Nell’opera Tu vipera
gentile
di Maria Bellonci del 1972
sono riuniti tre racconti di carattere
storico: Delitto di Stato, Soccorso a Dorotea e Tu vipera gentile. Il fil rouge che li accomuna è il Potere nelle sue molteplici forme, e quello che gli uomini sono disposti a fare per
conquistarlo e mantenerlo; di conseguenza, le vittime che miete al suo passaggio.

Delitto di Stato  
Il primo racconto è ambientato a Mantova nel 1629 e, dei
tre, è quello più felicemente riuscito nella commistione tra apparato storico e
tessuto narrativo. La città è ancora dominata dalla famiglia Gonzaga, ma si avverte già il declino di una dinastia che stenta a salvaguardare la propria
autonomia, schiacciata con il suo territorio tra la Repubblica di
Venezia e le rivendicazioni spagnole; e dove, nelle stesse vicende, aleggia quel sentore di putrefazione che anticipa l’arrivo della peste manzoniana. 
La copertina del libro,
edito da Mondadori
Il racconto si apre con la confessione scritta del conte Tommaso Striggi, dove egli rivela un
clamoroso “insabbiamento” di Stato per salvaguardare il buon nome della
famiglia Gonzaga, che egli serve da sempre in modo incondizionato ed ottuso. La
salma di Passerino Bonacolsi, nemico dei Gonzaga nei primissimi tempi della
loro ascesa, in obbedienza ad un credo superstizioso è ospite nella sua teca all’interno del Palazzo Ducale. Si dispone
finalmente la sua cristiana tumulazione per ordine del duca Vincenzo. Poche persone
assisteranno al trasferimento della salma e, fra queste, il cortigiano Striggi,
l’orefice Bernardino, frate Camillo, l’arciere Bonviso, la signora Flaminia
amante del duca e il buffone Ferrandino.  Proprio quest’ultimo scoprirà il segreto celato
nella salma del Bonacolsi, e sarà la prima vittima di una lunga catena di
delitti ed omertà. 
Le carte del conte si interrompono per lasciare la parola al
giovane Paride, figlio dell’orefice, che in una lunga lettera narra le vicende
successive al fatto, destinate a portare alla rovina e alla morte tutti coloro
che hanno assistito al trasferimento della salma. Il destino sembra composto dagli anelli di una
catena di ferro dove un anello tira a sé il successivo, catena fatta di delitti, di
silenzi e di rimorsi, e di una maledizione dove anche i figli incolpevoli
scontano le colpe dei padri. La prosa di Maria Bellonci è alta, cantante, armoniosa, molto
evocativa del periodo in cui si svolgono le vicende. Straordinarie sono le
sue descrizioni dei moti del cuore e del mistero di figure femminili, come Flaminia; di giardini, di fiori, di quell’atmosfera magica e sospesa, fatta di
acque ed echi, che circonda la città mantovana, e di nebbie. Le stesse nebbie che sembrano celare
i misfatti, gli agguati, ma anche lenire il dolore delle vittime di Stato. 

Da questo racconto fu tratto uno sceneggiato televisivo in cinque puntate trasmesso dalla RAI nel 1982. Tra gli interpreti, fra cui molti attori di teatro di solido mestiere, Sergio Fantoni nel ruolo del cupo e tormentato conte Striggi, Raul Grassilli in quello dell’orefice Bernardino ed Eleonora Brigliadori in quello di Flaminia. La prima puntata dello sceneggiato è visibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=yVUzjmm9rVs

Soccorso a
Dorotea
Il
secondo racconto riguarda uno straordinario spaccato domestico e politico della
famiglia Gonzaga nel 1457, e in particolare di Ludovico e Barbara: lo stesso
clan familiare che Andrea Mantegna ritrasse nel suo fulgore nella Camera degli
Sposi. La Dorotea cui è intitolato il racconto è figlia dei duchi di
Mantova, promessa sposa per questioni dinastiche a Gian Galeazzo, figlio
adolescente del potente Francesco Sforza, signore di Milano. Il ducato di
Mantova è, ancora una volta, uno stato cuscinetto, e Ludovico, al soldo degli
Sforza, si barcamena con molta dignità ed in pieno accordo con la moglie,
fra le mille istanze della sua difficile posizione. Fidanzati in seguito ad un accordo politico, i due
ragazzini si piacciono, flirtano nonostante la sorveglianza della
servitù durante i loro radi incontri, si fanno piccoli doni, si scambiano tenere lettere. 

Camera degli Sposi di Andrea Mantegna (1465-1474)
Castello di San Giorgio, Mantova

Ma una tremenda disgrazia incombe sulla famiglia Gonzaga e sulla loro progenie: la
tara genetica della gobba, da cui però Dorotea parrebbe essere esente. Proprio il rischio di questa deformità, unita all’indelicatezza di Gian Galeazzo, e all’astuzia politica
del padre alla ricerca di alleati più prestigiosi nella famiglia Savoia, e le
mille giravolte e voltafaccia degli ambasciatori, diventa la scusa per evitare che le nozze non vengano
celebrate. A nulla valgono gli sforzi delle due madri, fra loro amiche
(straordinaria e vivacissima la corrispondenza tra Bianca Maria Sforza e
Barbara Gonzaga, che ci restituisce un mondo), per risolvere la questione con
una visita medica accurata che non leda la dignità della fanciulla.

Con il tempo, il sentimento e le speranze si infrangono e cedono
il passo al potere e alle ragioni di Stato, e Dorotea non è altro che l’ennesima
vittima al femminile e la pedina di un gioco più grande di lei, cui finisce per
soccombere. L’autrice trae dai resoconti storici, dagli archivi e dalle poche
letterine scritte di pugno della bambina Dorotea, dalla corrispondenza tra gli
affettuosi genitori, il lato umano e domestico della Storia, e ce lo presenta
intriso di profonda pietà per queste figure stritolate dal meccanismo
del Potere.


Tu vipera
gentile
Nel
terzo racconto Maria Bellonci ci narra l’ascesa di una delle famiglie più
chiaroscurali e, anche, luciferine, del nostro Medioevo – i Visconti – compiendo una cavalcata, a tratti convulsa, di eventi storici e di figure. Il titolo riprende il primo verso di un’antica canzone viscontea, ed è un riferimento allo stemma di famiglia del biscione che inghiotte un bambino o, forse, un saraceno. Poco si sa del significato di questo stemma, se non che il biscione sembrerebbe essere una vipera, e che il capostipite dei Visconti fu probabilmente un crociato che guerreggiò in Terra Santa.  

Bernabò Visconti con la moglie 
Beatrice Regina Della Scala
Vipera sorda, tirannica, eretica, anarchica,
così si apre il racconto, ricordando le scomuniche subite e quel sentore di
eresia che, vero o meno che fosse, accompagnò la famiglia per tutte le generazioni in cui
dominò Milano e i territori sottoposti. Gli inizi del potere, ad opera dell’arcivescovo e signore Ottone Visconti, il primo di cui si abbia traccia storica sicura, sono
difficili, soprattutto a causa della lotta contro la famiglia dei Torriani
guelfi. Estromessi ed esiliati i Torriani, i Visconti tengono in pugno il
potere e iniziano la loro opera di consolidamento familiare e politico, sempre in bilico sull’orlo della sconfitta, sempre
minacciata dai vicini di casa e da altri stati che frammentavano la penisola, in primo luogo il Papato. Loro scopo è l’espansione del ducato come potenza dominante del Nord Italia, l’annientamento dei nemici, il dissolvimento delle fazioni che rendono il clima turbolento e causano instabilità politica ed economica.
La famiglia nella sua interezza governa, e non uno soltanto. Abbiamo così Matteo il pragmatico, l’impetuoso Galeazzo, Azzone amante dell’arte giottesca, l’astuto e affascinante arcivescovo Ottone, il crudele Bernabò con le sue migliaia di cani, e che fece ingoiare i cartigli ai legati papali, il nipote Gian
Galeazzo che rinchiuse lo zio nella torre di Trezzo sull’Adda dove morì
avvelenato. Le opere civili e religiose, la fioritura del commercio e delle
industrie, il prestigio degli armaioli milanesi rinforzano nondimeno l’orgoglio di una comunità operosa, e il popolo accorre per contribuire all’edificazione del Duomo, chi con somme, chi con il proprio lavoro.

Ma, dopo lo stravagante Filippo Maria, vestito
di tuniche color ametista e circondato da schiere di giovinetti, i Visconti
lasciano il passo agli Sforza nella persona di Francesco, ambizioso capitano di ventura e amato sposo di Bianca Maria (un self-made man, come si direbbe oggi), nello stesso modo in cui il crogiolo del Medioevo sfocia nello
splendore del Rinascimento.