La locandina del film
Nel percorso di recensioni cinematografiche Alla Lanterna Magica oggi vorrei parlarvi di Whiplash, un film violentissimo, ma collegato ancora una volta  alla creatività, e che è particolarmente interessante come oggetto di discussione anche per chi ama la scrittura come noi. Si tratta di un film del 2014, diretto da Damien Chazelle e interpretato da Miles Teller e da J. K. Simmons, vincitore di tre Premi Oscar. 
Non è un caso che la parola “whiplash” in inglese stia ad indicare non solamente il titolo di un brano jazz, suonato nel film, ma anche “frustata”. Il film narra la storia di un ragazzo che ha l’ambizione di diventare un grande batterista jazz. Per raggiungere il suo obiettivo frequenta un importante conservatorio di New York, lo Shafner, dove spera di entrare nell’orchestra diretta dal terribile Terence Fletcher.

Riesce dunque a farsi notare dal maestro in persona e ad entrare nell’agognata orchestra. Da quel momento in poi inizia per lui una vera e propria difesa agli inferi, evidenziata dalla fotografia, che quasi sempre inquadra ambienti pervasi dal buio. La vera tenebra, però, si cela nell’insegnante, che si dimostra un aguzzino della peggior specie. La violenza che egli esercita sui suoi allievi si esprime in umiliazioni verbali, insulti di ogni genere di fronte alla minima mancanza, esercitazioni incessanti fino a far sanguinare le mani di Andrew, e la minaccia sempre costante di essere estromessi dall’orchestra e chiudere ogni speranza di carriera. 

Fin da subito tra lui e il ragazzo, Andrew, si viene a instaurare un rapporto malsano di tipo sado-masochistico, e una partita sfibrante come tra il gatto e il topo, in cui sottotraccia il maestro riconosce il talento dell’allievo, ma lo vuole condurre alla cosiddetta perfezione: la “sua” perfezione, naturalmente, a cominciare dal ritmo impresso alla musica. E, d’altra parte, anche il ragazzo non demorde, complice la sua ambizione che lo porterà a rischiare la sua sanità mentale e la sua stessa vita. Del resto anche lui ha grandi problemi di socializzazione, e a un certo punto rinuncia a frequentare Nicole, una ragazza che si mantiene agli studi servendo come cameriera in un fast food, perché intende sacrificare ogni cosa al suo sogno di diventare un grande tra i grandi. Anzi, il migliore.

Nicole e Andrew

A parte il legame morboso tra insegnante e allievo, in cui non c’è un briciolo di affetto (i due sono interpretati magistralmente da J.K. Simmons e Miles Teller), esiste anche il rapporto, altrettanto malsano, che l’allievo ha con il proprio strumento, la batteria, che considera un’emanazione di se stesso.

Non è tutto, perché come sapete mi piace andare a guardare “di lato” ai film, per individuare nella cornice altri importanti segnali di disagio o non-detto (come in Big Eyes). Quello che mi ha molto colpito e rattristato è il livello di competizione esistente tra gli stessi ragazzi nell’ambito della scuola Shafner. Tutti sgomitano per cercare di emergere, e tentano di farsi le scarpe, l’un contro l’altro armati, magari per far parte dell’orchestra in occasione di gare musicali tra scuole prestigiose. Nessuno dei ragazzi, a partire dallo stesso Andrew, mostra di voler instaurare un autentico rapporto di amicizia. Il deserto umano è totale, conta solo la musica come dio assoluto, il proprio talento e come farlo emergere, con mezzi leciti e illeciti. In una parola, acquisire visibilità imperitura.

Ora, non ho molta familiarità diretta con gli ambienti cosiddetti creativi, a parte un po’ con quello della scrittura, conoscendo molte persone che scrivono e avendo frequentato alcune communities letterarie di autori self-published, e dove ci sono sacche di falsità e invidia davvero molto estese (ma dove ho anche incontrato persone splendide di cui sono diventata amica). Ho però conosciuto persone che lavoravano nell’ambiente musicale e dello spettacolo (sia televisivo che canoro, e tra le ballerine del teatro alla Scala), e mi hanno assicurato che il livello di competizione è altissimo tra gli addetti ai lavori.


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Mi sono dunque fatta alcune difficili domande che vorrei rilanciarvi: 


1. Perché accade così frequentemente che negli ambienti creativi predominino ambizioni smodate e invidia? Certamente ambizione e invidia sono insite negli esseri umani e sono presenti anche negli uffici e nelle fabbriche, ma sembra che in questi luoghi deputati alla creatività gli atteggiamenti siano portati fino alle estreme conseguenze.

2. E perché qualcosa che dovrebbe condurre all’arricchimento interiore, cioè l’arte in tutte le sue forme, diventa strumento per l’inaridimento e l’isolamento progressivo della persona? Sembra quasi che un dono venga asservito a meccanismi infernali, e allo smembramento dell’integrità spirituale.

3. Inoltre, fino a che punto si può spostare sempre un passo più in là il paletto della perfezione, forzando l’allievo o forzando se stessi fino a pretendere l’impossibile?

Mentre nella scrittura è molto difficile distinguere un buon romanzo da un autentico capolavoro (solo il tempo, forse, potrà ridimensionare certi elogi e prospettive sperticate, e magari costruite e fasulle, e ridare il giusto posto a romanzi che, magari, al loro apparire non attirarono l’attenzione), e lo stesso accade nel mondo dell’arte, un po’ più facile forse è riuscire a stabilirlo in ambito musicale essendo la musica paragonabile alla matematica che è una scienza esatta.

E voi avete visto il film e che cosa ne pensate? Avete mai fatto una riflessione sulle tre domande che vi propongo?
P.S. Chiudo il post dicendo che io non credo nel concetto di perfezione.