Il titolo del romanzo L’ora di tutti di Maria Corti da enigmatico diventa struggente non appena se ne comprenda il significato. Si tratta di un importante romanzo storico del 1962 della scrittrice e critica letteraria milanese, ma salentina d’adozione, scomparsa nel 2002. Esso scavalca il genere cui appartiene per diventare una vicenda che riguarda qualsiasi epoca. Ci affezioniamo ai suoi protagonisti anche grazie a uno stile che definirei ineguagliabile; ciascuno di loro si esprime con la voce di uno strumento musicale, e concorre a comporre le pagine di una vera e propria partitura sinfonica.

Sinfonica ma anche pittorica nei colori. Già l’avvio della vicenda stende a grandi e intense pennellate il ritratto del paesaggio pugliese nei dintorni della città marinara di Otranto, che ancora oggi possiamo ammirare immutato. “Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza, con i bastioni a picco sull’acqua, ma dietro la vuota abbondanza di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti tufacei. In queste viuzze i fatti della storia sono rimbalzati, come pomi maturi, da un secolo all’altro e giunti fino a noi: qui le palle delle bombarde turche, scagliate cinquecento anni fa, reggono i gradini d’accesso alle case o adornano la soglia al ‘salone” del barbiere, all’ufficio postale, situate ai due lati dell’ingresso. (…) Gravando sulla roccia con il peso dei suoi muri romanici, la cattedrale è il cuore di Terra d’Otranto, perché dentro ci sono Loro, in fondo all’abside, a destra, come il nocciolo in un frutto.”

Sì, ma che cosa successe cinquecento anni fa? E chi sono Loro?

Il cuore storico del romanzo si colloca nel 1480, e narra l’arrivo della flotta dei turchi che cingono d’assedio la città salentina, all’epoca uno dei porti più importanti e fiorenti della regione. ll sultano turco Maometto II, dopo essere dilagato coi suoi eserciti nell’ex-impero bizantino, in Grecia, Macedonia e Albania, intende tentare uno sbarco in Italia, partendo dalla Puglia, al fine di controllare l’Adriatico sulle due sponde, per eliminare la concorrenza veneziana. A tale fine invia una flotta comandata dal generale Akmed Pascià. Prima del loro arrivo a Otranto, comunque, le incursioni dei turchi già non si contano.

Il romanzo è suddiviso in parti, ognuna delle quali è narrata in prima persona dalla voce di un personaggio, e che si riducono progressivamente in lunghezza. Le voci narranti sono legate l’una all’altra da un unico filo conduttore, pur nella diversità di classe sociale e sesso: la scelta di non abbandonare la città, ma di difenderla fino allo stremo delle forze. Non si tratta di eroi nel senso leggendario della parola, ma di persone comuni che, pure, lo diventano; e l’eventuale conoscenza del lettore su come andò a finire la vicenda rende ancora più commovente la loro sorte.

La prima parte ha come protagonista il pescatore Colangelo, che ci introduce nel vivo con la descrizione del mare che fornisce sostentamento e vita, ma è anche causa di terribili tempeste e naufragi, e della sua vita laboriosa ma tranquilla. Egli ricorda quel mattino del mese di luglio, quando egli per primo avvista il pericolo in arrivo: vele misteriose sulla linea dell’orizzonte. “Galeoni di mercanzia non potevano essere, chiara fu subito la forma delle vele e a poco a poco, in vetta ai cavalloni, la mezzaluna stessa degli scafi: erano galee turche, nel mezzo del canale d’Otranto. La rotta voleva essere per Brindisi, ma l’acqua assaltò le prue, le girò verso ponente e verso scirocco, sicché galeotte, fuste e maoni, mescolati alla rinfusa, brancolavano senza direzione nel mezzo del canale.”

E infine, a una a una, a causa di quel mare dove si stenta a governare, le prue si voltano e puntano verso Otranto. Eccola, la disgrazia, impersonata da quella flotta di galeoni turchi veleggianti, che d’improvviso ha cambiato il suo corso. Gli abitanti corrono al riparo, ritirano le bestie, si asserragliano all’interno delle mura. Entra in città l’araldo del generale Akmed Pascià, per parlamentare con il governatore e i funzionari alla presenza dell’intera popolazione; impone la resa e la conversione all’Islam, o in alternativa la morte. Gli otrantini rifiutano, perché quella è casa loro e non si cambia religione come fosse una casacca. Si preparano, perciò, a sostenere l’assedio e l’assalto, e anche chi, come Colangelo, non sa combattere, si arma. I religiosi, le donne e i bambini vengono radunati all’interno della cattedrale. In quanto alle truppe spagnole, la prima notte si danno alla fuga calandosi dalla parte opposta alla costa. Non resta che sperare nell’arrivo dell’esercito del re da Napoli e nel frattempo resistere.


La seconda figura è quella del capitano Zurlo, comandante della guarnigione di Otranto. Egli è stato inviato quasi per un caso e un capriccio in quella terra di Puglia da Ferrante I d’Aragona, re di Napoli, un uomo di cui dice che “non c’era in tutto il regno una faccia che avesse il potere di spandere attorno a sé tanto gelo quanto la faccia del re; nemmeno quella di un cadavere.” Parte insieme con un figlio adolescente, che ha insistito per accompagnarlo. Il capitano è un uomo disincantato, ma non cinico; che ha difficili rapporti con la sua famiglia, non capisce né moglie né figli e non viene da loro compreso; e ha abbandonato i sogni della giovinezza. Ma è una persona di valore, e un soldato leale. Compie il lungo viaggio in carrozza e vede quella terra rossa, con uliveti dalle foglie ammaccate e raggrinzite, coperte di polvere bianche, con pietraie che sono dimora di cicale, grilli e grillotalpe. Una terra struggente che gli entra nel cuore e nelle vene, da dove lo osservano contadini dai visi pensierosi e duri che augurano “Buon vespro a signoria” al passaggio della carrozza. Anche il capitano si prepara a fare la sua parte durante l’assedio di Otranto, insieme all’amico, l’anziano nobiluomo spagnolo don Felice con cui si diletta di giocare a scacchi e che è buffamente innamorato della bellissima Idrusa. E la notte prima dell’assalto il capitano osserva la volta celeste in un modo nuovo, come un libro che contenga una rivelazione che lo riempie di stupore e meraviglia e che lo invade d’amore per la vita.

Il terzo personaggio è proprio Idrusa, una donna bella, selvaggia, inquieta, che mal si adatta a vivere nell’ambito delle regole di una società che vuole le donne in casa, o al massimo seduta sui gradini all’uscio per pulire la cicoria, che la vuole maritata con il pescatore Antonio; una vita semplice e sempre uguale in cui il suo animo irrequieto si sente soffocare. Sin da piccola è considerata “strana” dalle altre donne del posto, in primis dalla sorella che non perde occasione per criticarla. “Andavo sì scalza, come tutte le mogli dei pescatori, ma a differenza delle altre annodavo con cura i capelli e li fermavo con cordelle di seta colorata, perché non mi lasciava mai la volontà di essere bella.” La sua intensa avvenenza attira l’attenzione di un ufficiale spagnolo di stanza a Otranto, mentre le barche veleggiano sul mare in occasione di un rituale processionale in onore dei Santi Medici Cosma e Damiano. Ma anche lei alla fine dovrà affrontare l’arrivo dei turchi, tra terrore e speranza.

Il quarto personaggio è Nachira, un pescatore che dopo l’ingresso dei turchi riesce a nascondersi nelle cantine di un palazzo insieme con altri compagni, e da cui esce per non morire di fame e febbre. Quest’ultima voce ci fa partecipare alla scelta finale degli ottocento uomini che, dopo la conquista della città, vennero tradotti al cospetto del Pascià e a cui fu chiesto di scegliere tra la conversione o la morte. E che scelsero la morte per decapitazione. Sono “Loro” a riposare, ora, nella cappella, cui si giunge dopo aver camminato sullo splendido tappeto musivo del monaco Pantaleone, eseguito tra il 1163 e il 1165.

Chiude la narrazione Aloise de Marco, che racconta della rinascita della città dopo la liberazione dai turchi un anno dopo. Indubbiamente la simpatia dell’autrice va alla saldezza morale e caratteriale degli appartenenti alle classi più umili – i pescatori, i contadini, gli artigiani – che si serve delle parole di quest’ultimo personaggio per paragonarle all’oro fino. Nella cerimonia di nozze tra due otrantini con cui si festeggia la liberazione di Otranto, dove il duca Alfonso balla con la sposa, viene detto a chiare lettere che la condiscendenza del potente è solo di facciata e che nulla mai cambierà nelle condizioni dei poveri.

Ma il significato del romanzo trascende, come dicevo all’inizio, la forte presa di posizione politica e sociale, per diventare universale. Così, come recita la copertina del romanzo: “L’ora di tutti è quell’ora che, prima o poi, capita a tutti nella vita: quell’ora in cui ognuno può dimostrare a se stesso e agli altri di valere qualcosa.” Nella vicenda del 1480 quel destino aveva nome di un nemico e di una battaglia, all’epoca, mentre per noi può avere il nome di una calamità naturale, di un lutto gravissimo che ci porta via un nostro caro, di una malattia dolorosa affrontata con coraggio. O semplicemente della morte corporale, da cui come diceva San Francesco nel suo Cantico delle Creature “nullu homo vivente può scappare”.

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Fonte: L’ora di tutti di Maria Corti, edizione Bompiani