Sì, sì, lo so che il blog è ufficialmente chiuso, ma non ho resistito alla tentazione di partecipare all’edizione 23 di “Insieme raccontiamo” (qui il regolamento), iniziativa proposta ogni mese sul blog di Patricia Moll. Per chi non lo sapesse, Patricia propone un incipit che i partecipanti completano con la loro fantasia, rimanendo nell’ambito di 300 parole.

Con un incipit come quello che ho letto, che parla di “penna d’oca” e “scrittura piena di svolazzi”, come facevo a resistere? Quindi riapro la saracinesca e, sul fil di lana visto che oggi è l’ultimo giorno, pubblico il mio contributo.

L’incipit di Patricia è il seguente:

Aprì la busta e ne estrasse un foglio ingiallito dal tempo. Piccole macchie di inchiostro lo segnavano. Forse era scritta con la penna d’oca. La grafia era decisamente d’altra epoca piena di svolazzi. Bei tempi quelli in cui ci si inviava missive!
Inforcò gli occhiali, lo aprì, sedette e lesse.

e la foto Pixabay è questa:

Ed ecco il racconto completo, con una dedica particolare a Elisabetta Santangelo, e Clementina Daniela Sanguanini che me l’ha fatta incontrare:

Aprì la busta e ne estrasse un foglio ingiallito dal tempo. Piccole macchie di inchiostro lo segnavano. Forse era scritta con la penna d’oca. La grafia era decisamente d’altra epoca piena di svolazzi. Bei tempi quelli in cui ci si inviava missive!
Inforcò gli occhiali, lo aprì, sedette e lesse.

Sorrise nel riconoscere la sua scrittura, infantile e nervosa. Era l’espressione del suo carattere, uno zolfanello pronto a incendiarsi per un nonnulla. Lui era alto e magro, e vestiva perennemente di nero, con i capelli corvini sciolti sulle spalle, gli occhi scintillanti. Possedeva una bellezza bizzarra ed efebica, seducente per uomini e donne.

Solo che era morto. Morto da molti anni.

Tutto era cominciato con un disegno. Il disegno di un fiore tracciato con mano esitante. Le ricordò, poi, di essere stato più abile nell’uso della sua penna acuminata, quella con cui scriveva il suo giornale. Aveva proseguito con brevi messaggi, e quindi lunghe lettere, che le faceva trovare nei luoghi più inaspettati della casa.

Le scriveva di quanto l’aveva amata e, pure, quanti piccoli e grandi tradimenti avesse perpetrato quando lei era stata sua moglie. La rivoluzione, che li aveva macinati come grano, li aveva riavvicinati nell’estrema sofferenza.

Lei intuiva che quella lettera sarebbe stata l’ultima, e la leggeva con avidità mista a malinconia.

In quel mentre, sul davanzale della finestra aperta si posò un uccello. Lei alzò gli occhi: era un grosso uccello marrone dal ciuffo spettinato. Rise: era il più brutto volatile che avesse mai visto. Lui la fissò con l’occhio, rotondo come uva passa, e si mise a cinguettare. E, dall’impianto stereo si levò, soavemente, una musica: era la scena finale de Le Nozze di Figaro di Mozart con la richiesta del perdono.

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L’uccello cantò fino alla fine, e Lucile si sentì parte di un momento di pura bellezza.

Sopravvenne il silenzio. Lei disse: “Ti perdono, Camille. Amore mio, io ti perdono.” Come se non avesse atteso altro, l’uccello inclinò la testa e le inviò uno sguardo lucido di gratitudine.

Quindi scomparve nel cielo azzurro, con un frullo d’ali e in una goccia di sole.