La copertina del libro
edito da Einaudi
Ebbi il mio primo incontro con Raymond Carver proprio con il
racconto Cattedrale che dà il titolo alla raccolta e che,
non a caso, è collocato proprio in fondo alla stessa. Stavo lavorando a un letteratura inglese, e quindi ebbi modo di leggerlo in lingua originale. Ricordo che mi piacque moltissimo. Nonostante il titolo, ha ben poco a che fare con il Medioevo se non nello spunto che dà vita alla narrazione: un uomo deve
descrivere a un vecchio, cieco dalla nascita, com’è fatta una cattedrale, su cui
stanno trasmettendo un documentario in TV. Niente di più difficile, eppure il
protagonista, e l’autore con lui, riescono in questa impresa che ha del
miracoloso, senza artifici retorici e con estrema semplicità.
Raymond Carver (1938-1988) è considerato uno dei maestri del
racconto breve, proprio per l’estrema asciuttezza della sua
narrazione, dove ogni cosa è ridotta all’osso a partire dall’ambientazione. Le storie di Carver si svolgono nel quotidiano, persino nel
banale, di un mondo tutto americano – gli scenari sono quelli di ogni giorno: interni di case, negozi,
centri commerciali, stazioni ferroviarie, parrucchieri… – e solitamente partono
in media res. Il narratore sembra infatti che
stia riprendendo un discorso già avviato, senza dare al lettore i classici
elementi che lo aiutino a mettersi a suo agio con
la storia, come se stesse raccontando dei suoi casi ormai da tempo. I suoi
racconti vertono sulla quotidianità e sono quasi privi di colpi di scena: ci
sono coppie in crisi (come in Penne),
coppie che si ritrovano (La casa di Chef),
disoccupati (Conservazione), eventi
luttuosi (Una cosa piccola ma buona),
lavoro e competizione (Vitamine), aiuti
inaspettati (Attenti), comunità di
recupero per  alcolisti (Da dove sto chiamando), sale d’aspetto
come palcoscenici (Il treno), abbandoni
e baby-sitter (Febbre), traslochi e
oggetti-simbolo (La briglia) e i già
citati protagonisti di Cattedrale.

Le azioni di questi comunissimi, a volte persino squallidi, personaggi, scorrono sulla pagina come se fossimo spettatori
invisibili sulla scena di un film. Per ottenere questo effetto, Carver usa uno
stile essenziale. Non c’è una parola più del necessario, sia nelle descrizioni che nei dialoghi. Spesso cambia il punto
di vista, eppure non si perde mai il filo del discorso. È in grado di adottare
un’ottica femminile come uno sguardo maschile senza sforzo apparente, con la maestria
dell’attore che recita in modo naturale mentre il tutto è risultato di lunghe
ore di esercizio e disciplina. Lui stesso asseriva che scrivere è riscrivere, e non faccio fatica a credere che questi racconti siano il risultato di un processo di distillazione molto lungo.
Lo scrittore Raymond Carver
Gli incipit stessi sono dei piccoli racconti.
Ve ne propongo tre. Innanzitutto quello di Penne:

“Questo mio collega di lavoro, Bud, una volta ha invitato me e Fran a cena. Io non conoscevo sua moglie, e lui non conosceva Fran. Così eravamo pari. Ma io e Bud eravamo amici. E sapevo che a casa sua c’era un bambino piccolo. Doveva avere più o meno otto mesi quando Bud ci ha invitato a cena. Che fine avevano fatto quegli otto mesi? Diamine, che fine ha fatto il tempo passato da allora?”

Conservazione:

“Il marito di Sandy se n’è rimasto sdraiato sul divano da quando è stato licenziato tre mesi fa. Quel giorno, tre mesi fa, era tornato a casa pallido e spaventato e con tutte le cose del lavoro in uno scatolone. – Buon San Valentino, – aveva detto a Sandy, e aveva posato una scatola di cioccolatini a forma di cuore e una bottiglia di Jean Beam sul tavolo della cucina. Si era tolto il berretto e aveva messo anche quello sul tavolo. – Oggi m’hanno licenziato. Ehi, secondo te che ne sarà di noi, adesso? –“

 Una cosa piccola ma buona:

“Sabato pomeriggio montò in macchina e andò alla piccola pasticceria del centro commerciale. Dopo aver sfogliato un raccoglitore con le foto delle torte incollate sulle pagine, ne ordinò una al cioccolato, la preferita di suo figlio. La torta che aveva scelto era decorata con un’astronave sulla rampa di lancio sotto una pioggia di stelle bianche, e un pianeta di glassa rossa dall’altra parte. Scotty, il nome del bambino, sarebbe stato scritto in lettere verdi sotto il pianeta.”

Che cos’hanno in comune questi tre incipit, a parte l’ordinarietà delle situazioni, pur problematiche come nel secondo caso? Che c’è un elemento di disturbo. Solo che non lo avvertiamo, proprio come nel gioco “trova l’intruso”, confuso tra centinaia di personaggi. Naturalmente non è possibile individuarlo subito, sarà più chiaro nel prosieguo della lettura. Nella sua prefazione, difatti, Francesco Piccolo parla della
possibilità di lasciarsi sorprendere dall’imprevedibilità e della condivisione
e del contatto umano, in Carver. Io ho trovato qualcosa
di ancora differente nei racconti di questo autore: un momento in cui la realtà sembra
andare fuori registro, dando l’effetto delle fotografie in stampa che si sdoppiano; magari in modo lieve, ma lo fanno.

In questa realtà sfasata emerge, finalmente chiaro, il particolare
stonato dell’inizio; o, se preferite accogliere la tesi di Piccolo, il momento di condivisione. Esso è già scivolato all’interno del tracciato in maniera quasi inavvertita, proprio come accade nella quotidianità. Non l’abbiamo individuato e, anche se avessimo potuto farlo, è ormai parte di noi, e ci ha cambiato per sempre. Il fato degli antichi Greci, la volontà di divinità capricciose, le epiche battaglie si sono tramutati in oggetti che tutti noi possiamo avere sotto gli occhi: un divano ormai logoro, una bottiglia di whisky quasi vuota, o una semplice torta di compleanno.

***

Anche voi avete letto qualcosa di questo autore e, se sì, che cosa ne pensate? O, pur non conoscendolo, vi piacciono questi incipit e li avreste votati, magari nella competizione lanciata qualche tempo fa da Michele Scarparo sul suo blog Scrivere per caso