Il titolo originale del romanzo storico Il diavolo nella cattedrale è, in realtà, Tod und Teufel, in tedesco Morte e Diavolo. Il romanzo prende l’avvio nel 1260 durante la costruzione della splendida cattedrale gotica di Colonia, i cui lavori sono affidati alla direzione del mastro costruttore Gerhard Morart. Un ladro di mezza tacca, Jacop soprannominato la Volpe sia per la sua astuzia che per la folta chioma di capelli rosso fuoco, impegnato a rubare le mele dell’arcivescovo, sopra un ramo che si affaccia proprio sul cantiere, è il testimone involontario dell’omicidio di Gerhard. Un uomo con lunghissimi capelli biondi, dalla rapidità fulminea e all’apparenza non umana, e armato di una piccola, micidiale balestra, ha spinto l’uomo giù da un’impalcatura. Jacop, accorso vicino a Gerhard, ha fatto appena in tempo a raccogliere l’ultima frase, sussurrata prima di morire.

La copertina del romanzo,
nell’edizione economica

Da questo evento delittuoso si dipana tutta la trama della narrazione, in special modo l’inseguimento compiuto dal biondo sicario, e che sembrerebbe essere il Diavolo in persona, deciso a sbarazzarsi dell’inopportuno testimone. Egli semina morte al suo passaggio, attraverso una città in piena espansione e ricostruita molto bene nella sua topografia e nei suoi riti – con luoghi medievali per antonomasia come i grandi mercati, le taverne-bordello, le concerie, le processioni religiose o le cerimonie di arrivo dei potenti, i conventi e i monasteri, o le mura con la sua varia umanità di miserabili e vagabondi accampata a ridosso. Questa città così fiorente è tuttavia dilaniata da oscuri intrighi e lotte per il potere tra la fazione dei nobili, esautorati dall’arcivescovo Konrad, figura potentissima, e quella dell’alta borghesia mercantile in piena ascesa politica e vera garante dell’autonomia di Colonia.

L’autore è particolarmente abile nel tracciare con vivacità il ritratto di una città formicolante, composita ed articolata, e quello psicologico di alcuni personaggi, specie con l’uso dei dialoghi che sembrano essere il suo vero punto di forza. Molto ben delineato mi è sembrato il personaggio di Jaspar Rodenkirchen, monaco eruditissimo dalla lingua affilata, e particolarmente incline a godere delle gioie di Bacco, o lo stesso Jacop la Volpe oppresso dalla rimozione di un’infanzia misera e violenta.

Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo
di Albrecht Duerer (1513) –
Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe
http://www.kunsthalle-karlsruhe.de/

Molto meno convincenti sono altri aspetti, ad esempio l’obiettivo dell’intrigo ordito nelle alte sfere appare chiarissimo anche al lettore meno smaliziato, e in tempi piuttosto rapidi… ma non così ad alcuni personaggi annoverati tra i più intelligenti, il che fa calare di molto la tensione narrativa. Alcuni altri personaggi sono lasciati al loro destino, come la fanciulla Richmodis – un po’ troppo indipendente per l’epoca di cui si parla – di cui Jacop è innamorato, e che lo aiuta a salvarsi in più di un’occasione in quanto il ragazzo ha la capacità di essere sempre nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

Un’altra nota critica è che, nell’edizione economica, c’è una mappa della città cui il lettore dovrebbe fare riferimento quando sono nominate strade, piazze e luoghi, del tutto inservibile a causa del carattere minuscolo e di fondini grigi (mi auguro che nell’edizione lussuosa e di formato più ampio sia più chiara). Questo si nota ancor più a causa delle minuziose descrìzioni degli itinerari nella città, a volte perfino troppo dettagliate.

Il vero problema però è il finale, dove la rivelazione di chi sia davvero l’assassino biondo e del suo passato non è poi così incisiva come le premesse potrebbero farci sperare. La sua candidatura a Diavolo si appanna assai, e la classica spiegazione nella scena del confronto tra lui, Jacop e Jaspar risulta farraginosa e impraticabile (com’è ovvio non posso rivelare niente!). Insomma, la chiusa appartiene al novero di quelle che, in un romanzo dall’ottimo inizio e dalle altrettanto eccellenti premesse, arriva in fondo con il fiato corto. Si avverte che l’autore ha esaurito la carica iniziale, vuoi per mancanza di idee vuoi per stanchezza, e il suo “romanzo-soufflé” si sta sgonfiando dopo essere stato estratto dal forno.

Tutto sommato, quindi, un buon romanzo storico che è in grado di farci trascorrere ore piacevoli e divertenti, ma che non regge il confronto con “I pilastri della terra” di Ken Follet o “Il nome della rosa” del nostro Umberto Eco.


Per approfondire l’argomento dei finali nel romanzo, vedi anche il mio recente post sulle tecniche di scrittura:
http://ilmanoscrittodelcavaliere.blogspot.it/2013/11/conversazione-xxi-un-finale-col-botto.html