L’Io è il più grande segreto del mondo; credo nell’Io nella sua forma eterna e indistruttibile.” (Beckmann)
Il volto come espressione più sacra dell’identità umana e
riflesso di quella divina, al punto che violare il volto, sfregiandolo o
deturpandolo, equivaleva a sfregiare o deturpare il viso di Dio. Il volto come
espressione dell’intimo, carta d’identità anche per chi non s’intenda di
morfopsicologia o si avvale di psicologia spicciola, e che costituisce la
pagina su cui leggiamo chi è l’altro; dove l’espressività di un paio d’occhi, o
la piega di un labbro, rivelano molto più di mille parole. Il volto dell’altro come
specchio di noi stessi e nostro doppio, dove possiamo ritrovare tutto ciò che
ci disturba o, viceversa, ci attrae e ci completa.
 
Per questo motivo la ritrattistica ha sempre affascinato gli
artisti, a partire dai Greci e dal loro ideale di bellezza classica, perseguita nell’armonia
del corpo e dei tratti somatici. Nel Medioevo l’essere umano non è protagonista
nel ritratto, bensì le fisionomie si annullano nelle ambientazioni di corte,
popolari o religiose, come se ognuno fosse formica persa nel formicaio sociale.
Nel tardo Medioevo e soprattutto nel Rinascimento, il ritratto ritorna protagonista
e diviene sottolineatura del proprio censo e della ricchezza del casato, in cui
spesso si mostra un profilo netto e stagliato come inciso in un medaglione. Sul
finire del Rinascimento, con l’avvento di pittori come Lorenzo Lotto, la
persona ritorna a guardarci negli occhi e sulla sua fisionomia trascorre l’inquietudine,
l’anima affiora sotto pelle come la corrente muove l’acqua di un rivo.
Lo stupro di René Magritte (1945)
olio su tela 65,3 x 50,4
(c) Centre Georges Pompidou

Arriviamo dunque al ‘900, il secolo che ci siamo appena lasciati
alle spalle, un secolo dove l’avvento della psicanalisi schiude i
misteriosi territori dell’inconscio e dove, viceversa, l’invenzione
della fotografia fissa per sempre la realtà che ci circonda, ma nello stesso
tempo offre una diversa chiave di lettura del mondo. Anche in letteratura vi sono grandi innovazioni, con autori che fanno del “flusso di
coscienza” la loro cifra stilistica; e in politica l’avvento dei totalitarismi annullano qualsiasi personalità e imprimono all’individuo il loro
più crudele marchio di fabbrica.

A farne le spese è il ritratto comunemente inteso, e proprio il
ritratto è stato protagonista della bella mostra da poco conclusasi a Palazzo
Reale di Milano, Il volto del ‘900. Da
Matisse a Bacon. Capolavori del Centre Pompidou
, con ottanta ritratti e
autoritratti suddivisi non in ordine cronologico, ma in maniera assai più
coinvolgente in sette sezioni tematiche, per assonanze. Emblema della mostra è il quadro Lo stupro di Magritte dove al volto si sostituisce un nudo femminile, incorniciato da lunghi, fluenti capelli biondi, steso a colori pastello, fluidi e dolcissimi, che ci comunica insieme repulsione e fascino.

Siccome questo è soprattutto un blog sulla letteratura, vorrei accostare a ogni opera presentata un brano letterario o poetico che, in qualche modo, la rispecchi. Incomincio dunque con i ritratti della sezione intitolata I segreti di un’anima, dove, attraverso il gesto quotidiano delle
donne, considerate nei secoli come sentine di peccati e di vizi, o come muse
ispiratrici ed esseri angelicate (in entrambi i casi visioni falsate della
femminilità),  l’artista cerca di andare
a fondo nell’interiorità della persona. 

Rossetto di Frantisek Kupka (1908), olio su tela, 63,5 x 63,5
(c) Centre Georges Pompidou

Nel ritratto di Kupka, Rossetto,
i colori freddi e acidi dominano incontrastati, e l’unico punto squillante è
proprio il rossetto e le labbra della ragazza pesantemente truccata. Lei non guarda nella
nostra direzione, ma, presumibilmente, verso uno specchio fuori dal
nostro campo visivo, e dal quadro. Lo stesso avviene con le prostitute dei ritratti di
Chabaud, dalle occhiaie e dai visi segnati dalla malattia.

Di questo mondo cittadino, spesso criminale, ci parla lo scrittore francese Émile Zola. Ecco un brevissimo estratto da Il paradiso delle signore:

Denise se ne veniva a piedi dalla Gare Saint-Lazare, dove il treno da Cherbourg l’aveva sbarcata dopo una notte passata sul duro sedile di un vagone di terza classe. 

Sensuale è invece la modella semisvestita di Matisse nell’opera Odalisca con i pantaloni rossi,
che  mostra forme generose e abbandonate
a indicarci l’ora pomeridiana più sonnolenta e sensuale, con lenti rivolgimenti
di luci e, forse… il frinire di cicale fuori dalla finestra e lo sciabordio delle
acque. Qui dominano i colori caldi, in primo luogo il rosso squillante del
pavimento e dei calzoni della donna, il giallo oro del ricamo sui calzoni
stessi e sul cuscino cui s’appoggia.

A lei dedico la poesia di Charles Baudelaire tratta da I fiori del male, La morte degli amanti:

Odalisca con i pantaloni rossi di Henri Matisse (1921),
olio su tela, 65 x 90 (c) Centre Georges Pompidou

Avremo letti intrisi di sentori
tenui, divani oscuri come avelli,
sulle mensole nuovi e strani fiori,
nati per noi sotto i cieli più belli.

Consumandosi a gara, i nostri cuori
come due grandi torce due ruscelli
verseranno di vampe e di fulgori
nei nostri spiriti, specchi gemelli.

Una sera di rosa e azzurro mistico,
un lampo solo ci vedrà commisti,
lungo singhiozzo carico d’addio.

Un Angelo, schiudendo indi le porte,
a ravvivar verrà, gaudioso e pio,
gli specchi opachi e le due fiamme morte.


Autoritratto di Francis Bacon (1971)
(c) Centre Georges Pompidou
Nella sezione dedicata agli Autoritratti, genere in cui, più di ogni altro, si chiama in causa il concetto del “doppio” e la psicanalisi,  l’immagine più disturbante, che ben
rappresenta il totale sfaldamento dell’io,
quasi la sua torsione, ingombro di incisioni come cicatrici, è l’Autoritratto
deformato di Francis Bacon. Il volto ci osserva da uno sfondo nero, da cui sembra spuntare come in un incubo.

Ci accompagna alla sua scoperta un passaggio tratto da William Wilson di Edgar Allan Poe nella traduzione di Renato Ferrari, De Agostini, 1985.


Permettete che, per ora, io chiami me stesso William Wilson. La bella pagina che in questo momento mi sta dinanzi non deve essere insudiciata dal mio vero nome. Questo è stato già fin troppo oggetto di sprezzo, di orrore, di vituperio per la mia stirpe. I venti indignati non hanno forse fatto conoscere la sua imparagonabile infamia alle più remote regioni del globo? O, reietto fra tutti i reietti più dissoluti! non sei forse morto per sempre per la terra?
Donna con cappello 
di Pablo Picasso (1935), 60 x 50
(c) Centre Georges Pompidou

Ormai il volto non si mostra più per quello che è, ma per
quello che evoca. Lontanissime sono le celebrazioni del proprio aspetto fisico
o del potere che si rappresenta, ed è più che mai evidente la perdita di
qualsiasi punto di riferimento “classico”. La forma non è più necessaria, i
piani si giustappongono nelle ormai note raffigurazioni di Brancusi, Picasso,
Matisse e Delaunay. In Donna con cappello di Pablo Picasso del 1935, la modella è vista in maniera grottesca, con un cappello che la fa
assomigliare a un pagliaccio, gli occhi rotondi e stupidamente fissi, il colore
steso a campiture piatte, senza sfumature. La donna ritratta sembrerebbe essere la fotografa, poetessa e pittrice Dora Maar, all’epoca compagna di Picasso e in rotta con lui.

La coppia è una comunità i cui membri hanno perso la loro autonomia senza liberarsi della solitudine.
(Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, 1949)

Tuttavia vi sono anche artisti che rispettano la forma alla lettera, e pure ci comunicano un senso di straniamento, come quando ci aspettiamo di vedere una cosa e ne vediamo un’altra. Anche le sculture rappresentano il profondo disagio di quel tempo, come le opere di Alberto Giacometti, dalle forme allungate e tormentate. 

Testa maschile di Joan Mirò (1935)
(c) Centre Georges Pompidou

E il ‘900 è stato anche il secolo dell’ascesa dei grandi totalitarismi, di qualsiasi colore politico, quelli che annullano qualsiasi forma di libera espressione e, come tale, anche la fisionomia dell’uomo, lo rendono macchina da lavoro o da sterminio, numero e schiavo.

Vi presento qui il quadro di Jon Mirò, Testa maschile, che di profilo irride e sbeffeggia mostrando la lingua; e, pure, sembra cercare aria come se una mano la prendesse alla gola.  Ad essa accosto un brano tratto dal famosissimo, agghiacciante romanzo di George Orwell, 1984, che meglio di ogni altro li rappresenta.

Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.


In chiusura all’articolo e della rassegna di opere scaturite da questo secolo contraddittorio, ricco di trasformazioni ma anche terribile, l’auspicio è dunque quello che l’Io si riveli davvero eterno come dice Beckmann. E anche, come dice Winston Smith al suo aguzzino O’Brien, prima di essere piegato dalle torture: “Ma in qualche modo verrete sconfitti. Qualche cosa vi sconfiggerà. La vita vi sconfiggerà.”