Nell’ambito del mio filone Alla Lanterna Magica, questa settimana vorrei parlarvi di un film che mi ha colpito per una serie di motivi. Questi motivi non riguardano solo l’arte, ma anche noi che amiamo scrivere. Quindi sto per fare un discorso a tutto campo, “stateve accuort“, come dicono i partenopei!

Si tratta di Big Eyes, un film del 2014 con la regia di Tim Burton e che ha come protagonisti Amy Adams e Christoph Walts. La trama si basa sulle vicende, realmente accadute, della pittrice Margaret Keane e del marito Walter Keane. All’inizio del film, Margaret è in fuga con la figlioletta Jane dal primo marito, definito dalla voce fuori campo come “marito oppressivo”, ma che non si vedrà mai. La si trova a bordo della sua automobile diretta a San Francisco in cerca di fortuna in quanto pittrice di talento. I suoi soggetti prediletti – anzi, gli unici che dipinge – sono bambini dai grandi e sproporzionati occhi, presumibilmente trovatelli. Siamo nel 1958 e per sbarcare il lunario Margaret decide di realizzare ritratti ai passanti come artista da strada. In una di queste occasioni conosce un altro pittore, Walter Keane, che espone delle vedute ai tempi in cui era a Parigi. I due fanno conoscenza e ben presto intrecciano una relazione che conduce al matrimonio.

La povera Margaret non sa di essere passata dalla padella alla brace, come si suol dire, e che Walter è una specie di magnaccia dell’arte, cioè un bieco sfruttatore degli altrui talenti: non solo non ha nessuna attitudine artistica, ma molto presto capisce che i quadri della moglie piacciono molto più dei suoi, e che potrebbero fruttare parecchi soldi. Margaret però non ha nessuna abilità nell’autopromozione e nelle tecniche commerciali, cosa in cui invece il marito è dotatissimo. Inoltre è una donna, e quindi fa molta meno presa in un mondo dominato dagli uomini. E quindi, complice la sua debolezza caratteriale, acconsente a far passare le sue opere come tele di Walter. Non vi svelo come va a finire il film, anche se molto è trapelato sui giornali. Aggiungo solamente che gli attori sono molto bravi: non era facile interpretare un personaggio come lei, che alle volte è irritante per ingenuità e mollezza, o un personaggio come lui, un lestofante dal sorriso rettangolare a trentadue denti. Molto interessante è anche lo spaccato sociale di un’epoca contraddittoria (gli anni ’60) e del mondo delle gallerie d’arte e dei pittori americani sulla costa ovest, e di tutta la stampa e i media che facevano loro da cassa di risonanza.


A parte la facile morale che si può trarre da una storia come questa – e cioè che bisogna sempre dire la verità perché tutte le bugie hanno le gambe corte (o, a scelta, tutti i nodi vengono al pettine, o il diavolo fa le pentole ma non i coperchi) – vorrei attirare la vostra attenzione su un paio di figure che nel film si trovano fuori dal coro degli elogi generali tributati a Walter Keane e al suo stile – ovvero alla vera autrice delle opere. Il primo è un gallerista cui Walter propone sia le proprie opere, cioè le vedute di Parigi, sia quelle della moglie. Questo gallerista ogni volta rifiuta i quadri proposti sostenendo che non erano in linea con quanto esponeva e vendeva. La seconda figura è un temutissimo critico d’arte, impersonato da Terence Stamp, che, nonostante il successo di pubblico dei trovatelli dai grandi occhi, continua a sostenere che siano “appalling” (spaventosi). Lui non sa che non è Walter a dipingerli, ma poco importa. A lui non piacciono, e addirittura in una scena del film il sedicente autore delle tele ha uno scontro fisico con il critico nel corso di un cocktail, dove cerca di piantargli una forchetta in un occhio. 
Una scena del film dove Walter finge di dipingere un quadro della moglie
per ingannare la migliore amica di Margaret, entrata nello studio.
Margaret Keane dipingeva così, ed era giusto che seguisse il suo stile (anzi, dipinge, perché è un’arzilla e felice signora di ottantotto anni), e non avrebbe dovuto cambiarlo. Proviamo però a rovesciare i termini della questione, perché ci riguarda un po’ tutti. Mettiamo che i suoi quadri non avessero avuto il successo di pubblico, e poi di critica, che per fortuna sua hanno avuto, ma che Margaret fosse sempre stata considerata una dilettante, e i suoi quadri giudicati dozzinali. Avrebbe dovuto smettere, o imitare lo stile di Andy Warhol (la pop art era in auge all’epoca), anche se non le era congeniale? Io credo proprio di no. A lei dipingere in quel modo dava felicità, al di là del successo commerciale ottenuto. 
Quindi credo che anche chi ama scrivere, come noi, dovrebbe farlo nel genere e nel modo che sente più affine, senza rincorrere facili mode per ottenere il successo e i soldi. Anche questo, secondo me, “vuol dire la verità”. L’arte, in sé, non esiste se non come valore che noi le attribuiamo non solo in quanto individui, ma come figli del nostro tempo, e così è anche di un romanzo, o di un racconto o di una poesia. Quello che è disprezzato oggi potrebbe avere un valore incommensurabile domani, e molte storie di artisti o scrittori, e le difficoltà che hanno dovuto incontrare, lo dimostrano. Viceversa, quello che ha molto successo oggi potrebbe svanire nel nulla tra qualche decennio, e ben pochi se ne ricorderanno. La seconda riflessione è che non si può piacere a tutti. Ci sarà sempre qualcuno – un giornalista, o un amico, o un parente, o un collega, il marito o la moglie – che criticherà quello che scriviamo.

So che si tratta di un discorso complesso, ma mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate.

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P.S. A me i quadri di Margaret Keane non piacciono!