Quelli che appartengono alla mia generazione, cioè hanno vissuto la loro infanzia negli anni ’70, ricordano senz’altro l’epopea degli sceneggiati trasmessi dalla Rai, una delle forme di intrattenimento più popolari che ha avuto il pregio di far accostare le persone ai libri classici e anche alle grandi narrazioni storiche. Per fare alcuni esempi celebri, basta citare La Freccia Nera del 1968, diretto dal regista Anton Giulio Majano e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson, oppure Una tragedia americana, sempre diretto da Anton Giulio Majano e trasmesso nel 1962, tratto dall’omonimo romanzo di Theodore Dreiser del 1925.

La Freccia Nera, Arnoldo Foà nel ruolo
del terribile Sir Daniel Brackley, zio di Dick Shelton

Personalmente ricordo anche con particolare affetto I  fratelli Karamazov diretto da Sandro Bolchi e i cui protagonisti erano il fascinoso Corrado Pani, il tormentato Umberto Orsini e lo spirituale Carlo Simoni nei ruoli dei tre fratelli, nonché Salvo Randone nei panni dell’avido vecchio Karamazov e Lea Massari come la “perduta” donna di malaffare Agrafena Aleksandrovna.

Si aspettava con ansia l’arrivo del giorno in cui avrebbero trasmesso la puntata per poterla guardare con tutta la famiglia. Le sigle e le canzoni erano bellissime e la recitazione di alto livello essendo quasi tutti attori provenienti dal mondo del teatro, e anche i costumi e le ambientazioni erano curati nei minimi dettagli. I ritmi naturalmente erano molto più lenti di quelli delle fiction cui siamo abituati ora, quasi in presa diretta. Avendone riguardato alcuni di recente, mi sono accorta sia della lentezza che di alcune ingenuità.Tuttavia preferisco di gran lunga gli attori di allora a quelli di oggi, perlomeno nella fiction italiana dove ci sono autentici cani (non me ne vogliano i cani). Le uniche in grado di tenere testa ai vecchi sceneggiati sono le serie tv americane, che sono spesso di primissima qualità sia dal punto di vista della sceneggiatura che delle riprese che dell’intreccio. La differenza sostanziale con gli sceneggiati di allora è che questi si basavano su una storia chiusa; erano, ad esempio, di sei puntate. Le serie tv americane sono orientate sul livello di gradimento del pubblico, quindi potrebbero essere pressoché infinite.

Per commemorare quegli sceneggiati, ne ho scelti tre che hanno a che fare, naturalmente, con la Storia e che hanno come filo conduttore il potere sia politico sia nella sua forma di oppressione del genere femminile. Le puntate e le sigle televisive sono facilmente reperibili su Youtube.

Marco Visconti (1975)

Marco Visconti riceve la visita di un frate
che gli chiede soccorso.

Il  formato originario è quello della miniserie televisiva composta da 6 puntate. La fiction è prodotta nel 1975 e diretta da Anton Giulio Majano. Si tratta di una trasposizione televisiva dell’omonimo romanzo storico di Tommaso Grossi ambientato nella Milano del XIV secolo, durante la signoria dei Visconti. Tra gli interpreti principali figurano Raf Vallone nel ruolo di Marco Visconti, Gabriele Lavia nel ruolo di Ottorino Visconti e Pamela Villoresi nel ruolo di Bice del Balzo. Nel cast tecnico c’è anche Herbert Pagani, autore delle musiche e della sigla di chiusura e interprete del ruolo di Tremacoldo, il trovatore della storia e autentico spirito libero. Lo sceneggiato venne trasmesso in prima visione dal 4 maggio all’8 giugno 1975 sull’allora primo canale televisivo RAI. Alcune delle riprese vennero girate a Soncino nella Rocca Sforzesca e a Pavia nel Castello Visconteo. Tra le comparse dello sceneggiato figura anche Marco Columbro, divenuto poi conduttore televisivo.

Visto il mio rinfocolato interesse per un componente della movimentata famiglia Visconti, cioè Bernabò Visconti di cui ho ampiamente parlato in questo blog, non potevo resistere alla tentazione di riguardare le puntate di questo famoso sceneggiato. Pensavo di rimanere delusa, invece ho ritrovato intatte tutte le emozioni e convinzioni di allora. 
La sigla iniziale ha un fascino assoluto, sebbene mi chiedessi, pur da bambina ingenua, dove stesse andando quel cavaliere vestito di nero dal mantello svolazzante e tutto solo in mezzo alla brulla campagna lombarda, senza una scorta di soldati e, apparentemente, senza una meta. E, poi, che cosa volesse dire il sottotitolo “Storia del trecento cavata dalle cronache di quel tempo“. Non sapevo, infatti, che era quello del romanzo di Tommaso Grossi, che tra l’altro ho tentato di leggere ora e non ci sono riuscita per il linguaggio davvero troppo desueto. Conoscevo a memoria e cantavo le parole della sigla finale “Cavalli ricamati” nella interpretazione trobadorica di Herbert Pagani, deceduto molto giovane di leucemia. 

Parlando degli attori, Raf Vallone nel ruolo di Marco Visconti è superbo e rimane il mio uomo ideale: bello anche se nell’età in cui il vigore comincia a declinare, passionale nella sua contrastata storia d’amore giovanile con la madre di Bice, mai dimenticata. Il loro incontro e il dialogo sono autentici pezzi di bravura. Continuo a trovare Pamela Villoresi scialba e non mi capacito del perché tutti gli uomini le ruotino attorno; e le preferisco l’attrice che interpreta la madre. Gabriele Lavia mi sembra abbia troppi capelli per piacermi davvero. Semplicemente superbo è il cattivo di turno, ovvero Warner Bencivegna nel ruolo di Lodrisio Visconti, un attore dal viso aguzzo, dal corpo esile e dalla barbetta a punta. Lodrisio è il traditore familiare per eccellenza, tra l’altro a Bencivegna venivano sempre affidati ruoli al negativo. Del resto, con un nome del genere, Lodrisio non poteva che essere un losco personaggio, perlomeno nel romanzo… come il mio elettricista che si chiama signor Lanternone o il più noto monsignor Crociata che poteva solo fare l’alto prelato cattolico.

I costumi e le pettinature sono molto curati e ho addirittura individuato alcuni abiti tratti da pitture e affreschi dell’epoca. La biscia viscontea blu campeggia sugli stemmi ed è dipinta sulle pareti delle stanze e dei castelli dei signori. Non sono un’esperta, ma mi sembra tutto molto ben ricostruito e assai credibile. 

L’amaro caso della Baronessa di Carini (1975)

L’impronta della mano insanguinata
sulla parete della stanza dove
avvenne il delitto.

Dopo una vicenda ambientata a Milano, ci spostiamo in Sicilia. L’amaro caso della baronessa di Carini è uno sceneggiato del 1975 in 4 puntate, scritto da Daniele D’Anza e Lucio Mandarà e diretto da Daniele D’Anza. È andato in onda per la prima volta dal 23 novembre al 14 dicembre 1975 in prima serata sul Programma Nazionale (l’odierna Rai 1) con grande successo di pubblico. Si ispira a una ballata popolare siciliana, che narra di un delitto realmente avvenuto nel ‘500 a Carini: il 4 dicembre 1563 la baronessa di Carini, donna Laura Lanza, moglie di don Vincenzo La Grua-Talamanca, fu uccisa, ufficialmente per motivi d’onore, dal padre don Cesare Lanza, anche se il giallo non è mai stato del tutto risolto. Il castello è infestato da fantasmi ed è un altro luogo prediletto dai ghost hunters. Nello sceneggiato, la data della morte è però spostata al 4 aprile 1563. 

Nella prima puntata, ci troviamo in Sicilia nel 1812. Sta per entrare in vigore la prima costituzione liberale, che mette fine ai privilegi dei grandi feudatari. Il rappresentante più autorevole del nuovo corso politico è il Principe di Castelnuovo, ministro delle finanze, che incarica un suo uomo, Luca Corbara (Ugo Pagliai), di svolgere indagini per accertare la legittimità del possesso dei feudi. Come punto di partenza della sua ricerca, Luca sceglie il feudo Daina Sturi di Carini appartenente ad un barone, don Mariano D’Agrò (Adolfo Celi). Al suo arrivo, il giovane assiste a un episodio di violenza: gli uomini di don Mariano percuotono un cantastorie, Nele Carnazza, reo di aver cantato una canzone proibita dal barone, la ballata che narra la tragica morte della baronessa di Carini, Caterina La Grua-Talamanca, uccisa per motivi di onore dal marito tre secoli prima. E non è tutto, l’anziano barone ha una moglie giovane e bella (Janet Agren) e pure Luca Corbara è giovane e bello…
Ugo Pagliai nelle mani della setta
dei misteriosi Beati Paoli.

Rivedendo lo sceneggiato, ho molto apprezzato il ruolo di Don Ippolito (Paolo Stoppa), lo scorbutico padrone di casa di Luca Corbara, che vive in mezzo alle galline e ai conigli e conosce vita, morte e miracoli di tutti gli abitanti del paese. Lui fa soprattutto da contrappunto comico alle vicende di Luca Corbara e donna Laura, una sorta di voce fuori campo che è destinato a rimanere un’inascoltata Cassandra. Luca Corbara ha la straordinaria capacità di fare tutto il contrario di quello che un minimo di buon senso gli detterebbe: gli dicono di non andare nel castello abbandonato, e ci entra; gli dicono di stare attento al barone, e lui si pappa tutte le esche che questi gli lancia ecc. Non vede il pericolo e l’evidenza dei fatti nemmeno se glieli mettono sotto il naso. Troppo facile, non c’è nemmeno gusto! Tutto sommato, la figura che più giganteggia nello sceneggiato è proprio quella del barone Mariano D’Agrò, che gioca la sua partita su più tavoli con un’intelligenza davvero poderosa come la sua stazza. Altre figure inquietanti sono quelle dei Beati Paoli, una setta segreta di origine incerta – formata da vendicatori-giustizieri-sicari, nata presumibilmente a Palermo, con il nome di vendicosi, intorno al XII secolo circa. Questa setta indossa lunghe tuniche bianche e cappucci bianchi che lasciano scoperti solo gli occhi.

Il barone Mariano D’Agrò e la moglie Laura.

Di  questo sceneggiato vi propongo la sigla che si conclude con la donna che lascia l’impronta della mano insanguinata sul muro del castello. A questo link potete ascoltare una registrazione chiara, e guardare anche alcune immagini del “vero” castello di Laura Lanza. La canzone La Ballata di Carini, su testo di Otello Profazio, è tratto da una delle innumerevoli versioni del poemetto anonimo giunte fino a noi, è musicata da Romolo Grano e cantata, in lingua siciliana, da Luigi Proietti. Ci credete che, pur non essendo siciliana, sapevo anche questa a memoria?

«Chianci Palermu, chianci Siracusa

a Carini c’è lu luttu in ogni casa.



Attorno a lu Casteddu di Carini,


ci passa e spassa nu beddu cavaleri. 

Lu Vernagallu di sangu gintili 
ca di la giuvintù l’onuri teni. 
“Amuri chi mi teni a tu’ cumanni, 
unni mi porti, duci amuri, unni?” 
Vidu viniri ‘na cavallaria. 
chistu è me patri chi veni pi mmia, 
tuttu vistutu alla cavallarizza. 
Chistu è me patri chi mi veni a ‘mmazza. 
Signuri patri, chi vinisti a fari? 
Signora figghia, vi vegnu a ‘mmazzari. 
Lu primu corpu la donna cadiu, 
l’appressu corpu la donna muriu. 
Nu corpu a lu cori, nu corpu ‘ntra li rini, 
povira Barunissa di Carini. » 



Delitto di Stato (1982) 

Il conte Tommaso Striggi
e il duca Vincenzo Gonzaga.

Sangue chiama sangue, e quindi per non farci mancare niente eccovi Delitto di Stato, miniserie televisiva prodotta e trasmessa dalla RAI nel 1982. Articolata in cinque puntate, andò in onda dal 13 gennaio al 10 febbraio di quell’anno. La fiction era tratta da un romanzo di contenuto storico del 1947 di Maria Bellonci: Segreti dei Gonzaga e da un racconto della Bellonci, Delitto di Stato, contenuto nel libro Tu vipera gentile, concernente la famosa famiglia mantovana dei Gonzaga. La regia televisiva venne affidata a Gianfranco De Bosio che contribuì anche alla stesura della sceneggiatura insieme alla stessa Bellonci ed a Anna Maria Rimoaldi.

Gli avvenimenti narrati hanno luogo tra gli anni che intercorrono dal 1627 al 1630. All’inizio della vicenda, il conte Tommaso Striggi  (Sergio Fantoni), un tempo cancelliere del duca di Mantova,  viene trovato morto per un attacco cardiaco mentre sta scrivendo una sorta di confessione. Tutto aveva preso avvio per la volontà del duca Vincenzo Gonzaga di dare cristiana sepoltura alla salma di Rinaldo da Bonacolsi, detto Passerino per la bassa statura, e morto nel lontano 1328. Dalla presenza della mummia nel Palazzo Ducale però dipende la stabile fortuna della famiglia Gonzaga, quasi fosse diventato una specie di talismano. Il gruppo di persone che assiste in gran segreto alla rimozione notturna della mummia dalla teca di vetro – il conte Tommaso Striggi, il frate Camillo, il mastro orafo Bernardino (Raoul Grassilli), l’arciere Bonvino, la cantatrice Flaminia (Eleonora Brigliadori), il buffone Ferrandino – si trova però ad assistere a qualcosa di totalmente inaspettato, persino ridicolo, la cui scoperta getterebbe il discredito sulla famiglia Gonzaga già in piena crisi.

Dalla reazione del conte Striggi si innesca una catena di delitti poiché la principale ragione di vita del conte stesso è una fedeltà cieca e ottusa alla dinastia dei Gonzaga. Persino la sua fisionomia cambia nel corso della storia, diventa inespressiva e come pietrificata. Anche i personaggi principali, tuttavia, nascondono dei segreti con cui convivono, tra omertà e reticenze che, poco per volta, vengono portati alla luce. Il personaggio più enigmatico è senza dubbio la cantatrice Flaminia, amante del duca Vincenzo Gonzaga, e vera vittima sacrificale dell’assassinio di stato menzionato nel titolo. Forse l’unica pecca della storia in sé è che non ci sono personaggi cui ti affezioni davvero, e anche il giovane Paride, stritolato tra segreti di ogni genere, non ha il carisma necessario per primeggiare.

Questa sensazione è senza dubbio anche dovuta al secolo tenebroso della Controriforma, ben rappresentato dalle architetture di stampo barocco, pesanti come l’apparato di potere che schiaccia le vite di popoli e individui, dai costumi di velluti, gorgiere, alti collari di pizzo, mantelli e spade affilate, ampi cappelli piumati, tra nebbie e palazzi in decadenza, l’arrivo della peste e dei lanzichenecchi. Fece scalpore all’epoca una scena di nudo di Sergio Fantoni, nel quinto episodio, primo nudo integrale frontale maschile per la televisione italiana.

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E a voi piacevano gli sceneggiati Rai, se siete della mia generazione? Quali ricordate con maggiore affetto?