In un mio post precedente sotto l’etichetta Alla Lanterna Magica, e che trovate qui, avevo elencato i dieci film più importanti della mia vita, che non sono necessariamente dei capolavori accreditati dai critici. I commenti dei miei lettori erano stati entusiastici, e ognuno aveva elencato i titoli che più amava. Ho segnato quelli a me sconosciuti, e prima o poi riuscirò a vederli.

Fedele al mio proposito di recensire film particolari, vi presento qui uno dei film indicati da Clementina Sanguanini, cioè: Bab’Aziz – Il principe che contemplava la sua anima, un film del 2005 diretto dal regista tunisino Nacer Khemir e che appartiene alla Trilogia del deserto dopo I figli delle mille e una notte e La collana perduta della colomba.

Nel film, un anziano sufi cieco parte per un viaggio attraverso il deserto in compagnia della nipotina Ishtar per partecipare a un raduno di dervisci. Allo scopo d’intrattenere la bambina, Bab’ Aziz le racconta la storia di un principe provvisto di bellezza e ricchezza, che inspiegabilmente si perde nel deserto e viene poi ritrovato inginocchiato accanto a una fonte d’acqua. In essa il giovane scorge la sua anima e nessuna sollecitazione esterna ha il potere di distoglierlo dalla sua contemplazione. Fra panorami mozzafiato per la loro bellezza, in mezzo alle rovine di edifici colpiti dal vento, sotto cieli stellati e accanto al fuoco di bivacco, i due incrociano altri viaggiatori, ognuno impegnato a percorrere il proprio cammino, o a inseguire la propria ossessione amorosa, terrena o spirituale che sia, o anche in cerca della vendetta per supposti torti subiti.

Bab’Aziz offre una visione affascinante in bilico tra sogno e realtà, dove immagini e ambientazioni, che paiono scaturire dalle favole dell’antico Oriente, si mescolano con grande naturalezza a dettagli contemporanei come radio, moto, occhiali e abiti. La figura del derviscio cieco fa il paio con quella del Derviscio Rosso, un sufi cencioso che risponde in pieno ai canoni del “folle di Dio”, mentre la bambina Ishtar, spirito rinchiuso in un corpo infantile, ha tuttavia un’anima anziana per saggezza e misteriosa esperienza. Il giovane Osman, invece, vuole ritrovare una bellissima donna incontrata in un palazzo incantato in fondo al pozzo in cui era precipitato, e sembra essere il gemello spirituale di Zaid, un altro giovane innamorato di una donna, conosciuta e sedotta dopo una tenzone poetica in cui è risultato vincitore con una poesia sulla danza dell’universo in lode a Dio.

Nacer Khemir nel 2007
C’è dunque un continuo contrappunto tra queste esistenze, che intersecano le loro strade e le sciolgono, mentre la luce del deserto delinea, con precisione e volatilità insieme, le orme del cammino che essi imprimono sulla sabbia. Come ha detto il regista stesso: “Il deserto è un campo letterario e un campo di astrazione, allo stesso tempo. Si tratta di uno dei rari luoghi dove l’infinitamente piccolo, che è un granello di sabbia, e l’infinitamente grande, che sono miliardi di granelli di sabbia, si incontrano. È anche un luogo dove si può avere un vero senso dell’Universo e della sua scala. Il deserto evoca anche la lingua araba, che porta la memoria delle sue origini. In ogni parola araba, vi scorre un po’ di sabbia. È anche una delle principali fonti di poesia d’amore araba.”

La stessa storia del principe, perduto a contemplare la sua anima specchiandosi nel pozzo, si discosta dal mito di Narciso innamorato del proprio involucro esteriore, visione destinata a sbriciolarsi e a fallire, per calarsi nelle sue profondità invisibili ma durature. Conseguenza naturale è che, alla fine, il principe non si accontenterà della mera contemplazione dell’anima, ma l’abbraccerà fino in fondo in maniera più che sorprendente. Il regista ha spiegato che l’idea del principe gli era venuta da una lastra dipinta in Iran nel 12° secolo, e che voleva anche offrire una visione dell’Islam molto diversa da quella che purtroppo emerge dai fatti di cronaca, dalla lettura che ne danno i media e dagli integralismi religiosi.

Il senso del film è una metafora della vita come viaggio nel tempo e libertà di ricerca, secondo la quale, come nel detto sufi che apre il film:

“Ci sono tante strade che portano a Dio, 
quante sono le anime sulla terra.”