La settimana scorsa mi è capitato di vedere la trasmissione Hell’s Kitchen con il noto chef Carlo Cracco che non ha certo bisogno di presentazioni. Premetto che la cosa è accaduta in maniera del tutto casuale, con marito che faceva zapping compulsivo in quanto non c’era nulla in tv. Non avevo nemmeno mai visto Masterchef, tanto per dire. Per chi non lo sapesse, Hell’s Kitchen consiste nella competizione tra due squadre di aspiranti chef (la squadra blu di ragazzi e la squadra rossa di ragazze) che vengono sottoposti da Cracco a una serie di prove di alta cucina. Il tutto avviene nella frenesia più assoluta, urla, lacrime, lancio di piatti e umiliazioni che mi hanno ricordato la gogna medievale. Come al solito, mi sono chiesta quale grado di masochismo ci voglia per esporsi alla fustigazione sulla piazza mediatica da parte un tizio che, per quanto competente, rimane un essere umano in carne e ossa, e non un semidio disceso sulla terra.

I partecipanti alla competizione non erano simpatici. Ho trovato detestabili soprattutto le ragazze per il loro grado di presunzione e per i giudizi sulle loro colleghe; dei ragazzi, ne avrei salvato solo un paio (il sornione Chang e il nerd Mirko), gli altri mi sembravano pronti a fare lo sgambetto alla minima occasione, invece di sentirsi una vera brigata da cucina. Ma probabilmente tutti recitavano una parte, come capita in molti reality show, e io sono la solita ingenua bacchettona. Tra le altre cose, mi ha dato anche fastidio che timballi di riso finissero nel cestino della spazzatura solo perché la tostatura non era perfetta, come pure uova in camicia scagliate tutt’attorno e che finivano per spiaccicarsi ovunque. Cibo commestibilissimo. Noi abbiamo perso la sacralità del cibo e ci permettiamo di scherzare solo perché abbiamo la pancia e il frigo pieni, e il pasto assicurato ogni giorno. Ma questo è un altro discorso. Dopo una settimana ho letto sul giornale che il giovane chef di Losanna Benoit Violier si era suicidato. Nessuno, a parte lui, potrebbe spiegare il motivo di quel gesto, ma a quel punto è stato inevitabile per me fare una riflessione.

Saper cucinare è un dono, esattamente come suonare uno strumento, o far ridere le persone. O scrivere, nel nostro caso. Io non so se sono in grado di scrivere bene, ma è indubbio che mi piaccia farlo. In un altro post, Confessioni di una scrittrice per hobby, raccontavo del mio recupero sulla dimensione perduta del piacere iniziale, e di come avessi dovuto buttare a mare un bel po’ di zavorra per procedere più speditamente. Avere un talento e metterlo a frutto è una grazia, da qualsiasi parte ci provenga, e provoca in noi una forma di godimento.

Invidia, Cappella degli Scrovegni
Giotto 
La domanda è stata:


perché, dunque, noi esseri umani siamo in grado di rovinare questa bella sensazione con le nostre mani?

Nel caso di programmi  tv competitivi, è chiaro che c’è una forte spettacolarizzazione, e che il cibo buttato obbedisce alla famosa ingiunzione “the show must go on”. Nel caso dei grandi ristoranti, la perdita di una stella Michelin o un giudizio impietoso da parte di un critico gastronomico sono vere e proprie mazzate, e la conseguenza è un calo di introiti in un’attività che dà lavoro a moltissime persone. Ci vuole anche un forte grado di autostima per resistere alla pressione. Non ho visto il programma Masterpiece sulla scrittura, ma penso che obbedisse alla stessa logica. Rimanendo nel nostro ambito ridotto, possiamo tuttavia allestire, del tutto autonomamente, una specie di autodafé dove mettere al rogo il piacere derivato dal fatto di inventare storie e metterle nero su bianco. Oltretutto, la parola “piacere” ha sempre avuto una connotazione lasciva e peccaminosa, ed è stata sempre contrapposta alla parola “dovere”. Storicamente, piacere e dovere non vanno d’accordo, anzi sono come il diavolo e l’acqua santa. 

Qual è la causa per cui il meccanismo bene oliato s’ingrippa, e subentra fatica e altro? Per quanto mi riguarda, la risposta sta nel confronto con gli altri, esattamente come nel programma Hell’s Kitchen. Il confronto (che non sia quello sano, con se stessi) genera competizione. La competizione genera il disprezzo, se ci si sente superiori, e la presunzione; genera invidia, se ci si sente inferiori. E osservate qui sopra com’è raffigurata l’invidia da Giotto nella Cappella degli Scrovegni: l’invidia fa bruciare l’invidiosa, che denigra l’invidiato ma viene colpita dalla sua stessa malvagità. Il serpente della calunnia si rivolta contro di lei colpendole gli occhi. Di conseguenza l’invidia genera stress, se si arranca per raggiungere le altezze dell’altro. Lo stress abbassa le difese immunitarie e caccia via il piacere. La scrittura stessa potrebbe impoverirsi, come se si ammalasse in qualche modo.Non c’è limite apparente al processo di involuzione, che potrebbe assumere varie forme. Il dato di fondo è che il piacere si è sentito in pericolo, ed è scappato via a gambe levate. E quindi la mia conclusione è: il confronto rancoroso è l’anticamera dell’inferno. Altro che Hell’s Kitchen. 

Quindi, lancio un grido di allarme: presto, salviamo il piacere! Per quanto mi riguarda, ora non osservo sempre se il mio compagno di banco sta facendo il compito meglio di me o, in apparenza, è il cocco della maestra. Scrivo con impegno, ma anche con gioia e benessere triplicati. E i primi risultati si vedono.

In fondo, come diceva Voltaire:







E, se lo diceva lui, quel vecchio volpone del filosofo francese,
possiamo ben dargli credito!