Un incontro del buon tempo andato. Molti anni fa assistetti a una serie di conferenze della dottoressa Vittoria Palazzo dal titolo “Dramma e speranza nella letteratura femminile del ventesimo secolo”, insieme con un’amica. La relatrice era appassionata conoscitrice e direi pure profondamente innamorata delle scrittrici che andò a presentare, e trasmise tutta la sua emozione all’auditorio. Furono incontri illuminanti, poiché non conoscevo per esempio Sibilla Aleramo, Virginia Woolf, Katherine Mansfield o Gabriela Mistral. Lessi le opere di queste scrittrici, in special modo di Virginia Woolf che divenne un vero punto di riferimento. L’impatto di queste conferenze fu fondamentale per la mia formazione come essere umano e come scrittrice, se posso usare espressioni così impegnative: ero già inserita nel mondo del lavoro, ma ero molto giovane e la mia personalità era apertissima, avida di letture e di conoscenze.

 Ho ritrovato gli appunti di questi convegni, che all’epoca prendevo in stenografia, per poi riportarli in bella copia; e li ho riletti con vero piacere. Così ho pensato di proporvi gli appunti di queste conferenze, partendo da Sibilla Aleramo. Li ho rivisti a fondo, cercando di renderli meno discorsivi e più omogenei e di correggere date, nomi, eventi. Tra l’altro ho deciso di suddividere il post su Sibilla Aleramo in due parti per non renderlo troppo lungo. Mi scuso sin d’ora per eventuali imprecisioni ed errori, che vi prego di segnalarmi, perché non è facile lavorare su materiale così datato, e che pure avverto come attualissimo.

Infatti questi appunti, riemersi da un cassetto e ora pronti per essere riversato in un blog, ci testimoniano che dopo anni e anni le condizioni della donna in molte parti del mondo sono drammaticamente ancora uguali, se non peggiori, a quelle che si trovò a vivere Sibilla Aleramo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Per combinazione anche Antonella Mecenero aveva letto e recensito il libro più famoso di Sibilla Aleramo “Una donna” nell’ambito del suo circolo di lettura (qui il link). Questo dimostra che c’è ancora moltissimo da fare, e non bisogna mai smettere di parlarne e condividere le nostre opinioni con gli strumenti a nostra disposizione. Buona lettura!

Vita e opere di Sibilla Aleramo

Infanzia e adolescenza

Sibilla Aleramo è in realtà lo pseudonimo di Marta Felicina Faccio, detta “Rina”. Nasce il 12 agosto del 1876 ad Alessandria, in una famiglia composta da quattro figli, di cui lei è la maggiore; il padre è professore di scienze, la madre è casalinga. L’ambiente è quello della piccola borghesia connotato da un certo provincialismo, ma anche da attaccamento a precisi doveri, come il senso dell’onestà e della lealtà, la parola data e il coraggio di essere autosufficienti. Trascorre l’infanzia a Milano, ma smette di andare a scuola quando la famiglia va a vivere a Civitanova Marche, dove il marchese Sesto Ciccolini aveva offerto al padre la direzione della propria azienda industriale. L’adolescenza è comunque molto infelice: nel 1890 la madre, sofferente di depressione, tenta il suicidio gettandosi dal balcone di casa.
Immagine tratta dallo sceneggiato televisivo “Una donna”, trasmesso alla Rai nel 1977,
e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Sibilla Aleramo.

 

La violenza e il matrimonio

Nel frattempo suo padre ha spinto Rina a impiegarsi come contabile nello stesso stabilimento dove lavora lui. Lì accade che un impiegato, un certo Ulderico Pierangeli, abusa di lei nell’ufficio del padre. A quindici anni, Sibilla è costretta a sposare il suo violentatore. Il matrimonio è ovviamente infelicissimo; nel 1895 nasce il figlio Walter. Nel 1896 anche Sibilla tenta il suicidio. Prigioniera di un matrimonio squallido in una cittadina dalla mentalità gretta, si aggrappa disperatamente al figlio e alla scrittura come ancore di salvezza.

La scrittura di articoli

A partire dal 1897 collabora a riviste letterarie (“La Gazzetta Letteraria”, “L’indipendente”, “Vita moderna”, “Vita Internazionale” di ispirazione socialista) firmandosi Rèseda oppure Nira. Si occupa di temi sociologici, pur non avendo contatti sociali, ma leggendo moltissimo in casa. La sua vita è fatta di letture, scritti e meditazioni. Conduce un’esistenza di tipo borghese, con una domestica che le allevia le fatiche di casa. All’epoca il dibattito sulla soggezione della donna, anche da un punto di vista legale e che si traduce nella disparità dei diritti, è al suo culmine. Già i primi movimenti di rivalutazione della donna sul lavoro sono sbocciati in Inghilterra, in Francia e in minima parte anche in Italia.

Sibilla intraprende una corrispondenza molto fruttuosa con Anna Kuliscioff (qui accanto in una splendida immagine), che aveva tenuto a Milano una conferenza sul monopolio dell’uomo. Sibilla scrive un articolo a proposito della proibizione delle donne di frequentare il circolo; viene incaricata di fondare una Lega delle Donne nelle Marche. Conosce e fa amicizia con Alessandrina Ravizza (qui il link al mio articolo per chi volesse approfondire anche questa straordinaria figura di donna), poi con Arrigo Levi Moreno, uno studioso che si occupa della questione femminile.

Attività letteraria e amicizie a Milano

Nel 1899 il marito viene licenziato da suo padre, che finalmente ha aperto gli occhi sul suo conto. Lasciano Porta Civitanova Marche e si trasferiscono a Milano, e il marito cerca di fare l’esportatore di frutta. A Milano si aprono gli orizzonti di Sibilla, benché esca pochissimo; la incaricano di dirigere la rivista “L’Italia Femminile”. Nella rivista apre una rubrica, intitolata “In salotto” dove discute di questioni politiche, culturali, sociali. È autodidatta e non lo ha mai nascosto: ecco il potere della lettura, della volontà, di un dono che è stato alimentato nel tempo. La sua penna suscita un certo scalpore e il suo nome inizia a circolare.

Dal 1901 fino al 1910 sono anni di grande fervore nel femminismo italiano, in cui le donne si battono per il suffragio universale, ancora negato a una parte dell’elettorato maschile. In questo periodo esce il famoso libro di John Stuart Mill “La soggezione delle donne” (1869) e “La donna e il socialismo” (1883) di August Bebel.

A Milano Sibilla conosce Giovanni Cena, poeta già molto affermato che scriveva sull”Illustrazione Italiana” e incaricato di dirigere “Nuova Antologia”. Conosce anche Ada Negri, agli antipodi rispetto al suo modo di viere. Conosce Treves, Turati, e Annamaria Mozzoni, riconosciuta ora come la prima italiana che si è battuta in senso positivo e serio per l’emancipazione femminile. Conosce anche Ersilia Majno, che aveva fondato “L’Unione Femminile”. Sibilla non si lascia abbattere dalla triste realtà di un matrimonio fallito, di un marito manesco. Cerca invece attraverso questa sua esperienza negativa di sollecitare altre donne, che subivano abusi analoghi, di trovare il suo stesso coraggio.

Di nuovo a Porto Civitanova

Nel 1900 il marito, che non riesce a mandare avanti la sua esportazione di frutta, obbliga la povera Sibilla a ritornare con lui a Porto Civitanova. Poco prima di lasciare Milano, lei fa in tempo a conoscere il filosofo Gaetano Meale, soprannominato Umano, e di cui fa un ritratto splendido nel diario. Viene aiutata da questa persona, piena di profondo spirito religioso, a superare alcune gravi crisi. Si lascia convincere però a tornare nelle Marche per amore del figlio. Il marito si ubriaca, pretende di abusare di lei, minaccia di toglierle il figlio e, con il pretesto che la madre di Sibilla, esaurita, era stata ricoverata nel manicomio di Macerata, sostiene che anche lei è pazza.

Un’altra immagine tratta dallo sceneggiato televisivo “Una donna”
con Giuliana De Sio nel ruolo della protagonista
e Biagio Pelligra in quello del marito.

L’abbandono del figlio

Questa situazione porta la scrittrice a un passo gravissimo, da cui non si riprenderà mai più: lasciare il marito, ma di conseguenza anche il figlio. Lo rievoca nell’ultima pagina di “Una donna”, romanzo che pubblicherà nel 1906, e in alcune pagine di diario. In un monologo straziante chiede al figlio che dorme se preferisce avere una madre non più donna, ma una creatura che si trascina, sfiduciata di sé, non viva, e che pertanto disprezzerà, o se sarebbe stato capace di amarla, quando, vivendo, gli avrà dimostrato la dignità di essere persona.

Ho voluto raffigurare questo momento con un’opera di Mary Cassatt (“Mother and Child” del 1890). Ma ecco l’ultima pagina tratta da “Una donna”:

Domani potrei anche morire… E l’ultimo spasimo di questa mia vita sarà stato quello di scrivere queste pagine.
Per lui.
Mio figlio, mio figlio! E suo padre forse lo crede felice! Egli arricchisce: gli darà balocchi, libri, precettori; lo circonderà di agi e di mollezze. Mio figlio mi dimenticherà o mi odierà.
Mi odii, ma non mi dimentichi!
E verrà educato al culto della legge, così utile a chi è potente: amerà l’autorità e la tranquillità e il benessere… Quante volta afferro il suo ritratto, in cui le fattezze infantili mi par che ora annunzino negli occhi il mio dolore, ora nell’arco delle labbra la durezza di suo padre! Ma egli è mio. Egli è mio, deve somigliarmi! Strapparlo, stringerlo, chiuderlo in me! … E sparire io, perché fosse tutto me!
Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora, alla ventura, a cercare sua madre? O avrà già un’altra immagine femminile in cuore? Non sentirà allora che le mie braccia si tenderanno a lui nella lontananza, e che lo chiamerò, lo chiamerò per nome?
E io forse non sarò più… Non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima… e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo!
Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno.

La svolta a Roma

Nel 1902 va a Roma dove ha degli amici. Ritrova Giovanni Cena, e va a vivere con lui per sette anni. Con Cena inizia la sua maggiore e migliore attività sociale, occupandosi degli emarginati, chiamati “guitti”, che venivano dal Lazio, dalla Campania e Calabria, e che erano analfabeti, malati di malaria, e venivano ferocemente sfruttati dai proprietari terrieri. Per anni Sibilla, con Cena o con i coniugi Celli, ha profuso le migliori energie della sua giovinezza in quest’attività, aprendo anche delle scuole gratuite.

Giovanni Cena la sollecita a scrivere la storia della sua vita, che pubblicherà poi nel 1906 col titolo “Una donna” con lo pseudonimo di Sibilla Aleràmo, che trae il cognome dalla poesia di Carducci “Piemonte”.

“Nel 1910 io lasciai Giovanni Cena. Il nostro legame si era allentato da oltre un anno, ma nessuno dei due aveva mai creduto che si sarebbe veramente spezzato. Era qualcosa di molto più grave di un matrimonio, per noi; l’avevamo ritenuto sin dal principio intangibile. Cena aveva anche detto una volta: ‘Sento che è per sempre’ e se io gli avevo messo, pronta, la mano davanti alla bocca, era stato soltanto per scaramanzia, non perché non avessi la medesima, abbagliante convinzione. Senza promesse e tantomeno giuramenti. La gravità e, diciamo pure, santità di quell’unione derivava principalmente dal fatto della sua inverosimiglianza. Cena, con la sua statura da gnomo, le spalle curve, il grosso naso camuso, le grosse labbra fra peli ispidi e neri, come poteva avermi innamorata? Si chiedevano quanti mi vedevano vicino a lui, rosa, chiara e quasi trasparente. Un’apparizione angelica, dicevano tutti. Nei primi tempi, alcuni conoscenti di Cena avevano persino creduto ch’io fossi una sua discepola, diciottenne, ed erano rimasti trasecolati sentendo ch’ero divisa da un marito odioso, il quale teneva in ostaggio il mio figlioletto di sette anni.”

Fino alla morte del marito, avvenuta 35 anni dopo, Sibilla Aleramo non potrà più rivedere suo figlio; e non c’era legge a quell’epoca che concedesse a una donna, almeno una volta l’anno, di avere il figlio con sé.

“Tanto passato e l’angoscia ancor presente lasciavano pura la mia fronte come di giovinezza, mettevano solo una tinta di malinconia in fondo al mio sguardo. Ma Cena, che aveva saputo la tragedia della mia vita sin da quando eravamo soltanto amici, mi aveva amato proprio perché essa poteva, così miracolosamente, comporsi in armonia sulla mia persona. Egli, deforme, aspirava alla conquista della bellezza, vi aspirava con i suoi versi come una dolorosa rivalsa alle sconfitte dell’amore. Altre donne l’avevano acceso e poi schernito. Dimostrava più di cinquant’anni: s’era rassegnato. Alla vigilia d’incontrarmi si era volto interamente alla poesia; se egli credesse veramente alla consistenza del proprio mondo lirico o alla sopravvivenza della sua opera, lo ignoro ancora oggi, ma certo attraverso la mia dedizione appassionata egli sperò, finché gli fui accanto, di raggiungere quell’ineffabile che mancava alle sue composizioni, l’aura magica di un Petrarca o di un Leopardi.”

“Una donna”, 1906

È ormai diventata famosa perché è uscito “Una donna”. Il libro viene tradotto in varie parti d’Europa, e tutti se ne impadroniscono elogiandolo a dismisura: è considerato uno dei primi libri del “femminismo” italiano, e ancora appartiene al mondo che ci circonda.

Nella splendida prefazione di Maria Antonietta Macciocchi apposta all’edizione Feltrinelli in mio possesso, ci spiega di essere partita nella lettura con un senso di fastidio per il linguaggio ottocentesco, a tratti enfatico e sicuramente sentimentale, e di essere approdata al sentimento opposto (rabbia, coinvolgimento, senso di rivolta) per l’attualità del problema: “Così non il libro appartiene al passato, ma il mondo che ci circonda, questo mondo squassato dal ‘perbenismo’ piccolo-borghese e borghese, dove la ‘morale ufficiale’, anche per tanta parte delle forze rivoluzionarie e di sinistra, sta nell’ambigua formula della donna+famiglia, +educazione dei figli, + parità sul posto di lavoro, e nella famiglia.” “E con qual brutalità irradiante forza, viene messo a nudo il nodo viperino dei rapporti tra uomo e donna dietro il segreto della porta familiare, dietro il nome di famiglia inciso sulla targa di lucido ottone.”

L’autrice di “Una donna” pare infatti destinata a ricalcare le stesse orme della madre, in una catena infinita che lega ogni donna, prigioniera com’è di un matrimonio riparatore di una violenza che ha subito, della gelosia e delle percosse del marito, e che scivola sempre più nella depressione e nella follia. Sibilla Aleramo spezza questa catena, ma al prezzo altissimo di rinunciare al figlio che costituisce l’ostaggio del potere genitoriale maschile. Una scelta che, ancora oggi, molte donne non compiono perché troppo dolorosa…

(segue)
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E voi conoscevate la storia di Sibilla Aleramo e quella del movimento femminista di fine Ottocento e inizio Novecento?

Cristina M. Cavaliere