I motti sono affascinanti, perché equivalgono ai nostri moderni slogan. Sono frasi programmatiche che un tempo appartenevano a un nobile o anche a un’intera famiglia e, dipinti o incisi sullo scudo, esprimevano la forza e la superbia dell’individuo o del casato. Altri hanno un andamento musicale o si presentano oscuri come enigmi da sciogliere, al pari di quello che recita “Caeruleus candidus vincet” cioè “L’azzurro vincerà” (che potete vedere nello stemma tratto dal sito The Cambridge University Heraldic & Genealogical Society). Converrete con me che il latino conferisce loro solennità, anche se si ignora la lingua, come nel mio caso, e dunque non se ne coglie appieno il significato.

Ma qual è l’origine di questa usanza che si è andata consolidando nel tempo insieme agli altri elementi che compongono lo stemma? Ho trovato una spiegazione piuttosto interessante da parte dell’enciclopedia Treccani nell’ambito della definizione dell’Araldica – altro argomento sterminato e complicatissimo. Nella specifico essa riguarda gli ornamenti accessori dello scudo:

Si annoverano tra gli ornamenti accessorî dello scudo i motti e i sostegni o tenenti. I motti, detti anche divise, sono brevi detti che vengono scritti per lo più in lettere maiuscole romane sopra liste bifide e svolazzanti, poste sotto la punta dello scudo. Pare che la loro origine sia da ricercarsi nell’uso di adornare con un detto arguto i vessilli che prima del torneo si solevano esporre alle finestre della casa comunale o degli alberghi dove erano alloggiati i cavalieri. Negli stemmi, essi si trovano usati fin dal sec. XIV. Erano lasciati alla libera scelta del portatore dello stemma, il quale vi esprimeva un concetto che fosse in relazione alla sua attività o alle sue speranze. Ma presto divennero ereditarî, come tutte le altre parti dello stemma. La maggior parte sono in latino, ma sono assai frequenti anche in altre lingue. Alle volte, sono indicati con le sole lettere iniziali delle parole che li compongono: e allora sono dei veri e proprî indovinelli. […] Dai motti si distinguono i gridi d’armi, i quali furono usati anche in tempi antichissimi. Constano di un piccolo numero di parole, spesso d’una sola parola, e si pronunciavano durante i combattimenti, per incitare i guerrieri e a scopo di riconoscimento. 

Perfino le città molto spesso di fregiavano di un motto, da apporre sullo stemma o sul gonfalone comunale e da esibire orgogliosamente durante le processioni. Com’è ovvio, si faceva a gara tra coloro che esibivano le più alte virtù civiche della città. Esistevano, ed esistono, anche i motti politici, come quello celeberrimo di Liberté, égalité, fraternité proclamato durante la Rivoluzione francese. In questo senso, il motto somiglia davvero a uno slogan… Ma non divaghiamo, perché i motti strettamente intesi sono tantissimi. Da questo florilegio ne ho colto alcuni che mi hanno particolarmente colpito, accompagnati da una spiegazione da chi lo adottò e sulle ragioni della scelta.

Vediamo se piacciono anche a voi!

Aut Caesar aut nihil
(latino: “O Cesare o nulla”)

Era il motto di Cesare Borgia, detto il Valentino (1475 circa-1507), che qui potete vedere in un ritratto di Altobello Melone all’Accademia Carrara. Era figlio illegittimo di papa Alessandro VI Borgia, cardinale e condottiero. Il motto è la reminiscenza di un detto attribuito a Giulio Cesare che preferiva esser primo sia pure in un villaggio delle Alpi che secondo in Roma, e bene esprime l’ambizione di questo personaggio che pare essere stato la figura ispiratrice de Il Principe di Niccolò Machiavelli. Come a dire che aveva un ego piuttosto sviluppato…

Fluctuat nec mergitur
(latino: “È sbattuta dalle onde ma non affonda”)

Questo è il motto della città di Parigi. Fluctuāre significa “ondeggiare”, “essere in balia dei flutti”. Lo stemma che accompagna questo motto raffigura una nave – chiamata Scilicet – che galleggia fra i flutti. Chiunque conosca almeno un po’ la storia di Parigi converrà che mai parole furono più appropriate per definirla. Parigi non fu solo il motore irradiante della grande Rivoluzione, ma una capitale cui molti re in precedenza non vollero mai dare troppe autonomie e privilegi, a differenza di altri centri più periferici, proprio perché diffidavano della sua anima ribelle. Ricordo brevemente anche l’esperimento politico della Comune di Parigi del 1871 e anche gli attentati del 2015 che hanno mostrato la sua forza di reazione e la fierezza per i suoi valori democratici. In qualsiasi momento, sono convinta che questa splendida città, pur in mezzo alla tempesta, saprà sempre approdare al porto sicuro.

Vrai amour ne se change
(francese antico: “Il vero amore non cambia”)

Uno dei più antichi e misteriosi motti è questo, scelto da Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444). Dapprima fu scelta l’immagine della calendula (o della margherita), seguita da quello della tortora, accompagnata da Vrai amour ne se change, entrambe riprese anche da Ludovico III Gonzaga. Nell’effige una piccola tortora si è posata su un ramo secco e curvo attorno a una pozza. La tortora è emblema dell’amore e della fedeltà coniugale e, dopo essere rimasta sola, si abbevera soltanto a pozze torbide affinché la sua immagine riflessa non le ricordi il compagno perduto.

Purtroppo non ho trovato un’immagine decente da proporvi, ma si può scovare l’ideatore di questo splendido motto in uno dei luoghi visivamente e artisticamente più belli che abbiamo in Italia, e cioè la Camera degli Sposi del castello di San Giorgio a Mantova. Il pennello di Andrea Mantegna ha dipinto, tra gli altri soggetti, la scena dell’incontro tra il marchese Ludovico, ritratto sulla sinistra, che va incontro al figlio, il cardinale Francesco. La potete ammirare qui sopra. Tra gli adulti vi sono due bambini ritratti di profilo, e Gianfrancesco è il primo sulla sinistra, mentre il bimbo vestito di bianco è il fratellino Sigismondo. Una scena di famiglia che viene ritratta in modo magistrale anche per quanto riguarda la psicologia dei personaggi.

Elephas indus culices non timet
(latino: “L’elefante indiano non teme le zanzare”)

Questo motto è davvero curioso ed era quello di Domenico Malatesta (1417-1468). Si trova scolpito o inciso in più luoghi della Biblioteca Malatestiana di Cesena, come potete vedere nell’immaginare qui a lato.  L’espressione indica che chi è forte non si cura delle meschinità e delle piccinerie tipiche dei deboli, ed è stato sovente utilizzato nella storia per spiegare il fatto che un governante non sempre ha bisogno di combattere e perseguitare i propri oppositori. Una seconda spiegazione ne situa l’origine quale segno di altezzosa derisione nei confronti dei tradizionali nemici, i Da Polenta di Ravenna, città piena di zanzare.

Vipereos mores non violabo
(latino: “Non violerò le usanze del serpente”)
Dopo l’elefante è la volta del biscione più famoso d’Italia, e naturalmente il più famoso che abbia strisciato da queste parti. In una rassegna di motti non potevo certo scontentare i Visconti, o potrei pagarla cara. E dunque rieccolo qua, con tanto di traduzione. Devo dire che il significato è inquietante al massimo grado… non trovate? Assomiglia davvero a una sorta di patto col diavolo.
Qui inoltre potete trovare un sito con un elenco di motti in italiano, latino, francese, spagnolo, catalano, tedesco, dialetto e persino lingue sconosciute… c’è di che sbizzarrirsi! Da questa sorta di deposito vi propongo i seguenti motti:
Benché gelida sia gorgoglia e bolle
Si tratta di un vero e proprio indovinello, perché è il motto presente nello stemma della famiglia Fontana.

À Dieu seul je m’areste
In questo caso siamo di fronte a un gioco di parole rispetto al cognome della famiglia francese Mareste.

Cara fe’ m’è la vostra 
Possiamo trovare lo stesso gioco di parole per indicare la famiglia italiana Carafa, da cui provenne papa Paolo IV Carafa, “quello” che istituì l’Indice dei Libri Proibiti.


I miei personaggi e il loro motto

Anch’io, del resto, ho ben due personaggi con il loro motto: il primo è autentico, il secondo è di fantasia.

Nel romanzo Il pittore degli angeli il celebre Tiziano Vecellio, che gode ormai di una grande agiatezza ed è colmato di favori al punto da ricevere il cavalierato dall’imperatore Carlo V, ha adottato una “impresa“, cioè uno stemma recante il motto Natura potentior ars. Nello stemma è l’immagine dell’orsa che dà forma al suo cucciolo leccandolo. Questa raffigurazione si riferisce a un’antica leggenda, secondo la quale i nati dell’orsa sono informi, ed è la madre stessa a modellarli in quel moto, non diversamente dall’artista che migliora la natura dando forma alla sua grezza materia. Tiziano simboleggia il primato dell’arte sulla natura.

Anche il personaggio che campeggia sulla copertina del mio romanzo Le strade dei pellegrini ha un motto: Nihil est sicut apparet, cioè “Niente come appare”. Si tratta del cavaliere fiammingo Geoffroy de Saint-Omer, cofondatore dell’ordine templare insieme con Hugues de Payns. Non si sa nemmeno con certezza se sia esistito, o se avesse un altro nome. Nella copertina ho fatto dipingere il motto in un cartiglio sotto le zampe del cavallo per dargli meno importanza rispetto allo stendardo con la croce. Nell’epoca in cui Geoffroy si trova a vivere, quella del 1095, non era ancora invalso l’uso del motto nel casato, e per la verità si tratta un motto bizzarro, quasi moderno: ho voluto renderlo particolare come lo è lui.


***

Bene, spero che il post vi abbia incuriosito. La vostra città o il luogo dove abitate ha un motto? Quali altri motti celebri vi vengono in mente?

***

Fonti testo:
Enciclopedia Treccani online
Tiziano “l’arte più potente della natura” – Universale Electa Gallimard


Fonti immagini:
Wikipedia