La schiavitù ha una storia antica, ma è solo nel XVIII secolo che il traffico di esseri umani raggiunge il suo culmine. Questa rubrica non ha l’autorità o lo spazio necessari per condurre un’ampia disanima sulla schiavitù, ma vorrei comunque proporvi un raccordo tra il passato e le forme che la schiavitù ha assunto ai giorni nostri e a poca distanza da casa.
Per farlo è necessario compiere un passo indietro e ricordare quale fu il prodotto di piantagione che, sin da subito, aveva alimentato in misura impressionante la tratta di milioni di esseri umani dall’Africa alle Americhe nonché la cosiddetta “economia di piantagione“, come viene definita dagli studi di storia economica. Non si tratta delle piantagioni di cotone che tanta parte hanno nei film hollywoodiani e nel nostro immaginario collettivo, ma di un prodotto che arrivava sulle tavole dei consumatori europei, un vero must, inducendo una forma di dipendenza gustativa e che diventa alla portata di tutte le tasche: lo zucchero.
I primi laboratori per la sperimentazione dell’economia schiavile vengono allestiti dai portoghesi in seguito ai primi viaggi di esplorazione, e nello specifico dopo l’occupazione di Ceuta (1415), sul versante africano dello stretto di Gibilterra, la presa di possesso delle isole atlantiche di Madeira (1419) e, a metà del secolo, delle Azzorre e di quelle di Capo Verde e São Tomé al largo della costa africana. L’esplorazione portoghese si conclude alla fine del secolo quando viene oltrepassato il Capo di Buona Speranza.
Dapprima interessati soltanto all’oro, all’avorio e pepe, i portoghesi compiono un salto di qualità con l’introduzione della produzione di canna da zucchero nelle isole dell’Atlantico, dove sviluppano compiutamente l’economia di piantagione. Si tratta di un’unità economica diretta dal proprietario della terra e degli schiavi, fondata sulle monoculture (all’inizio di canna da zucchero, appunto, poi di tabacco, caffè, cacao, cotone). In particolare proprio la produzione di canna da zucchero prevede sia il lavoro agricolo, sia quello manifatturiero: si necessita infatti della presenza di una manodopera numerosa e robusta, e di un’attività ininterrotta e stremante. La pianta ha un ingombro notevole e deve essere trasformata sul posto attraverso l’estrazione del succo e l’eliminazione dell’acqua al fine di produrre melassa e zucchero cristallizzato.
La Spagna si muove per prima in direzione dell’America e, dopo aver occupato Hispaniola, in pochi decenni gli spagnoli estendono il loro dominio territoriale nei Caraibi (Cuba e Portorico) e poi nell’America centrale e meridionale con la conseguente distruzione di civiltà millenarie. L’importazione dei primi schiavi in America è da collegare con l’avvio della produzione di canna da zucchero, a Hispaniola nel 1517 e altre aree, tra cui Cuba. Successiva è la politica del Portogallo: al loro arrivo in Brasile, i portoghesi istituiscono basi mercantili lungo le coste con compiti di difesa militare e colonizzazione. per organizzare anche loro l’economia di piantagione di canna da zucchero. L’introduzione della coltura come, ad esempio, Bahia e Pernambuco, fa del Brasile il primo grande esportatore di zucchero in Europa nel Cinquecento.
Nel 1575, l’agronomo francese Olivier de Serres osserva che un ortaggio comunissimo e ampiamente coltivato, prevalentemente a uso foraggio, la barbabietola (Beta vulgaris), se cotto produce uno sciroppo simile a quello della canna da zucchero, molto dolce. L’osservazione rimane tuttavia lettera morta e lo zucchero di canna rimane l’unico disponibile ancora per molto tempo. Nel giro di un secolo, tra il 1640 e il 1750, il consumo della sostanza triplica incentivando il fenomeno della tratta degli schiavi dall’Africa, catturati e deportati per lavorare nelle piantagioni.
Dovete immaginarvi, quindi, la vista dello zucchero sulle tavole come una vera festa. Le rivoluzioni del 1789, fra Parigi e Santo Domingo, portano poi alla liberazione degli schiavi nelle colonie francesi… ma di questo vi parlerò in un altro post perché molto attinente all’argomento di questa rubrica. La domanda di fondo è se gli europei fossero consapevoli che quell’alimento tanto dolce era prodotto dalla fatica e dallo sfruttamento di tanti esseri umani che venivano rapiti o venduti e trasportati sulle navi negriere come bestiame, trattati peggio degli animali, spesso torturati e uccisi.
C’è un parallelismo con la situazione odierna, dove a volte consumiamo degli alimenti, come i pomodori, e spesso sospettiamo che possano provenire da coltivazioni dove nel nostro Meridione braccianti spesso africani (ma non solo) abitano in baracche fatiscenti, prive dei servizi più elementari, lavorano sotto il sole per pochi euro e vengono sfruttati esattamente come nel passato. Non sono venduti, ma poco ci manca: ho visto dei reportage dove c’erano dei punti di ritrovo con qualcosa di simile alla compravendita. Le stragi ripetute dei braccianti nel foggiano nell’agosto 2018 hanno riproposto in maniera drammatica le condizioni terribili nell’esistenza di queste persone, senza speranza alcuna di miglioramento.
Mi pongo il problema, ma non so come risolverlo, perché non è sufficiente conoscere la provenienza del prodotto per capire se la raccolta è stata fatta rispettando i diritti elementari degli esseri umani. Lo stesso discorso si potrebbe fare per i capi di vestiario, o gli oggetti tecnologici da cui tanto dipendiamo e che provengono da fabbriche lontanissime, o assemblati nei loro componenti, in un mondo sempre più globalizzato e privo di diritti. In passato ho attuato forme di boicottaggio dei prodotti di note aziende come la Nestlé ad esempio, perché sugli organi di stampa erano emerse situazioni di sfruttamento e perseguimento del profitto a discapito di fasce sociali deboli.
Non sono discorsi da radical-chic. Al di là di un elementare senso di giustizia, bisogna sempre pensare che oggi tocca a loro e domani a noi, o ai nostri giovani… o forse sta già accadendo.
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Vi ponete a volte delle domande sulla provenienza di ciò che consumate oppure vi è capitato di attuare forme di boicottaggio di alimenti?
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Fonte testo:
La schiavitù in età moderna di Patrizia Delpiano
Wikipedia per il passaggio sulla barbabietola da zucchero
Fonte immagini:
Wikipedia per le immagini storiche
© ANSA per le fotografie dei braccianti
Io frequento qua a Savona La bottega della solidarietà. Zucchero, caffè, pasta, cioccolato, e altro ancora, li acquisto lì.
Mi sembra un ottimo sistema avere dei negozi come punti di riferimento per l'acquisto almeno di determinati prodotti.
Io me lo pongo spesso pensando anche al cioccolato… Da noi è onnipresente ormai, ma è un prodotto di importazione. Eppure costa pochissimo… grazie ai prezzi stracciati pagati ai coltivatori africani. Io preferirei pagarlo di piu e sapere che i coltivatori africani ci guadagnano qualcosa.
Anche il cioccolato è qualcosa di cui non si riesce fare a meno. Se ci pensi anche i nostri coltivatori e allevatori in Italia guadagnano pochissimo rispetto alla lunga filiera di passaggio con cui i prodotti arrivano sulle nostre tavole.
Io me lo pongo senza molte soluzioni ogni qual volta scopro che la batteria del telefonino, ormai integrata, le scarpe piuttosto del pallone cucito a mano… sono frutto dello sfruttamento di altri esseri umani considerati ancora schiavi. E mi sento in colpa. Credo che siano davvero pochi gli elementi che non si basino su questo sistema, ed è tristissimo a partire dalla storia che hai raccontato che molti degli ingredienti di uso quotidiano derivino proprio dallo sfruttamento altrui.
Tempo addietro avevo notato che sul cartellino dei capi di vestiario non c'era più scritto Made in China, ma Made in RPC che poi è un astuto acronimo per Repubblica Popolare Cinese. Magari uno non ci fa molto caso, acquistando in fretta. Anni fa avevo letto "No logo" di Naomi Klein che parlava proprio delle cosiddette fabbriche-rondine in Asia, che oggi ci sono e domani no, e dove i lavoratori hanno orari di lavoro da schiavitù, non godono di alcun diritto e dove c'è la proibizione di associarsi in sindacati. Penso che questo libro sia ancora tristemente attuale.
Mi pongo il problema, soprattutto dopo aver letto Gomorra, ci sono alcuni capitoli che spiegano molto bene il meccanismo connesso a certe merci, in particolare i capi firmati che spesso sono legati allo sfruttamento di lavoratori sottopagati e sfruttati, non mancano gli italiani però. La schiavitù esiste sempre laddove c'è un interesse economico, forse gli stessi lavoratori sottopagati dei call center o di altri posti di lavoro senza garanzie e assicurazioni costituiscono una forma di schiavitù…Riguardo alla raccolta dei pomodori, credo che la forma di schiavitù sia il fatto che questi ragazzi africani vengano relegati in baracche fatiscenti senza i servizi minimi come in un ghetto…mio padre ha lavorato spesso per la raccolta di pomodori per arrotondare le magre entrate della famiglia, la paga era di 50.000 lire (le vecchie lire italiane) al giorno e con quella cifra doveva versarsi anche i contributi, se ci pensi è la stessa paga che danno oggi ai braccianti africani, 3 euro l'ora per otto ore di lavoro, l'equivalente di 24 euro. Mio padre diceva che nessun giovane voleva più fare il bracciante agricolo perché era un lavoro massacrante, come dargli torto? Il vero problema non è solo la paga bassa, ma la mancanza di tutele che per gli italiani forse ci sono un po' di più, mentre questo disperati senza alternative possono essere sfruttati e non avere una vera tutela in caso di malore o incidente. È davvero molto triste. Io cerco di comprare i prodotti equosolidali, ma non credo basti…
Non ho letto il romanzo di Saviano, ma avevo visto il film e ricordo la scena con i capi firmati realizzati nei laboratori cinesi. Anche le categorie che citi dei lavoratori nei call centre sono del tutto paragonabili ai moderni schiavi, e aggiungerei anche chi consegna i pasti a domicilio. Non posso certamente paragonarmi a loro, ma come lavoratrice con contratto a progetto non ho nessuna forma di indennità relativa a malattie o ferie pagate, come a dire che non posso mai ammalarmi… anzi, non devo permettermi nemmeno di pensarlo perché ne andrebbe delle consegne! Si tratta di una delle molte storture relative alla nostra legislazione sul lavoro, come quella delle partite IVA che, nello stesso modo, non hanno nessuna forma di tutela.
In merito ai braccianti del nostro Meridione, i motivi per definirla come una schiavitù sono davvero molteplici e anche i luoghi dove vivono sono dei veri e propri ghetti privi dei più elementari servizi igienici, con un alto tasso di affollamento abitativo. Non parliamo poi delle paghe miserrime, a stento sufficienti per vivere. Tu stessa mi hai portato l'esempio di tuo padre.
Poni un problema molto serio, a cui è difficile trovare una soluzione. Quando posso cerco di evitare la grande distribuzione, ma anche il più attento dei negozianti a volte non sa dirti vita, morte e miracoli di un prodotto. Il Km0 è una filosofia molto bella, ma persino per me che vivo in campagna, ho l'orto dietro casa e un partore di fiducia non è applicabile per molti prodotti e per molti mesi l'anno. Se poi passiamo all'abbigliamento e alla tecnologia c'è da mettersi le mani nei capelli. Il fatto di non sapere quanta sofferenza ci sia in questo momento in ciò che indosso è già di per sé inquietantissima.
Il problema è molto complesso, esattamente come quello delle migrazioni. Si possono effettuare scelte come acquirenti consapevoli, ma non sempre è possibile farlo. Di solito le questioni emergono quando "scoppia il bubbone" come quello relativo ai palloni della Nike cuciti dai bambini. Probabilmente i prodotti di cui sappiamo meno sono proprio quelli relativi ai nostri adorati gingilli tecnologici, come computer, tablet e smartphone…
Se non lo conosci, ti consiglierei di leggere il racconto di P.K. Dick "Un certo tipo di vita", che tratta un altro aspetto dell'argomento in maniera piuttosto esemplare: la guerra a scopo commerciale.
Ho diverse opere di Dick a casa, e quindi può essere che lo abbia letto molti anni fa quando leggevo quasi solo questo autore. Farò una ricerca, grazie del consiglio! ^_^
Le domande me le pongo, ma non rispondo in modo coerente. C'è stato un periodo in cui sceglievo i prodotti al supermercato controllando una lista che eliminava quasi tutte le marche presenti sugli scaffali. Non ho resistito per molto. Spesso sotto un marchio apparente si celano comunque le grandi multinazionali tipo Nestlè. Non è semplice, eppure è importante.
Si cerca di fare del proprio meglio, anche se spesso ci si sente come dei nani che combattono contro dei colossi. Anzi, peggio, contro qualcosa di tentacolare e pervasivo che invade le nostre esistenze. Ben vengano quindi i reportage di denuncia, ricordo "Report" quando parlava dei lavoratori cinesi del tessile vicino a Prato.
Io ho studiato in passato abbastanza approfonditamente l'emigrazione italiana in Australia. Prima della guerra, parte dei nostri immigrati venivano utilizzati nelle piantagioni di canna da zucchero in condizioni di estremo disagio. E spesso cadevano vittime di una malattia mortale chiamata morbo di Weil, provocata dall'urina dei ratti attraverso le ferite sulle mani.
I proprietari terrieri impedivano che si bruciassero le canne, procedimento che eliminava il rischio di contrarre la malattia, perché significava una diminuzione del 10-15% della produzione di zucchero da parte della canna. Finché nel 1934, nel Queensland settentrionale, un italiano di nome Carmagnola guidò una rivolta con i braccianti che rovesciavano i camion carichi di canna. La rivolta si propagò poi a macchia d'olio finché l'anno dopo, nel 1935, un tribunale dette ragione ai braccianti e impose che da allora in poi le canne venissero bruciate prima di essere lavorate.
Ti ringrazio molto della tua testimonianza così completa, Ivano, ci sono episodi di cui si sa molto poco. In effetti, quando studi a fondo storia economica come sta accadendo ora a me per un esame universitario (il titolo del volume è, significativamente, "Potere e ricchezza") ti rendi conto di come alla base degli aumenti nei profitti ci siano storie di grandi ingiustizie, ma anche di strenue lotte per arrivare a ottenere un minimo di diritti. Basta pensare al lavoro infantile nelle miniere in età vittoriana: i bambini venivano mandati nei cunicoli stretti e bui perché con la loro corporatura minuta riuscivano a infilarsi dove gli adulti non arrivavano.
Tema importantissimo e ahimè del tutto attuale. La schiavitù è un argomento assai trattato a scuola, a volte mi ritrovo in classi dove si può ampliare il discorso per un confronto con la schiavitù contemporanea, che tu citi.
La schiavitù ha di fatto assunto un aspetto del tutto nuovo e facilmente confondibile. Ultimamente ho visto una puntata di Report in cui si parlava della provenienza della stoffa prodotta dalla Cina a paesi come Bangladesh, Turchia, ecc.
Un jeans di Armani, del costo anche di 200-300 euro, in realtà alla fonte costa meno di 20 euro, perché trattato in questa penosa economia schiavile che sfrutta una manodopera quasi a costo zero. Grandi firme ma anche marchi di abiti più alla portata. Insomma, quasi tutto il mercato tessile è legato a questa amara realtà.
Grazie della tua osservazione, Luz, come sempre molto ampia e particolareggiata. Mi fa piacere che a scuola se ne parli, è utile anche per aiutare a sviluppare una coscienza negli studenti. Paradossalmente, nei manuali cronologici universitari di storia ha meno spazio di altri avvenimenti; bisogna proprio andare o sulla monografia (come quella da cui ho desunto il materiale per l'articolo, che ho portato all'esame di Storia moderna) oppure sui volumi di storia economica dove ha, ovviamente, ampio spazio.
Come dici, purtroppo i prodotti da schiavitù contemporanea invadono i nostri mercati, introducendosi in più settori commerciali. Per la fretta che contraddistingue il nostro tempo, spesso non ci poniamo il problema di chi li abbia fabbricati. Anch'io avevo visto una trasmissione di Report sull'argomento. In un passaggio si parlava dei jeans, che nei paesi nordafricani come la Tunisia venivano "trattati" dai lavoratori in modo da far assumere quella scoloritura che va molto di moda e che paghiamo molto cara. Il problema è che l'uso degli acidi è estremamente nocivo, e lo eseguono senza nessun tipo di protezione.