tarocchi e quando?

Bene, inizio subito chiarendo che sono talmente numerosi gli studiosi e i ricercatori che si sono confrontati e scontrati su questi interrogativi, che le ipotesi emerse a riguardo, oltre ad essere molteplici, sono anche divergenti. Per questa ragione, tra le varie teorie formulate sino ad oggi non ve n’è una sola che possa essere ritenuta la più veritiera in assoluto.

Tra le tante ipotesi avanzate, una fa risalire agli Zingari l’uso dei Tarocchi a fini divinatori e alcuni ricercatori asseriscono che i Gitani importarono questo gioco dall’Africa, più precisamente dai Mori, in Europa, durante l’occupazione della Penisola Iberica. Nell’immagine di apertura, potete vedere Tariq-ibn-Ziyad, condottiero berbero.

Secondo altre fonti pare che il gioco dei Tarocchi sia giunto fino a noi nel periodo del Basso Impero, seguendo la «Via del grano» che univa Alessandria d’Egitto alla Baia di Napoli.

 

Tuttavia, secondo una cronaca viterbese risalente alla fine del 1300, i Tarocchi giunsero in Italia dai Saraceni con il nome di naibi. Infatti, nel 1379, un certo Nicola della Tuccia, annota quanto segue: «Fu recato in Viterbo il gioco delle carte da un saracino chiamato Hayl… il gioco delle carte che in saracino si chiama nayb… il gioco delle carte che viene da Sarracinia e chiamasi tra loro nayb». Nel testo non viene specificato da quale parte della Terra dei Saraceni provenissero quelle carte, ovvero se dal Nord Africa o dall’Oriente (il termine fa riferimento, sia agli orientali, che ai nomadi derivanti dalla città di Sarah, tra la Turchia e la Persia) e la questione è rimasta irrisolta sino ad oggi.

Tra il 1375 e il 1393 vengono redatti numerosi documenti che citano giochi di carte chiamati naibi, nahipi o naibes. L’etimologia del termine pare ricondursi sia all’arabo, in particolare alla storpiatura di na’ib (capo o vice), oppure al termine nabi (profeta), sia all’ebraico nabiah (profeta).

In tutti i casi, va comunque detto che i naibi sono un gioco didattico nel quale compaiono cinquanta immagini suddivise in cinque serie di dieci carte. Le cinque serie simboleggiano le Condizioni della Vita (il mendicante, il servo, l’artigiano, il mercante, il gentiluomo, il cavaliere, il ministro dello stato, il re, l’imperatore, il papa, le Muse (Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Urania, Pollinia, Calliope e, in aggiunta alle nove muse vi era Apollo), le Scienze, le Virtù e i Pianeti (oltre ai sette pianeti erano inclusi l’Ottava Sfera, il Primo Mobile, e la Prima Causa).

Secondo alcune fonti il gioco dei naibi traeva a sua volta origine da un gioco indiano chiamato Dasavatara. Nell’immagine potete vedere un esempio di Dasavatara su un tappeto (fonte web). Questo gioco indiano sarebbe stato costituito da centoventi carte di forma circolare, suddivise in dieci serie di dodici, i cui simboli erano: tartarughe, pesci, conchiglie, denari, fiori di loto, brocche, bastoni, sciabole, scimmie, elefanti, cavalli, leoni. Dalla rielaborazione di questi simboli sarebbero stati estrapolati i quattro simboli base: coppe (clero), spade (nobiltà), denaro (commercio), bastoni (contadini).

 

Un’altra teoria sostiene che le carte numerali avrebbero tratto origine dai dadi, o dal Domino cinese, o dal Mahjong di Confucio, mentre le figure (re, regina, fante cavaliere, ma anche torre e matto) sarebbero state ispirate dagli scacchi, gioco di antiche origini persiane.

Ma arriviamo a qualcosa di molto più concreto…

È datata intorno al 1400 la più antica serie di carte europea, denominata «Italia2», che molto probabilmente proveniva dalla zona del Nord Est italiano (sarà la foggia tardo medievale del berretto indossato dalla figura maschile inscritta nella moneta raffigurante l’asso di denari a certificarne la datazione e la provenienza), e che tutt’oggi si trova all’interno del Museo Fournier di Alava, nei Paesi Baschi.

Questo è il mazzo di carte occidentali più antico, antecedente anche al mazzo dei Tarocchi Viscontei. Esso viene definito anche come mazzo di carte moresco, e anche la stessa iconografia lascia supporre che le origini siano appunto mammelucche. Sulla base di numerosi studi, pare che, nonostante molte lame siano andate perdute, il mazzo «Italia2» fosse costituito da cinquantadue carte, ciascuna della misura di 6,5 x 9,5 cm., creato sulla base di uno stile che prevedeva semi latini arcaici e uno sviluppo numerale che andava dall’uno (l’asso) al nove, corredato da figure quali il fante, il cavallo e il re (la regina non era prevista in questo gioco). Il mazzo risulta stampato in xilografia su cartoncino e colorato a mano senza il ricorso a mascherine, bensì utilizzando una tecnica che prevedeva di intingere un dito nell’inchiostro per usarlo come pennello. I colori sono quattro: rossiccio-bruno; marrone scuro o nero; rosa; giallo.

Nel frattempo, in Europa, soprattutto intorno ai primi decenni del 1400, nonostante un sempre più diffuso utilizzo dei mazzi di carte da gioco, vennero emanati moltissimi decreti con i quali venivano vietati, sia il gioco dei naibi, che il gioco delle carte, in generale. Pare, infatti, che in quel periodo quei giochi avessero assunto una tale diffusione per cui si cominciò a parlare di un fenomeno di gioco d’azzardo.

A Bologna, persino Bernardino da Siena di cui potete vedere un’immagine, religioso e teologo appartenente all’Ordine dei Frati Minori, tenne una solenne predica dedicata alla giornata di quaresima durante la quale invitò la popolazione a gettare nel falò delle vanità tutto ciò che veniva considerato gioco d’azzardo, in una parola tutto ciò che egli stesso definiva arnesi del Diavolo, o turpe lucrum, e cioè dadi, tavole e carte da gioco.

Tuttavia, se da una parte il potentato e il clero, con Bernardino da Siena in testa (tra l’altro stimatissimo da Filippo Maria Visconti), condannavano il gioco d’azzardo quale eresia e in diretto contrasto alla regola benedettina dell’ora et labora – insomma, giochi che portavano via tempo prezioso al popolo che avrebbe dovuto impiegare meglio le ore a disposizione dedicandosi al lavoro – dall’altra, nelle varie corti d’Italia e d’Europa, i nobili si dilettavano abbondantemente proprio con il cosiddetto Gioco dei Trionfi. Infatti, nel periodo che va dal primo decennio alla metà del XV secolo, il Gioco dei Trionfi si sviluppò ai massimi livelli nell’area di Milano, Bologna e Ferrara e le cronache di Candido Decembrio (letterato e politico, 1392- 1477), puntualmente, ci informano di come il Duca di Milano (e con lui tutta la sua corte) si dilettasse a inventare nuovi giochi e nuovi mazzi.

Di conseguenza, nacquero: i mazzi milanesi viscontei (di cui abbiamo ampiamente parlato nella precedente puntata e che più di ogni altra tipologia si diffuse maggiormente all’estero per diventare in seguito il prototipo del Tarocco più tradizionale). Potete vedere qui La Luna, tratta dal mazzo Visconti Sforza, B. Bembo.

Nacquero i mazzi ferraresi. I Tarocchi ferraresi sono vere opere d’arte dipinte a mano e miniate in lamine d’oro e risultano composti da:

I- il Mazzo del Tarocco di Alessandro Sforza duca di Pesaro, fratello di Francesco Sforza, ma con maggiore probabilità creati per Ercole d’Este, datati intorno al 1445-73, di cui rimangono 15 esemplari conservati presso il Museo Civico del Castello Ursino di Catania);

II – i Tarocchi detti di Carlo VI di Francia (1460 circa, anche se per molti studiosi la datazione è incerta) conservati nella Bibliotheque Nationale di Parigi (una sola figura e sedici Trionfi);

III – i Tarocchi “Estensi o di Ercole I d’Este” della Biblioteca Beinecke di Yale (otto figure e otto Trionfi). È probabile che il mazzo sia stato realizzato in occasione delle nozze tra Ercole d’Este e Eleonora d’Aragona, avvenuto nel 1473;

IV – i Tarocchi della “Collezione Rothschild” nel Museo del Louvre a Parigi tranne una nel Museo Civico di Bassano del Grappa (nove carte in tutto, di cui otto figure e un Trionfo. Il mazzo è stampato in xilografia sui tre fogli Rosenwald, non tagliati).

Invece, merita un cenno a parte il cosiddetto Tarocco del Mantegna (1465-75 circa), che si pensava fosse stato elaborato a Mantova dal famoso pittore Andrea Mantegna, mentre ora viene attribuito a due pittori ignoti. Nonostante la somiglianza ai Trionfi, il mazzo in questione è privo degli arcani minori e si ritiene che venisse usato a scopo educativo.

Nonostante sia stato possibile risalire a diversi mazzi di Tarocchi prodotti nelle varie epoche, alla fine del ‘400 ancora nessuno era in grado, con certezza, di stabilire quando nacquero i Tarocchi e per mano di chi. Certo è, però che il gioco dei Tarocchi si diffuse sempre più in tutta Europa trasversalmente ai ceti sociali.

Arriviamo così nella prima metà del 1700, e un certo Antoine Court de Gebelin, studioso e occultista – di cui potete vedere il ritratto – inaugura la moderna querelle sul significato esoterico dei Tarocchi. Secondo questa archeologia ben poco scientifica i Tarocchi sarebbero una riscoperta dell’Egitto più favoloso. Court de Gebelin, infatti, affermava che i Tarocchi ricostituissero il perduto Libro di Toth. Questa teoria, secondo la quale l’origine dei Tarocchi fosse riconducibile all’antico Egitto, ebbe un successo clamoroso e, di conseguenza, un seguito a dir poco notevole.

Nel 1785, un certo Jean-Baptiste Alliette, meglio noto come Etteilla (1738 – 1791), che per alcuni era un noto esoterista, mentre per altri poco più che un parrucchiere, ribadì l’ipotesi dell’origine egiziana dei tarocchi, senza comunque fornire alcuna prova. Anche Alliette, seguendo la scia dell’antico Egitto, ottenne un discreto successo.

In seguito, con Eliphas Levi (1810-1875), il più famoso occultista e studioso di esoterismo dell’Ottocento francese, nonché massone e rosacrociano, i Tarocchi vennero direttamente collegati all’esoterismo pratico della magia. Il loro utilizzo prevalente divenne quello divinatorio, mentre l’aspetto più didattico-filosofico andò sempre più sfumando.

Poco più tardi, l’esoterista e medico francese Gerard Encausse, più noto come Papus (1865-1916) e l’esoterista, massone, astrologo e scrittore svizzero Oswald Wirth (1860-1943) approfondiranno il pensiero di Eliphas Levi e accomuneranno i Tarocchi alla Kabala e alla magia. Con questa operazione tornerà a rivestire notevole importanza il ruolo del tarocco all’interno di un percorso di crescita spirituale, pur continuando a svolgere contemporaneamente quello di strumento di divinazione. Nel 1887, infatti, lo stesso Wirth collaborando con Stanislav De Guaita, poeta ed esoterista francese, ridisegna i ventidue arcani maggiori dei Tarocchi e nel 1924 pubblica un trattato dal titolo esplicativo Meditazione sugli arcani Maggiori dei Tarocchi.

Nel 1933 Joseph Maxwell (1858-1938) Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Bordeaux e importante studioso dei fenomeni psichici, che si dedicò allo studio dell’occultismo anche con la collaborazione di un medium, con cui approfondì gli studi sulla telecinesi, si dedicò allo studio dei Tarocchi. Maxwell, attraverso la pubblicazione di Le Tarot, le symbole, les arcanes, la divination affronta un’ampia trattazione degli Arcani Minori, oltre che dei Maggiori e paragona i Tarocchi all’equivalente occidentale dell’I King.

In particolare, l’autore riconosce al Tarocco di Marsiglia un linguaggio ottico, invitando il lettore a guardarlo per poterlo comprendere, tenendo in considerazione i numeri, il significato del colore e di qualsiasi gesto dei personaggi. In questo modo i Tarocchi assumono il ruolo di preziosi strumenti destinati alla meditazione.

Nel 2007, Alejandro Jodorowsky, artista eclettico, direttore di teatro, autore di pièce teatrali, di romanzi, di fumetti e di film, pubblica, insieme a Marianne Costa (scrittrice, attrice, cantante e traduttrice) La Via dei Tarocchi. Jodorowsky si rende conto che gli unici in grado di insegnargli a decifrare i Tarocchi, non sarebbero stati dei Maestri in carne ed ossa, ma i Tarocchi stessi: «Per consentire ai tarocchi di entrare a far parte della mia vita… dormivo ogni notte con una lettera diversa sotto al cuscino, oppure andavo in giro tutto il giorno con una carta in tasca… ho immaginato i pensieri, le emozioni, la sessualità e le azioni di ciascun personaggio. Li ho fatti pregare, insultare, far l’amore, declamare poesie, guarire». I Tarocchi diventano a tutti gli effetti strumenti fondamentali che permettono la presa di coscienza ponendosi al fruitore in termini di Maestri Spirituali. In pratica, per Jodorowsky, i Tarocchi corrispondono ad una Macchina Metafisica. L’autore, combinando l’iconografia dei tarocchi più classici e diffusi in tutta Europa ha ricreato un insieme simbolico coerente con buona parte del loro patrimonio valoriale, ma allo stesso tempo inedito.

Alejandro Jodorowsky e il suo gatto

Ecco! Siamo giunti anche alla fine di questa puntata. Che effetto vi ha fatto? Volete saperne di più?

Se la risposta è affermativa, ci ritroviamo prossimamente con il capitolo dedicato al simbolismo del seme e del numero, insiti negli Arcani Minori e, solo successivamente con gli ulteriori appuntamenti, ci occuperemo del simbolismo legato agli Arcani Maggiori, partendo dal primo arcano di cui ci andremo ad occupare: il Matto.

 

Buona continuazione, dunque e alla prossima!

Clementina Daniela Sanguanini

 

FONTI:

  • La Via dei Tarocchi, Alejandro Jodorowsky e Marianne Costa, Feltrinelli
  • Tarocchi, i Poteri Magici, Omar e Zaira, Res Nova Libri
  • Il Linguaggio Segreto dei Tarocchi, Laura Tuan, De Vecchi
  • I Tarocchi. Il cammino iniziatico. Il corteo degli arcani, Pia Fiorentino, Edizioni Mediterranee
  • http://l-pollett.tripod.com/cards77i.htm per i tarocchi del mazzo Italia2