Cinque anni erano trascorsi dalla nascita di Antares, e
Aldebaran dei Crudeli scendeva in compagnia della famiglia e con un piccolo seguito di
servi e palafrenieri, lungo la strada che conduceva al castello del re. Questa compariva e scompariva nella foresta, fino a quando la compattezza degli
alberi non s’era diradata, e il principe era uscito del tutto dall’ombra verde e densa per
arrestarsi alla luce del sole. Davanti a lui, il Castello-Fortezza si ergeva a picco sul
fiume, aggrappato da un lato alla scoscesità montana, brulla come se le fondamenta dell’edificio avessero insterilito il terreno, e con l’altro rivolto
al fiume che gli scorreva sotto. In quella maniera, era uguale ad un grosso orso in bilico sopra
una roccia, fermo ad attendere il passaggio dei pesci su cui abbatterà la zampa. 
Enchanted City – Capricorn fantasy
di Mikalojus Konstantinas Ciurlionis (1907)
Ritto all’ingresso di quel castello, ed abbigliato in pompa magna,
il re dei Crudeli attendeva l’arrivo del gemello e della sua famiglia: una
corona d’oro massiccio, impreziosita da rubini, simili a gocce di sangue
cristallizzato, gli cingeva la fronte, ed una pesante spada di ferro dall’elsa
magnificamente lavorata gli pendeva sulla coscia. Al suo fianco, era la regina,
con le spalle curve e le mani intrecciate in grembo, la gola ed i capelli
chiusi da un velo bianco, fermato attorno alla testa da una coroncina d’oro;
indossava un abito di damasco grigio, trattenuto da una cintura ricamata di
fili d’oro, che proseguiva, sul davanti, in una pesante striscia intrecciata.
Aggrappato alla gonna sontuosa della madre, un bambino di circa cinque anni, dalla
grossa testa, aveva un pollice infilato in bocca. 
Non
appena scorse il Mago del Nord, re Fomalhaut sollevò una mano in direzione del gemello, e lo
chiamò: “Aldebaran! Fratello mio!”  Questi rispose brevemente al saluto, poi si curvò sul figlio, seduto in groppa
al cavallo davanti a sé, che stava reggendo con un braccio. Gli
disse: “Antares, quello è il re dei Crudeli: tuo zio Fomalhaut”. Coi suoi
grandi occhi scuri, il bambino guardò quella figura metallica e
luccicante e, cosa insolita, si fece pensieroso, quasi triste. Quindi spostò lo sguardo
sulla donna ed il bambino dalla grossa testa accanto a lui. “Tua zia Denebola e tuo cugino
Ofiuco,” spiegò Aldebaran, prevenendo la sua domanda. Antares non disse nulla,
ma si limitò a volgere lo sguardo verso la madre Lyra, che cavalcava al loro fianco
e che, come loro, s’era arrestata. Le sorrise allora, per farle comprendere
ch’era lieto della presenza d’un bambino della sua età al castello con cui avrebbe potuto giocare;
infine, volse la testa all’insu, verso il padre. “Andiamo da loro” disse,
deciso.
        
***
        
Nella stanza di Ofiuco, i due cugini giocavano sotto l’occhio attento delle balie. Pochi istanti prima, essi avevano fatto conoscenza all’ingresso del castello: una volta deposto a terra, Antares aveva salutato i sovrani con un lieve inchino. Poi aveva volto lo sguardo, amichevolmente, verso il bambino dalla grossa testa; quest’ultimo s’era tolto il pollice di bocca, e lo aveva fissato senza una parola, mentre dalle labbra, rimaste aperte, era uscito un rivolo di bava. Ofiuco aveva chiuso la bocca quando il bambino dai grandi occhi scuri gli si era avvicinato, ma non era fuggito, come faceva d’abitudine di fronte alle novità o agli estranei. “Salute, sono lieto di conoscerti. Mi fai vedere i tuoi giochi?” aveva chiesto Antares con gentilezza. Ofiuco aveva acconsentito alla richiesta e l’aveva preceduto nella sua stanza ingombra di trastulli. Là, la preferenza di Antares era andata ad un cavallino di legno e ad una piccola spada, mentre Ofiuco aveva preso in mano alcune marionette abbigliate in maniera bizzarra; essi s’erano dati a giocare, ognuno per proprio conto, andando, di tanto in tanto, ad assistere all’andamento delle rispettive storie.

Hailing of the Sun
di Mikalojus Konstantinas Ciurlionis (1906-1908)

D’un tratto, il piccolo Ofiuco si guardò attorno, vide le balie distratte, fece cenno al cugino di raggiungerlo. Da un angolino del suo letto, in gran segreto, tirò fuori un paio di bambole di pezza. Mostrava d’essere molto affezionato a quelle bambole, forse appartenenti alla figlia d’una serva del castello, poiché, seduto sul pavimento, egli si diede ad accarezzarle e ad abbracciarle con trasporto. Antares non diceva nulla, si limitava a guardarlo, perplesso, con la sua spada in mano.

Il cugino era così intento a cullarle fra le braccia, una per parte, da non udire un rumore di passi fuori dalla porta e da non avvedersi del padre e dello zio che entravano. “Che cos’è questa porcheria da femmine che hai in mano?” tuonò Fomalhaut. Alla vista del padre e del suo cipiglio funesto, il piccolo Ofiuco iniziò a tremare, come colto da un attacco d’epilessia, mentre il cugino lo guardava con gli occhi sgranati, e le bambole di pezza cadevano sul pavimento. Di furia, Fomalhaut s’avventò sulle bambole e le squartò, bestemmiando; quindi le gettò dalla finestra ed assestò un sonoro ceffone al figlio. Il bambino scoppiò in pianto disperato, più per il dolore causato dalla perdita del gioco favorito che per il manrovescio ricevuto e raddoppiando l’ira nera del padre. 
Tanto grande fu la sua disperazione da indurre Antares, solidale, ad imitarlo: egli ruppe, a sua volta, in pianto. Aldebaran si chinò e: “Il mio piccolo guerriero che piange,” lo rimproverò amabilmente. Nell’udire la sua voce Antares, subito rasserenato, gli sorrise fra le lacrime. “Vieni con me,” aggiunse il principe, tendendogli la mano. Il bambino esitò, temendo di lasciare il suo nuovo amico in  balia del re suo padre e senza alcuna protezione, ma Fomalhaut era già uscito dalla stanza a grandi passi, sbraitando. Il Mago del Nord soggiunse con un sorriso invitante: “Ti faccio vedere qualcosa che ti piacerà”. “Può venire anche lui?” chiese Antares, compassionevole. “Un’altra volta,” replicò il Mago del Nord con il suo sorriso enigmatico.