Di recente mi sono emozionata leggendo il finale di un libro. Avete presente quel sentimento che coglie in maniera inaspettata, che prende alle spalle come un agguato? Mi ha riportato all’adolescenza, quando la freschezza delle scoperte, di incontri letterari inaspettati incendiava l’immaginazione e il cuore.
Chi sarà mai costui o costei in grado di risvegliare questi sentimenti ormai un po’ persi per la strada in anni di innumerevoli letture, non tutte entusiasmanti, e quale sarà il libro in questione?
Penserete come minimo che si tratti di un autore contemporaneo e che il libro sia un romanzo. Ebbene, l’autore è morto oltre due secoli or sono, e il libro è un’autobiografia bella e avvincente proprio come un romanzo. Ne avrete sentito senz’altro parlare, tramite le pagine dei libri di scuola o la toponomastica:
Il nome vi suggerisce senz’altro qualcosa alla memoria. Ma sì, quell’autore che si studia soltanto per rapidi cenni, una sorta di gemello di Ugo Foscolo, lui sì assai più celebrato nelle pagine delle antologie, con cui aveva in comune caratteristiche fisiche, un’anima tempestosa e ricca di contrasti, amore per la libertà e per un’Italia che ancora non esisteva.
Si tratta di un autore che mi ha sempre incuriosito, se non altro perché è vissuto nella seconda metà del Settecento, secolo che tocca delle corde molto particolari nel mio cuore, e con cui ho fatto finalmente piena conoscenza. Dunque chi era Vittorio Alfieri, questo drammaturgo, poeta, scrittore, e soprattutto autore di tragedie?
Una piccola avvertenza prima di procedere oltre: siccome ho scritto un articolo lunghissimo, anche se ho cercato di contenere il mio entusiasmo, pubblicherò qui la prima parte in modo che sia autoconclusiva e le mie riflessioni sulla newsletter di maggio che seguirà a breve.
Un ritratto e un sonetto
Non c’è modo migliore di presentare Vittorio Alfieri innanzitutto tramite un famoso dipinto opera di François-Xavier Fabre, Firenze 1793. Dietro questo quadro, Alfieri ricopiò un “sonetto autoritratto del 1786″:
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:
per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
In questo ritratto lo vediamo con una rossa chioma leonina, lo sguardo azzurro che fissa la lontananza, l’espressione volitiva. La posa è di tre quarti, il panneggio rosso all’antica accentua la nobiltà del personaggio; indossa un’elegante camicia bianca, ha belle mani affusolate che spuntano dalle maniche. Il rosso del panneggio viene ripreso dall’anello che porta al dito dove c’è l’effige di Dante Alighieri. Dal ritratto trapela la consapevolezza del proprio impegno civile e della grande missione poetica cui si è votato, dopo la “conversione letteraria” che lo trasformò da giovane conte dissipato e “ignorantissimo”, come scrive lui stesso, in un autore di fama europea nella composizione e rappresentazione di tragedie dal forte contenuto storico e mitologico, in un poeta di sonetti, scrittore di trattati contro la tirannide.
Biografia in pillole
Nella “Vita scritta da esso” stesa per la maggior parte intorno al 1790, ma completata solo nel 1803, si presenta così: «Nella città di Asti, in Piemonte, il 17 gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti». Il conte Vittorio Alfieri nasce in una famiglia aristocratica piemontese, diventa orfano di padre all’età di un anno, la madre si risposa. Per una serie di circostanze, diventa il primogenito e dunque erede delle fortune familiari.
Riceve una rigidissima educazione: vi basti pensare che dopo aver ricevuto il sacramento della prima confessione era tradizione andare dal parente più prossimo, nel suo caso la madre, e inginocchiarsi per chiedere perdono dei peccati commessi (cosa che lui si rifiuta di fare e viene punito). Fin dall’ infanzia, epoca in cui trapela l’uomo che sarà, manifesta infatti un carattere ora in preda all’allegria più sfrenata, ora taciturno e incline alla malinconia, sempre molto appassionato. Nella “Vita” è palpabile come si vada creando in lui un grande vuoto affettivo, colmato da alcune figure come il precettore don Ivaldi, la diletta sorella Giulia, uno zio.
All’età di nove anni viene mandato a Torino a studiare all’Accademia Reale, dove trascorre otto anni “ingabbiato” in un periodo di “ineducazione” e dove si definisce “asino in mezzo agli asini”. Come scriverà più tardi, del resto, ai rampolli dell’aristocrazia la cultura non serviva, e si prendevano precettori privati in casa soltanto per insegnare poche nozioni.
Una volta uscito dall’Accademia dopo aver abbracciato la carriera militare, ed entrato in possesso di sostanze e una forma di limitata libertà, Alfieri comincia una serie di viaggi, dapprima in Italia toccando le maggiori città, poi in Europa – Francia, Olanda, Inghilterra, Spagna – spingendosi fino all’estremo nord in Russia, mosso da un’irrequietezza che assume tratti di vera e propria nevrosi, per non dire con tratti di bipolarismo. In mezzo a questo frenetico Grand Tour, quasi sempre i luoghi lo deludono, persino Parigi (una “fetente cloaca”) non è all’altezza delle sue aspettative, una volta arrivato non vede l’ora di ripartire per la prossima meta, la noia lo assale a ogni passo, e l’importante è andare, andare: sono la velocità, il viaggio che contano!
Durante queste peregrinazioni e la frequentazione della vita mondana, Alfieri ha le prime esperienze amorose, in una tenta il suicidio e un’altra relazione si conclude addirittura con un duello con il marito della donna dove viene ferito leggermente a un braccio. Anche questo si traduce in un’irrequietudine senza sosta, fino al giorno in cui Vittorio Alfieri incontrerà “il degno amore”, la donna amatissima con cui rimarrà fino alla fine della sua vita e senza la quale anche l’ispirazione letteraria si spegne nei periodi di separazione.
Come la gran parte dei piemontesi dell’epoca, Vittorio Alfieri ha come madrelingua il piemontese. Giacché di nobili origini, ha appreso in modo dignitoso il francese e l’italiano, cioè il toscano classico. Quest’ultimo, tuttavia, risente inizialmente degli influssi delle altre due lingue che conosceva, cosa di cui lui stesso si rende conto e che lo porta a sfrancesizzarsi, o disfrancesarsi dopo la famosa “conversione letteraria”. Un percorso di acquisizione per niente facile, perché Alfieri deve intraprendere un periodo di studi durato anni quando non è più un ragazzino, per imparare con grande forza di volontà non soltanto l’italiano, ma anche la metrica ed essere in grado di stendere in versi tragici quello che gli ribolle nell’animo, e senza avere quasi modelli cui ispirarsi in Italia.
Si immerge dunque nella lettura dei classici in lingua italiana, si dà a compilare piccoli vocabolari d’uso in cui alle parole e alle espressioni francesi o piemontesi corrispondono “voci e modi toscani” e compie una serie di viaggi letterari a Firenze. Si dedica con impegno alla lettura e allo studio di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli e, prima, degli illuministi come Voltaire e Montesquieu: da questi autori ricava una visione convintamente anti-tirannica e in favore di una libertà ideale, al quale unisce l’esaltazione del genio individuale tipicamente romantica.
Vittorio Alfieri (1749-1803) e la “Vita”
Tutto questo lui ce lo racconta nella “Vita”, un libro suddiviso nelle quattro età – Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità. Proprio questa autobiografia è stato il libro “galeotto”, cui mi sono accostata in vista della preparazione del prossimo esame orale di letteratura italiana per il modulo didattico C, da affrontare dopo aver sostenuto lo scritto con successo.
Confesso peraltro di avere intrapreso la lettura di questo libro con quel filo di dovere sempre implicito negli studi, persino quelli condotti per passione come nel mio caso. Con la consueta implacabile organizzazione militare, nei ritagli di tempo ho cominciato a leggere il libro nell’edizione ricca di note consigliata dalla docente, un po’ incuriosita dal personaggio e un po’ distratta da mille altre incombenze. Avrei poi ascoltato le videolezioni scaricate dal sito universitario.
A scanso di facili entusiasmi che potrei aver già suscitato, dico subito che la prosa della “Vita” è abbastanza ostica, del resto siamo appunto a fine Settecento. È piena di incisi, con termini desueti, con una sintassi complessa e una punteggiatura ricca. Abituati come siamo a leggere di corsa persino la nostra lista della spesa, bisogna armarsi di santa pazienza e leggere lentamente e a piccole dosi, come sorseggiandola.
Non ne siete convinti? Ecco come inizia l’introduzione:
Il parlare, e molto più lo scrivere di se stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di se stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliardo d’ogni altra, l’amore di me medesimo: quel dono cioè, che la Natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti, ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai Poeti, od a quelli che tali si tengono. Ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell’uomo proviene, allor quando all’amor di se stesso congiunge una ragionata cognizione del proprj suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno.
Non proprio facile e immediato, e probabilmente un autore contemporaneo avrebbe scritto così: “Mi piaccio un sacco, fratello. A tal punto che voglio raccontarti le cose come stanno. Prima che lo facciano gli altri…” e via discorrendo, e magari applicando le regole di scrittura creativa tanto di moda di cui abbiamo parlato di recente. Comunque, proprio per la difficoltà della prosa, sono arrivata a fatica a due terzi del percorso, leggendo come se operassi con una sorta di setaccio, e quindi trattenendo la grana grossa dei fatti. Però mi piaceva… eccome se mi piaceva!
La voce dell’autore
Perché un’autobiografia con un incipit del genere, che esalta l’amor di se stesso (anche se all’epoca aveva un valore positivo nella scrittura di memorie), dà l’idea di un’autocelebrazione scritta da una persona a dir poco insopportabile.
Sì, Alfieri è un narcisista e la sua è una vita intensissima, avventurosa, bizzarra, ma per raccontarla usa un ingrediente irresistibile e niente affatto scontato persino oggi: l’ironia, e soprattutto l’autoironia. Ecco una serie di esempi: all’Accademia Reale di Torino le lezioni di filosofia sono definite “papaveriche” (cioè soporifere e che richiamano il papavero: lui crea neologismi icastici e fulminanti; o come “odiosamata signora” per riferirsi a Gabriella Falletto) dove tutti dormono inclusi gli insegnanti, causa noia della lezione svolta dopo pranzo e in piena digestione; le lezioni con il maestro di ballo francese lo iniziano a quest’”arte burattinesca” dove qualsiasi cosa è artificiosa a partire dalle movenze; compie la traversata delle Alpi con i suoi quattordici amatissimi cavalli, comprati all’estero, come un novello Annibale; scopre che Penelope Pitt, una donna sposata con cui ha una relazione (potete vederla in questo ritratto di Thomas Gainsborough), tradisce anche l’amante con un palafreniere, e lo rivela ad Alfieri in una scena che sembra tratta da una “sceneggiata” alla Mario Merola con grandi grida ed esclamazioni, furori e bollori.
È una voce che emerge viva dalle pagine della “Vita” con grande forza e seduzione, di piena e meditata abilità narrativa, dove spira il vento del Romanticismo soprattutto nella descrizione della propria interiorità e dei grandi paesaggi; sincera pur se selettiva e teatrale nel raccontare i fatti, e nello stesso tempo pudica e riflessiva, che si vergogna molto spesso delle proprie azioni e reazioni, ma non le nasconde al lettore. Tutto questo a me pare miracoloso… del resto, come scriveva lo stesso Alessandro Manzoni “C’è forse qualche cosa di più interessante e di più bizzarro dell’eroe e del narratore di questa storia?”
***
Allora l’appuntamento è con la conclusione nella newsletter di maggio dove vi rivelerò come si è snodata l’ultima parte di questo percorso che mi ha portato a fare amicizia con Vittorio Alfieri e soprattutto alla sorpresa finale che mi ha riservata.
A voi chiedo che cosa pensate di questo breve ritratto e se c’è stato qualche autore che, di recente, si è rivelato una piacevolissima sorpresa.
Cristina M. Cavaliere
Vittorio Alfieri, da quei pochissimi brani che ci fece leggere il professore di lettere alle superiori, mi parve subito ostico ma soprattutto non mi fece scattare nulla. Per dire: Boccaccio, il cui italiano è ancora più ostico per la distanza plurisecolare che ci separa da lui, mi pareva più interessante, tanto è vero che poi, finita l'università, lessi per conto mio il Decameron e ne rimasi davvero incantato.
Piacevoli sorprese recenti, no, ahimé, sono in pieno blocco del lettore. Probabilmente a causa di varie situazioni personali che mi hanno demoralizzato, mi sento svogliato a fare tante cose. Mi sono rimaste solo Yumi e Nana, creare le loro strisce è l'unica cosa che riesce a darmi voglia di fare, spero che non mi abbandonino pure loro se no mi resta solo da rinchiudermi in un convento.
Non c'è nulla da fare, quando non scatta subito la scintilla, non penso che potrebbe scaturire a posteriori. Boccaccio è un grandissimo, anch'io lo lessi anni fa ed è strepitoso per quanto è moderno. Speriamo che non finisca nelle maglie della censura del "politically correct", altrimenti dovremo mettere in cassaforte la copia che abbiamo!
Penso che se tu abbandonassi Yumi e Nana e ti rinchiudessi in un convento, le tue eroine verrebbero a molestarti. 😉
Mi hai fatto venire molta curiosità per Alfieri di cui non so/ricordo niente se non la questione del farsi legare alla sedia. Da cui evinco che anxhe lui aveva problemi di concentrazione. Comunque so di scrittori che usano programmi appositi per bloccare la connessione, magari limitatamente ad alcuni siti, allo scopo di non farsi distrarre.
Molto divertenti le parole bizzarre, che fanno ulteriormente rimpiangere il fatto che l'italiano è sempre meno teatro di nuove parole e significati.
Infine plaudo alla tua implacabile organizzazione militare! Vorrei esserne in grado anche io!
L'episodio del farsi legare alla sedia è celeberrimo, nella sua vita c'è spesso di mezzo questo domestico, Francesco Elia, che lo seguiva nelle sue imprese e scorribande. Tra l'altro una volta Alfieri gli aveva tirato addosso un candeliere, e il domestico lo aveva preso a botte!
Non sapevo che esistessero dei programmi per bloccare la connessione, io comunque silenzio il cellulare per parecchie ore perché è proprio il suono della notifica che mi disturba. Preferisco radunare insieme un gruppo di messaggi e di altre cose cui rispondere.
Per quanto riguarda la mia organizzazione militare, di recente sono stata paragonata al generale Figliuolo! 😀
Ricordo che a scuola mi colpì molto lo studio di Vittorio Alfieri, forse perché le tragedie mi colpivano in modo particolare, all’epoca il professore ci fece studiare il Saul che mi fece parecchio appassionare (in particolare per l’idea del suicidio finale e della libertà)…
Sei la prima persona che mi dice di aver studiato bene Vittorio Alfieri a scuola, di solito lo si salta proprio a pie' pari. Attualmente ho studiato questa sua autobiografia, ma la professoressa ci ha consigliato di prendere un altro volumetto di supporto, dove si parla anche delle sue tragedie e il Saul mi sembra una delle più avvincenti!
Dal periodo scolastico non ricordavo niente di Alfieri, quindi mi fa piacere recuperare qualche notizia su di lui, per di più in una veste così intrigante. Vado a leggermi la newsletter. 🙂
Il nome è riemerso con qualche difficoltà dalle nebbie del tempo trascorso :D, anche se sono sicura di non averlo mai studiato in modo approfondito.
Ho voluto fare un azzardo suddividendo il post e mettendo la seconda metà nella newsletter. Mi piace sperimentare forme nuove… 😉
Alfieri purtroppo, per lui ma anche per gli studenti, è uno di quegli scrittori e poeti che per come vengono insegnati nelle patrie scuole, finisce per venire odiato. Invece dietro c'è molto di più di quelle due o tre pappardelle che ti vengono rifilate da professori sempre meno motivati e sempre più disamorati del loro lavoro.
Infatti nelle videolezioni registrate ho avuto modo di assistere al dibattito finale con le domande alla docente, e tutti gli studenti sono rimasti piacevolmente sorpresi e colpiti dalla proposta di questo testo alfieriano. Nessuno si aspettava una lettura così appassionante e interessante!
Per non dire che è un autore estremamente intrigante anche dal punto di vista della sua costruzione come letterato che va di pari pari con l'acquisizione della sua identità come essere umano. Potrei definirlo un moderno "influencer", se non che questa parola potrebbe dare l'idea di mancanza di contenuti – cosa che non avviene per Alfieri perché in lui c'è un grande amore per la libertà e odio per la tirannide, del ruolo nobilissimo e civile della letteratura.
Alfieri è ingiustamente trascurato; gli si preferisce Foscolo, come tu hai giustamente osservato, ma per entrare nella dimensione tardo settecensca forse la Vita di Alfieri sarebbe un accesso più semplice per i ragazzi delle superiori. Ha una vivacità e un’ironia che prendono, colpiscono. Grazie per questo bel post! Aspetto il seguito!
Sono assolutamente d'accordo con te, Giacinta: Alfieri ha una "verve" indiscussa, una volta che si supera la difficoltà della prosa sembra di leggere davvero il resoconto di un romanzo di avventure. Che poi la critica si è esercitata per capire quanto quello che aveva scritto fosse autentico, e si è appurato che lo è quasi totalmente, solo che agli stessi episodi come la traversata del Baltico gelato ha voluto dare un taglio più epico e romantico. Per me, come per altri compagni, è stata una bella sorpresa. 🙂
Per quanto riguarda il seguito, lo trovi già nella newsletter di maggio. Non mi ricordo se sei iscritta, ma per farlo è molto semplice: basta che tu ti iscriva con nome e mail e riceverai subito tre racconti medievali omaggio. La newsletter ti arriverà una volta al mese senza troppi aggravi per la casella di posta… 😉
Ricordo di questo autore le epiche descrizioni che ne faceva Andrea Gareffi, docente della Facoltà di Lettere in cui studiai. Questo tuo post me lo fa ricordare in toto, le parole dello stesso Alfieri vibrano della stessa forza. Io non l'ho mai particolarmente amato, non me lo sono mai sentito nelle corde. Sarà che proprio Alfieri mi ritrovai durante l'esame, e la passione del professore ci cadde addosso come una gragnuola, pretese praticamente tutto.
Leggendo queste parole a distanza di tanti anni da quella esperienza, penso che da giovanissimi si perdano delle occasioni. Questione di sensibilità, di maturità senz'altro.
A me come autore si è rivelato come un gigante John Steinbeck.
Quello che dici è verissimo, e penso che sia inevitabile apprezzare un autore quando si ha più esperienza alle spalle. A me ha colpito leggerlo per una serie di coincidenze della vita di Alfieri rispetto alla mia… magari se lo avessi letto soltanto un paio di anni fa, in una condizione meno turbolenta, non mi avrebbe impressionato così tanto.
A volte mi capita di rileggere dei libri a distanza di molti anni e di trovarvi nuovi significati: è affascinante, se ci pensi! 🙂
Sì! Mi è capitato con "Jane Eyre" e "Possessione" di Byatt. Si schiudono scenari nuovi, si assaporano nuovi dettagli. È bellissimo. 🙂
Quando succede questo… significa che il libro è davvero una creatura vivente. 🙂