Una lezione dal passato
Brûler n’est pas répondre” (“Bruciare non è rispondere”) replica sdegnosamente il giornalista Camille Desmoulins all’indirizzo di Robespierre, e colui che si comporta in questo modo è “un despota”. Siamo nel 1794 durante una drammatica seduta nel Club dei Giacobini, potente associazione politica dove militano gli esponenti più intransigenti e radicali della rivoluzione francese.

Desmoulins ha appena pubblicato alcuni numeri del suo nuovo giornale, “Le Vieux Cordelier”, per criticare il governo e la politica del Terrore. “Sono anche convinto, che presso un popolo che legge, la libertà illimitata di scrivere, in ogni caso, anche in tempi di rivoluzione, non potrà essere sufficientemente protetta contro tutti i vizi, tutti i trucchi bricconi, tutti gli intrighi, tutte le ambizioni.” […] Libertà della stampa illimitata anche in tempi di rivoluzione? , perché non spetta in ogni caso a chi governa indicare al giornalista quello che egli deve censurare nei suoi articoli, dice Desmoulins.

Il furore iconoclasta nella Storia

Ebbene, in questi nostri tempi assistiamo al ritorno di uno dei più ricorrenti e pericolosi fenomeni storici, cioè la distruzione dei simboli della parte avversa. La Storia nel suo andamento ciclico ci offre innumerevoli esempi di “rieducazione” forzata, di messa a tacere, di rigurgiti d’intolleranza, di caccia alle streghe. Per ricordare soltanto i più celebri, posso citare la distruzione delle immagini sacre nella chiesa bizantina nei secoli VIII e IX, delle immagini religiose nelle Chiese cattoliche in Inghilterra ai tempi dei Puritani di Cromwell, i roghi dei libri e delle “vanità” (cioè gli oggetti di lusso e come tali considerati peccaminosi) durante la ierocrazia del frate domenicano Girolamo Savonarola nella Firenze di fine Quattrocento, la mutilazione delle tombe di sovrani ai tempi della rivoluzione francese in una nazione anticlericale, scristianizzata e con la schiuma alla bocca, i roghi di libri scritti da autori considerati depravati nella Germania nazista, la persecuzione e messa al bando di professori, medici, intellettuali, poeti e scrittori nella Cina di Mao, in nome della dittatura dell’ignoranza, la caccia alle streghe (leggi: i comunisti) negli Stati Uniti del senatore McCarthy.

 

Origine e sviluppo della cancel culture

Questo furore distruttivo ha assunto oggi l’aspetto di un movimento crescente denominato cancel culture o call-out culture originata dai paesi anglosassoni (cultura della cancellazione o cultura del boicottaggio) e che ha varie ramificazioni, più o meno subdole e ipocrite. La cancel culture vuole eliminare o modificare fatti e personaggi storici considerati indesiderabili secondo la sensibilità e la visione attuali; e finisce per provocare delle forme di autocensura negli scrittori e negli artisti.

Ne consegue che si attaccano figure di riferimento del passato isolando un aspetto della loro complessa azione politica (Winston Churchill, Abraham Lincoln), si prendono di mira opere letterarie selezionando soltanto passi controversi e sottraendoli al tempo storico in cui furono scritti e della società che ritraevano (drammi e commedie di Shakespeare, il romanzo “Via col Vento” di Margaret Mitchell). Non vengono risparmiate nemmeno alcune opere artistiche perché considerate offensive per le donne (i nudi di Egon Schiele), le composizioni musicali (le opere di Mozart qualificato come autore “bianco”) o i prodotti cinematografici (“Grease”, tacciato di sessismo e omofobia). Sono stati presi di mira persino alcuni dei classici cartoni animati della Disney come “Lilli e il Vagabondo” o “Dumbo”, dove sono state etichettate delle scene in nome del politically correct (di cui parlerò più avanti).

La cancel culture si è fatta particolarmente massiccia dopo la morte dell’afroamericano George Floyd il 25 maggio 2020, a seguito di un pestaggio della polizia di Minneapolis. In modo particolare negli Stati Uniti vi sono state ondate di legittima indignazione e protesta per evidenziare il gravissimo problema del razzismo e dei metodi brutali della polizia. A seguito di ciò, sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra si sono verificati numerosi episodi di iconoclastia volti a rimuovere statue o monumenti considerati simboli di un passato razzista e schiavista, come l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo. Da noi l’episodio più noto è stato l’imbrattamento con vernice della statua di Indro Montanelli a Milano per il suo passato colonialista.

Il volto minaccioso della cancel culture

Fatta salva la sacrosanta legittimità delle proteste per denunciare violenze e abusi (ma, ribadisco, del presente, non del passato) e invocare una società più egualitaria dove si tutelino le minoranze, la cancel culture sta assumendo sempre più un volto orwelliano nelle sue molteplici varianti, proprio come una sorta di virus dell’intolleranza.

La cancel culture estrae un frammento dalla fitta rete di relazioni che lo collegano alle svariate forme di attività culturali, civili e sociali del tempo in cui esso vive, snaturandolo. Prosegue facendo sprofondare ciascun elemento di collegamento nel buio, in modo da vanificare la sua importanza. Successivamente, dà via a una sorta di nuovo assemblaggio che in seguito essa porterà alla ribalta. Ciò che mostrerà a questo punto, infatti, sarà un brandello molto diverso dall’originale, una scheggia deformata destinata a essere osservata secondo un’inusuale chiave di lettura, ovvero quella che non ammette il pubblico dibattito.

Ne consegue che la cancel culture è promotrice di ignoranza – dell’ignoranza di chi non sa e di chi non vuole nemmeno sapere, e non vuole che altri sappiano – perché ostacola l’accesso ai prodotti culturali nella loro interezza, e dunque lo sviluppo dello spirito critico e del libero pensiero. Il risultato di questa operazione è un ingabbiamento del linguaggio e l’intimidazione del detrattore, favorendo soltanto il conformismo. Mira perciò a instillare un senso di profonda colpa per gli errori commessi, che secondo i suoi ideologi sono tutti imputabili a una sola fazione, sottratti come sono a qualsiasi contestualizzazione storica, politica e sociale.

 
 

Un parente stretto: il politically correct

La cancel culture è fortemente imparentata con il politically correct in quanto:

1. La prima è l’avanguardia aggressiva, la cosiddetta truppa d’assalto che prende di mira pezzi di cultura, li deforma secondo la sua visione dogmatica e li sottopone a processo con sentenza inappellabile, li etichetta oppure li elimina;

2. Il secondo è la compagine “liturgica” incaricata di dirigere la forma – una forma di solito esitante, neutra e piagnucolosa, all’insegna della contrizione e delle pubbliche scuse – che si appropria di quello che rimane, oppure lo prende e lo livella in modo omogeneo e conformista. (All’inizio di questo articolo ho menzionato il frate domenicano Girolamo Savonarola, il quale si serviva di gruppi di seguaci, solitamente fanciulli, che giravano per Firenze come una specie di squadra della “buon costume”. Tali seguaci venivano detti “piagnoni”, e la nomea spiega tutto).

Molto spesso il politically correct ammanta di un velo di ipocrisia l’argomento del dibattito, e ottiene l’effetto contrario a quello che si propone di fare, o sbandiera di voler fare: infatti, se c’è un pregiudizio, questo rimane ben radicato nell’animo. Il risultato è un appiattimento generale, un mondo senza colori e la perdita di qualsiasi spirito critico.

A Letter on Justice and Open Debate

Nei paesi anglosassoni la situazione si è fatta talmente grave che, nel luglio 2020, ben 150 scrittori – tra cui firme come J.K. Rowling, Margaret Atwood, Salman Rushdie – hanno redatto una lettera aperta diffusa sulla rivista Harper’s (A Letter on Justice and Open Debate). Si tratta di una denuncia dell’intolleranza culturale promossa dalla cancel culture e di una decisa difesa della piena libertà di pensiero e di parola. In replica alla lettera aperta di denuncia verso la montante intolleranza promossa dalla cancel culture, alcuni detrattori hanno sottolineato il fatto che i firmatari fossero tutti molto ricchi, famosi e soprattutto indenni da qualsivoglia critica nei loro riguardi.

Peraltro anche il cantautore Nick Cave ha denunciato con grande pacatezza come questa tendenza alla colpevolizzazione – nei confronti di personaggi, aziende o prodotti culturali – sia soffocante per la libertà di pensiero. Si tratta di una tendenza che, a suo dire, rischia di trasformare la società in “inflessibile, paurosa, vendicativa e priva di senso dell’umorismo.” Quale tratto distintivo della cancel culture egli ha parlato apertamente di “mancanza di compassione”.

Gli ha fatto eco Rowan Atkinson, meglio noto come Mister Bean, che ha sottolineato come un semplice algoritmo finisca per decidere che cosa dobbiamo vedere o meno in rete. Nel mio modesto orticello, io stessa ho sperimentato la dittatura dell’algoritmo che ha giudicato per ben due volte il mio booktrailer “Il Pittore degli Angeli” come avente contenuti non adatti ai minori per il semplice motivo che vi sono dei nudi femminili e maschili dell’artista Tiziano Vecellio.

 

E in Italia come siamo messi?

Forse sono troppo pessimista, e questo movimento integralista si sgonfierà come una bolla di sapone, o comunque non approderà sulle nostre coste. Però il giornalista Pierluigi Battista ne ha parlato a più riprese con grande senso di allarme. Il 4 aprile 2021 Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato l’articolo “Il nostro delirio suicida. Processare il passato”, dove ha saldato questo “movimento della negazione” ad alcuni elementi: la mera ignoranza della Storia per cui non si ricordano nemmeno i fatti più recenti, per non parlare di quelli più antichi; la progressiva emarginazione delle materie storiche nei curricula scolastici; la giurisdizzazione continua (cioè il voler ridurre qualsiasi ambito alla revisione in nome del diritto puro). Anche Alessandro Piperno in un articolo del 6 aprile 2021 ha difeso a spada tratta Philip Roth, giudicato misogino nella sua produzione letteraria.

Peraltro la cancel culture non è di stretta pertinenza di una destra tipicamente trumpiana, ma viene invocata, oltre che dai nostri sovranisti, anche da un’ideologia di sinistra “giacobina” e intransigente, per riprendere lo scorcio nella mia introduzione. Essa tende a suddividere il mondo in due grandi blocchi manichei di rivoluzionari e controrivoluzionari: o sei con me o sei contro di me, e ogni forma di dissenso è morto. Amen.

La Storia alla pubblica gogna

I processi storici sono fenomeni evolutivi che attraversano i secoli, per non dire i millenni, e ogni espressione politica, sociale, artistica; e non occorre essere uno storico professionista per comprenderlo. La Storia si segmenta a livello temporale soltanto per poterla studiare meglio, ma è come un fiume di volta in volta impetuoso o lento, ma che si muove sempre, e in cui siamo pienamente immersi.

Gli storici analizzano le fonti, le contestualizzano, le dibattono anche in modo acceso, ma in genere senza dare giudizi di valore se non nel loro privato (proprio per non costruire fazioni e contrapposizioni sterili che non aiutano). Quante volte sono letteralmente “saltata sulla sedia” leggendo come venivano – e vengono – trattate le donne e gli omosessuali, dei roghi e delle torture in nome della fede, dell’antisemitismo e delle persecuzioni, dello spaventoso fenomeno della schiavitù, della miseria e tutto il campionario di cui la Storia umana è abbondantemente provvista! Ma comprendere, o almeno sforzarsi di farlo senza ergersi a giudice, dovrebbe essere buona norma.

Misurare la Storia con l’ottica del presente è dunque un errore gravissimo, perché quello che era perfettamente concepibile in un’epoca può non esserlo più oggigiorno, così come i nostri pronipoti potrebbero inorridire davanti ai nostri usi e costumi. Proviamo a pensare: come ci “giudicheranno” i posteri nell’apprendere che mangiamo carne animale? Potremmo essere tacciati di cannibalismo?

Cerchiamo di migliorarci nel presente, e non mutilando il passato; anzi, partendo proprio da quest’ultimo. Rispettiamo il prossimo e le altrui opinioni evitando offese e insulti, rappresentazioni stereotipate, irrisioni rispetto alla razza (concetto che peraltro non esiste, biologicamente parlando), all’aspetto fisico, alla disabilità o al genere. Questo è il vero punto di partenza, non un revisionismo pericoloso, prosciugante e dogmatico.

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E voi che cosa pensate della cancel culture e del politically correct? Mi piacerebbe molto avere la vostra opinione questo proposito.
Cristina M. Cavaliere
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Fonti:
 

John McDermott, Those People We Tried to Cancel? They’re All Hanging Out Together, su The New York Times, 2 novembre 2019.

What It Means to Get ‘Canceled’, su www.merriam-webster.com.

Che cosa è la cancel culture, al centro di un grande dibattito sulla libertà di espressione, su Il Riformista, 14 luglio 2020.

Louisa Shepard, Cancel culture on the silver screen, su Penn Today, 23 luglio 202

Nick Cave e gli altri: quando il politically correct è “la più infelice delle religioni”, su L’HuffPost, 17 gennaio 2021.

A Letter on Justice and Open Debate, su Harper’s Magazine, 7 luglio 2020.

A More Specific Letter on Justice and Open Debate, su www.objectivejournalism.org, 10 luglio 2020.

Alessandro Piperno, Philip Roth perché lo difendo (e difendo la letteratura, su La Lettura, Corriere della Sera, 6 aprile 2021.

 

Immagini Wikipedia – Uomo e meccanismo: Pixabay