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La crisi afghana

Viviamo in un tempo esausto e in un mondo globalizzato attraversato dalla pandemia, dalla crisi climatica, da una guerra mondiale combattuta “a pezzi” secondo le parole del Papa, dove la forbice delle disuguaglianze sociali ed economiche sembra farsi sempre più ampia e la cultura dello scarto diventa sempre più pervasiva.

L’estate era propizia per un periodo di riposo all’insegna di un cauto ottimismo. Ma, come voi, ho assistito con sgomento e un senso di impotenza agli avvenimenti che si sono rapidamente succeduti soprattutto dopo il 15 di agosto in Afghanistan. La crisi in Afghanistan, una sorta di conflitto dimenticato e che era finito in fondo all’agenda dei potenti di turno, è sembrata esplodere con la forza di una supernova.

Dopo una guerra ventennale e un enorme dispendio di uomini, mezzi, soldi e risorse, il ritiro degli americani e della coalizione Nato è avvenuto in mezzo al caos ed è apparso più una rotta come quella di Caporetto che un ritiro graduale, con date che si susseguivano e diventavano sempre più stringenti. Abbiamo assistito all’avanzata rapidissima dei talebani verso Kabul, alla dissoluzione dell’esercito afghano che ha abbandonato aerei, droni, armi, elicotteri ai vincitori.

Soprattutto abbiamo visto scene strazianti con persone aggrappate ai carrelli di aerei in decollo, altre accalcate all’aeroporto di Kabul per giorni, in luogo divenuto un’enorme discarica, in attesa di essere imbarcate in una sorta di terrificante lotteria tra la vita e la morte, altre che disperatamente scappavano, e scappano tuttora, attraverso le frontiere dei paesi limitrofi, Pakistan in primis. L’attentato poi, e le sue conseguenze, è stato definito una sorta di apocalisse, ed è costato la vita a più di centosettanta persone. Abbiamo visto i pochi fortunati nei cargo nel ponte aereo, e abbiamo pensato a coloro che non ce l’hanno fatta e sono rimasti all’interno del paese trasformatosi in trappola.

In Afghanistan è in atto una catastrofe umanitaria, sociale, economica che avrà delle ripercussioni nel resto del mondo. Si tratta di un collasso e un tornado insieme che sembrano spazzare via venti anni di stentate conquiste, in primo luogo a favore delle donne e dei loro diritti, ma anche degli oppositori politici, delle minoranze etniche e delle confessioni religiose oggetto di persecuzioni, e l’orologio sembra ritornare indietro di venti anni… anche se così non è.

 

Le dottrine politiche

Francamente mi sono chiesta a che cosa serve questo mio blog di fronte all’enormità degli avvenimenti che si succedevano, alla pochezza dei miei problemi e al mio senso di impotenza, in parte anche ispirata dall’articolo di Grazia Gironella “La narrativa è inutile?” (qui il link), e forse anche da un filo di depressione, che di questi tempi non è un’ipotesi così peregrina. Il mio blog a dicembre compirà dieci anni, e mi sono chiesta se non varrebbe la pena di festeggiare tale ricorrenza con una chiusura definitiva, come tanto spesso ho ipotizzato. Eppure…

Stavo sfogliando i giornali a proposito della crisi afghana quando sono stata colpita da una frase pronunciata da uno scrittore afghano Ci vorrebbe una nuova età dei Lumi. L’Illuminismo, il Settecento, il mio periodo. Sono andata subito a compulsare i libri che stavo ripassando in vista del mio imminente esame di storia delle dottrine politiche, come Paolo sulla via di Damasco o, meglio ancora, come una donna del Settecento folgorata dai lumi della ragione. L’Illuminismo, quel movimento europeo che si batté per spazzare via l’oscurantismo, la superstizione, la società dei privilegi di nascita, che collaborò a vario titolo con i sovrani per operare delle riforme e garantire a tutti diritti di libertà e uguaglianza.

Quando si studiano questi autori del passato, infatti, si ha sempre l’impressione che siano rivestiti da una patina un po’ opaca, come un ritratto a olio affumicato, o un dagherrotipo ormai sbiadito, e che abbiano poco o nulla da dirci in quanto i loro problemi, e le soluzioni rintracciate, appartenevano al loro tempo.

Eppure il loro pensiero relativo ai diritti delle donne è attualissimo. Sapevate, per esempio, che Giuseppe Mazzini – sì, proprio lui, uno dei protagonisti del nostro Risorgimento, ormai ridotto a una figura da acquasantiera sui libri di storia – era un decisissimo fautore dell’uguaglianza dei diritti a tutto campo, sia per uomini che per donne? E sapevate che il liberale John Stuart Mill, autore di “Saggio sulla libertà”, ha avuto come coautrice l’amatissima moglie e antesignana del femminismo Harriet Taylor? Stesso dicasi per il pensiero anarchico, da Michail Bakunin in poi: le donne dovevano godere di pari opportunità educative e lavorative, di partecipazione politica, di avere legami sentimentali e scioglierli senza alcun tipo di violenza.

Le dottrine politiche e i diritti delle donne

 

Ho dunque pensato di proporvi una serie di articoli su queste figure di pensatori e pensatrici illustri per raccordarle con la contemporaneità, e non potevo che incominciare con Mary Wollstonecraft di cui avevo già parlato nella mia galleria di grandi donne e che riprendo come canovaccio (qui in un ritratto di John Opie del 1797).

Fu soprannominata dai suoi detrattori “la tigre in gonnella” per la determinazione nel far sentire la sua voce di combattente per i diritti – ed è qui un altro aspetto della sua modernità – non solo delle donne, ma anche degli uomini. La sua vita fu una continua provocazione per i perbenisti: convivenze non matrimoniali, una maternità illegittima, una vita “sregolata”. E le sue teorie sulle donne certamente non migliorarono la situazione. Ma incominciamo dall’inizio.

La vita di Mary

Mary nasce a Londra il 27 aprile del 1759 e vi muore il 10 settembre 1797, dopo un’esistenza piuttosto breve e molto avventurosa. La sua prima battaglia viene combattuta nell’adolescenza, nell’ambito di una famiglia condizionata dalla povertà e dall’alcolismo del padre.

Entrata in contatto con altre giovani donne, comincia a forgiarsi un’istruzione da autodidatta e soprattutto a irrobustire gli strumenti dialettici che le avrebbero permesso di battersi contro il conformismo, i pregiudizi e le ingiustizie sociali. La stessa Virginia Woolf, citandola, la definisce ribelle nel suo temperamento, e “con la rivolta nel sangue”. Ben presto Mary si rende indipendente con il proprio lavoro: una data importante è il 1787 dove trova un impiego stabile presso il mensile Analytical Review. In quell’ambiente entra in contatto con i migliori esponenti della cultura progressista londinese.

Nel 1789 avviene lo scoppio della rivoluzione francese, evento epocale in cui molti intellettuali e pensatori, compresa Mary, ripongono le loro speranze di progresso. Nel 1790 scrive la sua prima opera politica, A Vindication of the Rights of Men, in cui conduce un attacco ai privilegi nobiliari e una difesa del regime repubblicano, e si unisce al coro dei difensori della rivoluzione contro l’opposto schieramento degli oppositori conservatori e reazionari. In quest’opera afferma che tutti devono godere degli stessi diritti civili: gli uomini, ma anche le donne.

A questa affermazione dà pieno compimento nella sua opera del 1792, Vindication of the Rights of Woman. All’incirca nello stesso periodo nel 1791 un’altra donna, la francese Olympe de Gouges aveva pubblicato un altro scritto che apriva la strada al movimento femminista, la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne. Mary non fu coinvolta come Olympe negli eccessi della rivoluzione, ma pagò il suo atteggiamento di aperta sfida ricevendo insulti, insinuazioni e sberleffi.

Vive le amicizie con grande dedizione e ha relazioni tempestose. Sposa il pastore “dissenter” e filosofo William Godwin, precursore dell’anarchismo, dal quale ha la figlia Mary, nota scrittrice e moglie del poeta Percy Bysshe Shelley, meglio conosciuta come l’autrice di Frankenstein.

 

La Rivendicazione dei diritti della donna (Vindication of the Rights of Woman)

«È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo.»

(Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman (1792), pubblicato a cura di Eileen Hunt Botting. Yale University Press, 2014, p.71)

Quest’opera ha dei punti di contatto sconvolgenti con la situazione delle donne afghane, e in generale nel resto del mondo che mi permetto di sottolineare nell’articolo. Ascoltiamo che cosa ci dice Mary Wollstonecraft.

Il matrimonio

Il trattato inizia con una breve introduzione dove la scrittrice sostiene che, non contenti della debolezza fisica delle donne, gli uomini si adoperano per farle cadere ancora più in basso facendole diventare oggetti di fugace attrazione; e le donne, inebriate dal loro atteggiamento, non si sforzano di diventare autentiche compagne e amiche. Nei primi anni di vita esse trascorrono ad acquisire un’infarinatura di tutto e con un’educazione di base minima. La forza del corpo e della mente viene sacrificata in favore di nozioni futili: Tra queste, vi è come incrementare la propria bellezza al fine di conseguire l’obiettivo del matrimonio.

Nei vari capitoli Mary tratta alcune opinioni che vanno per la maggiore e che lei confuta con grande acutezza e sapienza di argomentazione. Il titolo del primo capitolo, ad esempio, è “Dell’opinione prevalente di un carattere sessuale specifico”, ovvero che secondo l’opinione comune la donna è come una bambina e quindi deve essere mantenuta in uno stato di perpetua fanciullezza come se vivesse nel mondo dei balocchi e senza assumersi responsabilità. La donna va protetta sempre nella sua vita, sia nel corpo che nello spirito perché incapace di badare a se stessa: non vi ricorda qualcosa?

Le sue teorie sul matrimonio sono di conseguenza scandalose per i bacchettoni dell’epoca (non dimentichiamolo mai: parliamo di 1792). Il matrimonio per gli uomini “non è l’elemento centrale della vita; per le donne, invece, è l’unico progetto per cui affinare le proprie facoltà. Per acquistare una buona posizione devono fare un buon matrimonio, e a questo sacrificano il loro tempo, prostituendo legalmente il loro corpo.”

 
La “naturalità” domestica
 

Alla base della sottomissione in cui la donna viene tenuta sta l’assunto della “naturalità” domestica delle donne, destinate per il loro carattere a occuparsi solamente degli ambiti ristretti della casa e dei figli.

Mary, invece, sostiene con forza che questa cosiddetta “naturalità” è solamente il frutto di una forzatura educativa e sociale, e come tale va combattuta. “La libertà è la madre delle virtù e se le donne sono, per costituzione, delle schiave, e non è concesso loro di respirare l’aria rigenerante e penetrante della libertà, allora sono destinate a languire sempre, come piante esotiche, ad essere riconosciute solo come bellissime imperfezioni della natura. L’unica imperfezione della natura.” La casa e i figli possono essere obiettivi del tutto legittimi, ma devono essere frutto di una libera scelta esistenziale e non un percorso obbligato.

La dipendenza della donna

La donna non è libera di scegliere e non ha la forza di combattere per i propri diritti perché non è indipendente né mentalmente né economicamente. Deve sottomettersi a un legame che non desidera, pena diventare una reietta, o peggio ancora; e, quindi, si prostituisce. In effetti le donne non sono disciplinate, ammette la scrittrice, perché non è mai stato insegnato loro come fare a esserlo; e sono quindi del tutto prive di spirito critico, dovendo sottomettersi ciecamente all’autorità maschile costituita.

Se la donna si avvale solo del suo aspetto fisico per legare a sé l’uomo, ben presto ne perderà l’amicizia, e all’amore subentrerà l’indifferenza dato che non si tratterà di un rapporto alla pari. Per ottenere quello che vogliono alle donne non resta che giocare d’astuzia, dopo essere diventate civettuole; e questa è l’astuzia tipica dello schiavo, che non ha altre armi.

L’educazione, le scuole miste

Tutto il ragionamento di Mary ruota proprio attorno a un termine-cardine, fondamentale per gli Illuministi: l’educazione. Che va radicalmente cambiata, per insegnare alle donne a coltivare il proprio spirito e la propria mente, e a saper esercitare un giudizio critico sulle cose; a non fare affidamento soltanto su una bellezza presto destinata a svanire. Secondo Mary occorre aprire le scuole a classi di tipo misto con bambini e bambine in modo che i due sessi traggano conoscenza e arricchimento dalla reciproca vicinanza. Vi assicuro che anche questo non era per nulla scontato!

La sua indipendenza di giudizio non le impedisce di ammirare il filosofo Rousseau, ma di criticare le sue teorie sull’educazione femminile espresse nell’opera “Emile” e in una scarsa paginetta. Al figlio maschio infatti il pensatore francese riserva tutte le cure di un’educazione sollecita e liberale, immersa nella natura; la figlia femmina è invece destinata ad apprendere tutto quello che le serve per rivestire un ruolo di madre e nutrice. Egli critica molto quelle donne che si sbarazzano dei figli affidandoli alle nutrici (salvo poi predicare bene e razzolare malissimo, visto che lui per primo si liberò dei figli lasciandoli in orfanatrofio): “L’uomo ha maggiore genialità; la donna osserva, l’uomo ragiona.” Contro questa mentalità Mary si batte con durezza nella sua opera, decostruendola con la forza del suo ragionamento.


La conclusione e l’eredità di Mary Wollstonecraft

In conclusione, l’istruzione e l’educazione sono l’unico modo per rendere libere nelle loro scelte, e realizzate, non solamente le donne, ma anche gli uomini che stanno loro accanto; e assicurare a entrambi i sessi la felicità che meritano.

Ho appreso di recente che l’opera di Mary Wollstonecraft, ripresa dalle femministe del XX secolo, viene ancora studiata. Guardacaso Ayaan Hirsi Ali, scrittrice politica, già musulmana e poi critica dell’Islam, in particolare per quanto attiene alla sua legislazione nei confronti delle donne, cita i Rights of Woman nella sua autobiografia “Infidel”, scrivendo di essersi «ispirata a Mary Wollstonecraft, pioniera del femminismo che diceva alle donne che esse avevano la stessa capacità di ragionare degli uomini e meritavano gli stessi diritti».

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Volevo sapere che cosa pensate della situazione in Afghanistan e una vostra opinione sulle parole di Mary Wollstonecraft. Nel frattempo vi auguro un buon autunno.

Cristina M. Cavaliere