Siamo arrivati dunque a parlare di altri due segni di interpunzione molto noti e piuttosto enfatici, specie il primo, che a volte procedono addirittura in coppia: il punto esclamativo e il punto interrogativo.

Trombettiere (forse Valentine Snow), ca. 1753. 
Property Name: Fenton House
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Fiato alle trombe… con il punto esclamativo!

Il punto esclamativo è l’araldo della nostra corte punteggiatrice, che conclude qualsiasi periodo esprimente meraviglia, stupore, dolore, gioia, desiderio, invocazione o qualsiasi altro forte sentimento. Egli è il gran cerimoniere della frase, il trombettiere che chiude la processione delle parole e anche lo sbandieratore degli stati d’animo.

Eccovi un brevissimo estratto dal romanzo Mastro-Don Gesualdo (1889) di Giovanni Verga:


Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamo d’accordo come dico io!… Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti!… Tutte quelle bestie che ridono adesso e si divertono alle nostre spalle!… Vedrai! vedrai!… Ha buon stomaco, mastro-don Gesualdo!… da tenersi in serbo per anni ed anni tutto quello che vuole… e buone gambe pure… per arrivare dove vuole… Tu sei buona e bella!… roba fine!… roba fine sei!…

Ed ecco un esempio tratto dalla commedia Bellavita (1926) di Luigi Pirandello, dove le virgole sono funzionali all’enfasi che si suggerisce all’attore nella recitazione:

Ecco, vedete, se ne scappa! Ridete, ridete! Così, tra la baia di tutti! E ora gli corro dietro; e per tutte le strade, inchini, riverenze, scappellate, fino a non dargli più un momento di requie! Vado dal sarto! Mi ordino un abito da pompa funebre, da fare epoca, e su, dritto impalato dietro a lui, a scortarlo a due passi di distanza! Si ferma; mi fermo. Prosegue; proseguo. Lui il corpo, ed io l’ombra! L’ombra del suo rimorso! Di professione! Lasciatemi passare! Esce, buttando indietro questo o quello tra i lazzi e le risa di tutti.

Il punto interrogativo, invece, può essere considerato come il filosofo di corte, colui che si pone eterni interrogativi sul senso della vita. Questo segno d’interpunzione esprime domanda e dubbio, e lo fa con varie sfumature. In italiano è collocato alla fine, per cui, specie nei periodi molto lunghi e complessi, il lettore scopre solamente in fondo che si tratta di una domanda. Così l’impeto della frase potrebbe arenarsi come una balena spiaggiata. Assai più furbi di noi, gli spagnoli lo mettono all’inizio, come del resto fanno anche con il punto esclamativo, così non ci sono dubbi di sorta e si può dare subito la giusta intonazione.

Eccovi un passaggio tratto da I Promessi Sposi (1840) di Alessandro Manzoni, dove Don Abbondio, dopo le minacce ricevute dai bravi, cerca in tutti i modi di rimandare il matrimonio tra Renzo e Lucia, accampando le scuse più inverosimili:

Il filosofo di Giovanni-Battista Quadrone (1870).
Collezione privata.
“Dubito, quindi sono.”

“Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?” “Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?” “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,…” cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. “Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”

Ci illustra efficacemente il concetto anche un passaggio dello splendido e attuale romanzo I Viceré (1894) di Federico De Roberto: 

“Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?” Il ragazzo stordito un poco dal baccano, domandò: “Che cosa vuol dire deputato?”
“Deputati,” spiegò il padre, “sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.”
“Non le fa il Re?”

“Il Re e i deputati insieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!…” 

Alla parola “deputati”, “leggi” e “Parlamento” so che molti di voi avranno avuto un sussulto, ma occorre soffrire per amore di grammatica. Nelle interrogative indirette, però, il punto interrogativo non ci vuole (ad esempio: Il ragazzo chiese che cosa volesse dire “deputato”.).
In generale il punto esclamativo che l’interrogativo, chiudendo un periodo, hanno funzione di punto fermo; e quindi bisogna iniziare la nuova frase con la lettera maiuscola. Quando più frasi si susseguono in modo concatenato, si userà poi la lettera minuscola. Riprendendo in prestito il nostro marchese Marcello del post precedente, e immaginandolo nel suo letto d’ospedale con la mascella gonfia, possiamo fargli dire nel ricevere le visite degli amici e senza paura di sbagliare: “Come siete stati buoni a venirmi a trovare! e che bel mazzo di roselline mi avete portato!” 
Alcuni uniscono il punto interrogativo e il punto esclamativo per enfatizzare ulteriormente il concetto. Leggeremo dunque frasi come quella rivolta da uno dei visitatori del marchese Marcello: “Davvero hai ricevuto uno sganassone dalla contessina Carlotta?! 
Addirittura altri mettono una sequela di punti interrogativi o di punti esclamativi come se fossero una mitragliata di ganci o di baionette innestate: “Ma davvero???” “Incredibile!!! (questi sono i commenti degli amici del marchese Marcello, che fanno coro).

Non è un delitto usarli nella corrispondenza privata, o in altre forme di comunicazione enfatiche come la pubblicità, ma non sono granché belli a vedersi in un testo letterario. Un solo punto esclamativo in un passaggio, specie descrittivo, attira l’attenzione, mettendone troppi si ottiene l’effetto contrario. I nostri filosofi e trombettieri di corte si sono messi in fila e fanno un sacco di smorfie, o strillano a pieni polmoni, rendendo leggermente ridicola la frase.

E a voi, che cosa piace vedere in un testo in relazione a questi due segni così enfatici?